Destiny - Avventure ai margini della galassia
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La guerra era finita da un paio d'anni. Venni congedato col grado di capitano e iniziai la mia vita da normale cittadino. Otto anni di guerra avevano annullato ogni tipo di umanità in me e avevano cancellato anche il mio nome, in tutto quello schifo un nome serviva a poco, servivano solo la forza e il coraggio di ricominciare a vivere la propria vita, come si faceva prima del conflitto stesso. Tutti mi chiamavano il Capitano. Tutti si fa per dire, diciamo quei pochi rimasti in vita che mi conoscevano e che ancora avevano la cattiva abitudine di parlarmi. Dopo la guerra, la maggior parte dei soldati e dei civili sopravvissuti ritornarono nelle loro città di origine, armati di speranza, coraggio e grande forza di volontà unirono i propri sforzi per ricostruire quel vecchio pazzo mondo. Altri restarono nell'ambiente militare, serviva qualcuno che tentasse, invano, di mantenere l'ordine nel caos venutosi a creare dopo il conflitto, soprattutto nei pianeti periferici, quindi si allearono con le forze dell'Alleanza per portare e ristabilire la civiltà; altri invece divennero semplici sceriffi nelle città che stavano riemergendo pian piano dalle macerie e dalla polvere. I meno fortunati, o forse erano proprio loro i più fortunati, rimasero negli ospedali, mutilati, feriti gravemente o con il cervello totalmente distrutto dalla pazzia e dalle atrocità viste e vissute. E infine c'erano gli uomini come me, quelli che non riuscivano a trovare la loro giusta collocazione nel nuovo mondo che stava nascendo, quelli che rimanevano attaccati ad un ideale che non c'era più. Quelli che cercavano di sopravvivere, nonostante avessero perso tutto. Dopo aver girovagato per qualche tempo senza meta e senza scopo, decisi di tornare al mio villaggio, dove ero nato e dove avevo vissuto fino allo scoppio della guerra. Era uno squallido e puzzolente villaggio di pescatori, pescivendoli e alcolizzati, situato lungo la costa sud; un giusto ritrovo per i falliti e per chi volesse cancellare ogni traccia di sé. Il conflitto mi aveva portato via tutto ciò che avevo: la casa, la barca per andare a pesca, il lavoro, anche il criceto mi aveva abbandonato, lui e la sua stupida gabbietta con quella ruota che emetteva un fastidioso cigolio ad ogni rotazione; mi restavano quei vestiti che indossavo e una sacca con alcuni ricambi e oggetti personali. Mia moglie mi lasciò quando decisi di arruolarmi nell'esercito, quando insieme ad altri migliaia di idioti partii per andare a combattere per un ideale di libertà e d'indipendenza che ormai neanche ricordavo più; da allora non ho saputo più niente di lei ed io non l'ho più cercata. Quando arrivai in quel posto dimenticato anche dai cartografi, incontrai un vecchio amico, l'unico che mi restava tra i civili, l'unico che mi restava in quel posto. Mi ospitò nella soffitta della sua casa; era una stanza sporca, umida e con spifferi che passavano da ogni fessura, anche un topo di fogna avrebbe provato ribrezzo nel vederla, ma a me andava bene, avevo un letto su cui dormire, un tetto sopra la testa e dall'alto della loro casa potevo vedere il mare. Quella distesa liquida, era una pozza d'acqua salata e puzzolente, che venne popolato di pesci in seguito ad un lungo processo di terra formazione diversi anni prima, piena di escrementi e con centinaia di cadaveri sui suoi fondali, ormai era più un cimitero che un mare in cui pescare. Avevo bisogno di riflettere e quello schifo lontano da tutto mi sembrava perfetto per lo scopo, in fin dei conti era sempre meglio dei posti in cui dormivo durante la guerra, quando riuscivo ad appisolarmi tra un'esplosione e l'altra. Il tizio era sposato da qualche anno con una donna non troppo alta, magrolina, coi capelli sempre sporchi e unti, la sigaretta spenta in bocca, un grembiule lurido e mal ridotto; aveva un alito così pesante da far dimenticare il puzzo di pesce marcio che c'era nell'aria. Con lei avevo un buon rapporto. Era sempre gentile e rispettosa, mi accolse nella sua casa senza fare storie. Al mio arrivo non disse niente, mostrava un'insolita timidezza nei miei confronti, ma dopo un paio di giorni iniziò a manifestare dell'interesse nei miei riguardi; aveva un modo molto femminile per salutarmi quando uscivo e quando entravo nella loro casa. All'uscita mi scagliava addosso frasi tipo: - Ehi tesoro, cambia la serratura, il relitto sta uscendo - ; - Bene, per qualche ora non sentiremo la tua puzza - ; - Torna alla tua fogna, è lì che devi stare. - Anche al rientro era solita accogliermi con la solita gentilezza: - Quel pidocchio è tornato, la giornata di merda non è finita - ; - Non pensavo che saresti rientrato così tardi, avresti potuto mangiare gli avanzi della cena, se ci fossero stati - ; - Cazzo, ma nessuno ti ha messo una pallottola in fronte e posto fine alla tua schifosa e inutile vita?! - Mi adorava! Il marito non interveniva mai, la lasciava