Volume n.2 della serie norvegese.
Claire
Fece una passeggiata per le vie del centro, fiancheggiate dalle vecchie case di legno in stile canadese per cui la città di Tromso andava famosa. Passò davanti all'antica cattedrale neogotica costruita interamente in legno, la chiesa protestante più a nord del mondo, altra meta turistica, ma non gli interessava entrarci. Nulla gli interessava, in realtà. Si fermò in un fast food per uno spuntino. Un gesto automatico, dato che aveva l'intervallo di pranzo, ma non sentiva nessun appetito. Seduto al primo piano del locale, davanti a un hamburger guarnito di pancetta arrostita e patate fritte, contemplò il panorama del piazzale sottostante coperto di neve, che a malapena si distingueva dal cielo uniformemente grigio chiaro. L'acqua del porto, le cui onde cupe si alzavano sospinte dal vento, e le montagne circostanti imbiancate di neve completavano l'impressione di gelo. Gelo fuori e gelo dentro. Sognò un posto a sud, uno qualsiasi, dove splendesse un sole caldo, anche solo tiepido. Chissà se gli avrebbe riscaldato l'anima? Non l'aveva mai desiderato come in quel momento. Si consolò un poco pensando che presto avrebbe avuto luogo, come ogni anno, la festa per il ritorno del sole, che, pur centellinando la sua presenza, sarebbe apparso a spezzare la notte polare ogni giorno qualche minuto in più, fino a giungere all'estate, in cui non calava mai il buio, neppure di notte. Da un estremo all'altro, pensò. Il piacere di vivere vicino al polo nord. Passò una donna in giacca a vento rossa. Indossava un berretto di lana azzurra da cui spuntavano lunghe ciocche bionde e aveva le gote arrossate dal freddo. Camminava piuttosto in fretta, trascinando un bambino di pochi anni dall'aria riottosa. Stig Olsen balzò istintivamente in piedi e si avvicinò alla vetrata per vedere meglio. Emma, urlò una voce silente, acuta e dolorosa, dentro la sua anima; senza riflettere, batté le dita sui vetri per attirare la sua attenzione, ma la donna non lo udì o non volle udirlo. Si accorse che un paio di persone sedute ai tavoli vicini si erano voltate a guardarlo e tornò a sedersi imbarazzato. Non è servito a niente farsi trasferire qui a Tromso. Credevo che lasciare Honningsvag fosse la soluzione giusta per dimenticare, e invece mi sono sbagliato. Eccomi qui a dare spettacolo come un'idiota, solo perché ho visto una donna che le somiglia vagamente. Sai quante ce ne sono, simili a lei! Ma non sono lei. Da quando la moglie Emma, dopo un lungo periodo di dissapori, se n'era andata nel più brusco dei modi, lasciando un laconico quanto improvvisato biglietto sul tavolo di cucina, si era gettato come non mai sul lavoro per evitare di pensare, in modo da arrivare a sera così morto di stanchezza da non riuscire a ricordare nulla. Solo dormire, aiutandosi anche con qualche bicchiere di birra in più. Ma non poteva continuare così in eterno. A Honningsvag non c'era via, pietra o luogo qualsiasi che non gli ricordasse lei. Era là che si erano conosciuti, e là erano vissuti fino alla sua fuga, che l'aveva ferito a morte. Dopo il caso del serial killer di Gjesvaer, soprannominato - macellaio - , perché tagliava a pezzi le vittime per poi ricomporle a modo suo in un orrido puzzle, un'indagine che l'aveva tenuto impegnato parecchio, si era afflosciato su se stesso, ormai privo di adrenalina, e la depressione latente tenuta in scacco fino a quel momento l'aveva avuta vinta in pieno. Non si poteva certo dire che ci fossero casi interessanti in quei luoghi semi dimenticati da Dio, soprattutto d'inverno; solo piccoli crimini trascurabili e di scarsissimo interesse, nulla al livello di quello del macellaio, che gli aveva occupato