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Autore: Bernardo Sandri
Il brivido di un bacio
Romanzo Autobiografico
Lettori 3728 38 56
Il brivido di un bacio
Morire dentro

Era il dicembre del 1986; e, sebbene intorno a me si potesse percepire l‘aria felice del Natale, purtroppo la mia vita si stava per colorare del grigiore della rabbia e della tristezza: una volta ancora stavo per litigare con quella che avrebbe dovuto essere la ragazza che mi amava ed invece stava per prendere forma l'ennesima incomprensione fra noi. In quel preciso istante anche quel piccolo pacchettino con un nastro colorato avrebbe perso di importanza perché la nostra discussione ci avrebbe portato distanti, chiusi nelle nostre posizioni di reciproca indifferenza. La mia fidanzatina Gabriella, con la quale avevo un rapporto burrascoso da circa due anni, mi stava per comunicare che, nonostante suo padre le avesse dato libertà di raggiungermi a Genova per il veglione di fine anno, lei avrebbe preferito rimanere in quella località delle Dolomiti così distante da noi e dal nostro amore. Eravamo molto giovani e il nostro era un sentimento immaturo e molto guidato dai nostri ormoni; purtroppo solo a me risultava così particolarmente intenso e coinvolgente. Anche quella volta percepii quella sua voglia di stare con i suoi famigliari come il solito affronto, perché era esattamente l'opposto di quello che avrei voluto io. Per me era del tutto naturale passare il veglione di san Silvestro insieme alla mia ragazza mentre per Gabriella sembrava più importante rimanere con la sua famiglia e in compagnia di quella gente abbiente di cui non facevo parte.
Per me trascorrere il 31 dicembre distanti era come se sprecassimo un occasione per stare insieme perché avendo la pausa scolastica e il mio lavoro come commesso in un negozio
di fiori, avrei potuto vederla nel mio tempo libero. Purtroppo a
mia insaputa Gabriella aveva deciso di raggiungermi solo quando per me sarebbe iniziata la scuola e per lei le lezioni dell'università ma questa sua decisione mi trovava impreparato lasciandomi tristemente contrariato. Io cercavo di farle capire che l'avrei
voluta vicina mentre lei, apparentemente sorda ai miei sentimenti e alle mie parole, continuava a ripetermi che saremmo potuti stare insieme dopo alcuni giorni. La nostre vite si erano incrociate in un sentimento nervoso: eravamo completamente diversi sia caratterialmente che per estrazione famigliare; infatti mentre io mi impegnavo per terminare i miei studi, lei frequentava l'università come un passa tempo senza metterci impegno e solo per rendere felice quel padre che la trattava come una principessa viziandola in modo tale che io non avrei mai potuto fare. Gabriella era figlia di un uomo che si era fatto da solo e che dall'alto della sua posizione mi guardava con molta diffidenza senza pensare che proprio lui la stesse rovinando: le permetteva di andare in giro su di una Volvo 760 quando lei invece sarebbe dovuta andare in quell'aula dell'università di economia proprio come aveva fatto lui dopo le sue giornate di lavoro. Quell'uomo mi vedeva come un ragazzo più interessato ai suoi soldi che all'amore di quella figlia che da troppo tempo litigava con me, mentre io provavo per lei un sentimento molto vivo e sincero: certo per me era motivo di orgoglio avere una ragazza che possedeva un'auto da 50 milioni di lire in un periodo in cui un appartamento ne costava poco di più. Quando i nostri litigi riuscivano ad allontanarci, rimanevamo seduti fissando fuori dal finestrino ma da li a poco ci saremmo voltati a cercare il viso dell'altro e, mentre il mio sguardo si sarebbe perso nel suo, le nostre labbra sfiorandosi avrebbero cancellato le lacrime che bagnavano i nostri occhi e allo stesso tempo avrebbero dato nuova vita a quel ponte per