parlare, era sempre stato un tipo di poche parole e quando avevo saputo che si era sposato, avevo pensato che una qualche sgualdrina, stanca del marciapiede, lo avesse incastrato solo perché non era più merce valida per stare sul mercato. Lui si limitava a salutarmi mentre sedeva su di una vecchia poltrona malandata, con le mutande sporche e una canottiera di cui ormai restava solo un ricordo per i buchi che aveva. Se ne stava lì la maggior parte del tempo a guardare fuori dalla finestra, a bere birra, mentre la vita gli sfuggiva dalle mani. Una mattina uscii da quel porcile che il sole era già alto da un pezzo. Arrivato alla porta, venni salutato dalla signora come suo solito. - Già che ci sei, buttati in mare e vedi di affogare! - Sentivo che le sarei mancato durante la mia assenza. Me ne andai in strada, verso il pontile. Nell'aria c'era la solita puzza di pesce marcio che non voleva proprio abbandonare quel posto. Lungo la via, delle donne entravano e uscivano da alcuni negozi. Il mercato ittico era in piena attività, mancavano solo i clienti; un tempo quella piazza riforniva le grandi città all'interno della costa, oggi riforniva solo il villaggio; in pochi venivano a prendere il pesce da quelle parti, c'erano zone migliori altrove. La vita nel paesino, comunque, si stava riprendendo giorno dopo giorno. Mentre osservavo quello squallido scenario, udii dei colpi di pistola provenire dalla strada. Di fronte al bar della piazza, due idioti avevano deciso di passare la giornata impegnandosi in una stupida sparatoria. Uno dei due venne colpito alla gamba, perse l'equilibrio e cadde a terra; urlava per il dolore e teneva le mani sulla ferita che sgorgava sangue. Il secondo idiota, dall'altra parte della piazza, faceva gesti con le mani, sventolava la sua arma in aria, sparando dei colpi e gridando. - Rialzati! Fatti sotto lurido verme! - Incuriosito, mi avvicinai al tizio ferito; lo guardavo mentre nuotava in quella pozza di sangue e si dimenava per il dolore; piangeva e urlava, a terra, di fronte a me. A pochi centimetri dai miei piedi, era caduta la sua pistola, era una semiautomatica, con la canna color argento e l'impugnatura in gomma dura e nera, una di quelle che venivano date in dotazione ai soldati dell'indipendenza durante la guerra. La fissai per alcuni istanti, dopodiché decisi di raccoglierla; la guardavo nella mia mano destra e, stringendola forte, mi venne in mente che erano anni che non ne impugnavo una. L'idiota dall'altra parte della via vide la scena. - Fantastico. Abbiamo un buon sammaritano. Vuoi forse salvare l'onore di quel pezzente e sfidarmi in un duello? - urlò mentre mi puntava la sua arma. Non avevo nessuna intenzione di fare stupidi duelli. Non ero lì per quello. Ma l'idiota continuava a urlare e... a sparare. Aveva una pessima mira, fu un colpo di fortuna a colpire il povero diavolo che stava a terra, o forse, cosa più probabile, un colpo di rimbalzo. Comunque, mi fece perdere la pazienza, soprattutto perché non avevo mai sopportato le persone che urlavano. Gli rivolsi contro la pistola e iniziai a camminare verso di lui, con passo lento e senza distogliere lo sguardo dal mio obiettivo. - Ehi tu... - tentò di biascicare qualcosa, ma detto tra noi non ero così curioso di sentire cosa aveva da blaterare. BANG BANG! Furono le ultime cose che si sentirono in quella piazza. Dopo gli spari scese immediatamente il silenzio tutto attorno, alcune donne che erano già lì a guardare quella pietosa scenata restarono immobili a osservare quel tizio che cadeva a terra, lasciando scivolare via la sua arma, ormai scarica. Mentre diceva le sue ultime parole, avevo sparato due colpi che lo avevano centrato prima alla gola e poi dritto in testa. L'idiota era ormai un idiota morto e la pace venne ristabilita. Durante il conflitto ero stato anche addetto a missioni d'infiltrazione; mi infiltravo in accampamenti nemici per sabotaggi o per rubare informazioni; ero solito uccidere il nemico assalendolo alle spalle, piazzandogli un coltello alla gola o con le mani per spezzargli il collo, ma quando ce lo avevo di fronte sparavo sempre due colpi, il primo alla gola e il secondo alla fronte. Perché alla gola? Semplice amico mio, colpendolo lì non avrebbe avuto voce per urlare. Restai qualche istante a fissare quel cadavere. Notai con soddisfazione che i fori erano stati precisi e ben piazzati; non avevo perso la mano, nonostante il tempo. Ero ancora un assassino figlio di puttana. In quell'istante ebbi un'illuminazione, sapevo cosa dovevo fare per vivere: diventare un cacciatore di taglie. Poteva essere una buona alternativa per far soldi fino a quando non avrei trovato qualcosa di meglio. Avrebbe dato un senso al mio girovagare senza scopo nel nuovo mondo che stava nascendo e che mi piaceva sempre meno. Quindi inserii la sicura alla pistola e la misi nella cintura dei pantaloni, dietro la schiena, mi voltai e mi diressi verso casa.
Michele Scalini
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