la mente fino a fargli dimenticare la sua realtà personale, ossia che la sua vita era stata rovesciata come un calzino. - Tu non puoi darmi un figlio, questa è la tragica verità, Stig! - Le parole di Emma gli frustarono l'anima per l'ennesima volta, come se fosse presente anche ora, a sputargliele in faccia. Fino a quando? Si sentì lacerare dentro, come se un colpo di cinghia gli avesse aperto il petto. Spinse da parte il piatto. Lo scarso appetito se n'era andato del tutto. - Potremmo adottare un bambino, Emma... - - No, mai. Non è lo stesso. Come fai a dire una cosa del genere! - Si sedeva in un angolo e si metteva a piangere. Se avesse avuto un lavoro o altri interessi, avrebbe potuto superare quella realtà. Forse. E se mi avesse amato davvero, almeno la metà di quanto io amavo lei. Ma Emma, sposando me, aveva scelto di fare la mamma a tempo pieno e di dedicarsi alla casa e alla famiglia. Io ero innamorato perso e avrei accettato qualunque cosa. Sì, qualsiasi. Perfino... Non voglio pensare a quanto sono caduto in basso. Per fortuna nessuno lo sa. Andava tutto bene tra noi, fino a quando... - Stig, sono sei mesi che proviamo ad avere un bambino e non resto mai incinta. Come mai? - - Abbi pazienza, amore. Non è detto che ci si riesca subito. - - Stig, è più di un anno che ci diamo da fare, ma non succede niente. C'è qualcosa che non va in uno di noi. Oppure in tutti e due. Dobbiamo fare delle analisi. - Bevve una lunga sorsata di birra, l'unica cosa che gli andasse giù. Scorreva fresca e frizzante nella gola, sembrava trascinare via con sé l'amarezza dell'animo. Azospermia. Quando ho letto il responso mi sono sentito un condannato a morte. Perché proprio a me? Non perché avere dei figli fosse lo scopo primario della mia vita. A me bastava lei, non avevo bisogno di altro. Ma intuivo già che, a causa di questo, l'avrei persa. Cosa non ho fatto per legarla a me! Ho violato la legge, la deontologia professionale, tutto, per lei! Se ci penso, ancora mi si accappona la pelle. Mi vergogno di me stesso. Non sono neppure degno di ricoprire la carica che ho. A causa sua. In quel momento la odiò. Deglutì un grumo di saliva amara e ci bevve dietro una lunga sorsata di birra, come se avesse il potere di lavare via tutto, di purificarlo. Il suo sguardo torvo vagò di nuovo lungo il piazzale. La donna non c'era più, inghiottita dal vento che soffiava con forza. Sarà andata a casa col suo bambino. Una famiglia, una casa felice. Come Emma, che ha trovato un altro uomo e aspetta un figlio. Però... Un dubbio doloroso come una frecciata si insinuò nei suoi pensieri Se mi avesse amato sul serio, così come io amavo lei, avrebbe accettato la realtà e si sarebbe accontentata di un'adozione. O anche due. Sospirò e fece per alzarsi. In quel momento un vassoio colmo si posò sul tavolo, di fronte al suo, e una voce dall'accento straniero chiese se il posto fosse libero. Si riscosse dai suoi pensieri e annuì automaticamente, senza alzare lo sguardo. La nuova arrivata, i lunghi capelli castani e lisci che uscivano come tende setose dal berretto di montone, si sfilò il cappotto imbottito, appendendolo ad un gancio sul muro. Egli allungò una mano per togliere il giubbotto dallo schienale. - Te ne vai già? - Gli occhi di lei lo fissarono interrogativi - Non hai mangiato niente - . Indicò il piatto pieno. - Ho fretta - borbottò Stig, con tono secco, sempre evitando di guardarla. - Peccato. Speravo di pranzare in compagnia. Odio farlo da sola, fissando il vuoto. - Che voce argentina. Gradevole. Allegra. Per un attimo gli parve che quella voce cancellasse con un colpo di spugna il suo dolore. I suoi occhi si posarono involontariamente su di lei. Era davvero graziosa. Grandi occhi castani tendenti al verde brillavano intensi nel viso bianco e rosso come una mela, dai lineamenti delicati e gentili che ricordavano quelli di una bambola. Doveva avere poco più di vent'anni. Diversa da Emma e da molte donne del posto, forse più attraente nella sua diversità. I suoi pensieri assunsero un suono prima che se ne rendesse conto. - Se vuoi resto qui, così non ti senti sola. - Lei sorrise. Una bocca rosea e carnosa al punto giusto. - Però mangia qualcosa anche tu. - Stig avvicinò a sé il piatto che aveva spinto di lato e tagliò un pezzo di carne. Era gustosa. Cotta a puntino. E non ancora fredda. - Non ti ho mai visto in questo locale. Eppure ci vengo spesso - cinguettò la ragazza. - Sono nuovo della città. Mi trovo qui da una settimana. - - Allora è normale. - Si guardò intorno, mettendo in bocca un paio di patatine fritte - Fa un freddo terribile in questo posto. - - Beh, non siamo molto distanti dal Polo Nord. - Stig fece un mezzo sorriso tirato - Mi pare ovvio. - - Lo dicevo tanto per dire. Ci sono abituata; anche dalle mie parti, non si scherza. - - Da dove vieni? - - Montreal. - - Ecco il perché del tuo accento. - - Si sente molto che sono straniera, vero? - - Sì, abbastanza. Che male c'è? - - Niente. Sono qui da qualche anno e speravo di aver imparato piuttosto bene la vostra lingua. Ho anche seguito un corso. - - La parli bene, infatti. - Stig era incuriosito e aveva una gran voglia di chiederle come mai si trovasse in Norvegia. Non era un luogo in cui la gente di solito si trasferisse per lavorare, semmai andava in Svezia, dove c'era un maggior numero di attività, ma non voleva apparire invadente e dominò il suo istinto poliziesco di porre domande. Fu lei a venirgli in aiuto. - Sono venuta in Norvegia per seguire il mio ragazzo, che ho conosciuto in Canada. Avevo diciotto anni e mi ero innamorata alla follia; ero molto giovane e inesperta, non mi sono posta tanti problemi. Sono scappata via con lui. Beh, acqua passata; non voglio annoiarti. A farla breve, è finita male, ma sono rimasta qui lo stesso. Mi piace. A Montreal non ho niente da rimpiangere; la mia famiglia non esiste più, gli amici di un tempo li ho persi, ormai; inoltre la vita è molto cara da quelle parti. - - Neppure qui è a buon mercato. - - Non c'è confronto. - - Io trovo che la notte polare sia molto triste. Non mi ci sono mai abituato, benché sia nato qui, e ogni anno vado in depressione per tutta la durata del periodo; un fatto piuttosto generalizzato, da queste parti. Non capisco come qualcuno possa scegliere di vivere in Norvegia. - Lei rise. - Pensa che io, invece, la trovo affascinante. - Stig si strinse nelle spalle. - Tutti i gusti sono gusti. Forse per te ha ancora il fascino della novità, ma, se resti qui a lungo, ti stancherai, dammi retta. Io, se potessi, andrei a vivere altrove, ma col mio lavoro non si parla di andare all'estero. Al massimo potrei arrivare fino a Oslo. Lì, almeno, non c'è la notte eterna. Finora mi hanno concesso il trasferimento solo qui. - - Dov'eri prima? - - A Honningsvag, ancora più a nord. Magari, in futuro riuscirò a spostarmi un altro po' verso sud. - - Di che cosa ti occupi? - - Sono un poliziotto. Un commissario, per precisione. - - Uh! - - Come, uh? - - Mi incuti soggezione. - Rise lei, con una nota stonata. - Hai commesso qualche reato? - scherzò lui. - Se così fosse, pensi che verrei a dirtelo? - Rise più forte ed egli rimase abbagliato dai suoi denti bianchi che brillavano come perle tra le labbra rosee e carnose. Senza rendersene conto, divorò il suo piatto senza mai smettere di guardarla.
Marialuisa Moro
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