la felicità che mille volte avevamo attraversato assieme per fare in modo che il nostro amore sbocciasse nuovamente proprio come se non si fosse mai spento. I suoi baci riuscivano a cancellare la tristezza di sospiri singhiozzanti che nel silenzio della mia rabbia mi consumavano dentro per poi indurmi a porre fine al mio disagio cercando le sue labbra. In quei due lunghi anni non passò un mese in cui io non piansi per lei ma come ho già detto il nostro modo di stare insieme era molto inesperto, egoista e sopratutto falsato da quelle emozioni che ci donavano i nostri sensi, perché quando le nostre labbra si abbracciavano di nuovo noi due perdevamo il senso della realtà e cancellavamo ogni parola detta con la collera. I nostri corpi erano diventati la panacea ai nostri contrasti e più litigavamo e più avevamo bisogno di fare pace e più facevamo pace e più avevamo bisogno di litigare. Era diventata quasi una necessità di sopravvivenza perché già sapevamo entrambi che, nonostante i nostri litigi, prima o poi le nostre carezze avrebbero cancellato il nero dai nostri cuori. Ero davvero innamorato di quella ragazza e anche se litigavamo il mio amore non si spegnava mai, lei aveva sempre un posto riservato nei miei pensieri anche quando la mia rabbia avrebbe dovuto farmela odiare, ma quando ci si altera con chi si ama non si smette di amare ma ci si allontana fino a quando non si capisce che l'unica cosa veramente importante è la sua vicinanza. Sebbene fossi molto incazzato, sapevo che ben presto i suoi baci avrebbero accelerato il battito del mio cuore perché a me non importava nulla dei soldi di suo padre, a me bastava il dolce tocco delle sue labbra e il resto del mondo che ci circondava sarebbe sparito disperso lontano da noi. Questo era il mio primo amore intenso, ero inesperto e tratto in inganno proprio dal mio cuore. Vivevo in un mondo falsato dalle mie acerbe emozioni che mi facevano credere che entrambi vivessimo le stesse identiche sensazioni, ma la realtà era differente e così non fui mai in grado di prendere quelle decisioni importanti per il bene comune. Quella ragazza poco più grande di me era il sorriso che accendeva la mia felicità e sebbene ogni tanto questa si spegnesse, il suo sguardo riusciva sempre a farmi ritornare sereno e felice: i suoi occhi erano la chiave che apriva le mie difese facendole capitolare. Adesso le feste natalizie avrebbe dovuto rendermi un po'più tranquillo ed invece io ero sempre triste e incazzato proprio perché ero da solo senza lei. Dentro di me ero felice che Gabriella si potesse divertire sciando ma rimanevo contrariato dal fatto che in quella sera a me così cara la mia fidanzata non ci sarebbe stata. Così pur potendo tollerare che lei si divertisse sciando con i suoi amici ricchi e alla moda mentre io lavoravo, la sua assenza al veglione di fine anno proprio non riuscivo a digerirla. Lei era la mia fidanzata e quando il conto alla rovescia avrebbe sancito la fine del vecchio anno e l'inizio di quello nuovo, io avrei voluto che quest'ultimo nascesse proprio con un nostro bacio con lei desiderosa di porgermi le sue labbra. ero cosi deluso che non le lasciai nemmeno terminare la telefonata con cui mi stava informando della ritardata partenza, che già stavo chiudendo la comunicazione. Forse un sesto senso mi stava nascendo dentro perché io in cuor già sapevo che non sarebbe venuta e infatti nuovamente ero rimasto solo senza lei e la mia amarezza mi faceva male nel più profondo del mio animo. La sua lontananza in quelle feste mi aveva ferito così tanto che sentivo il mio cuore pulsare nelle tempie. Gabriella forse era combattuta fra me e i desideri di suo padre al quale di certo non risultavo simpatico perché figlio di un semplice ed onesto operaio della SIP e quindi non di sangue blu come avrebbe voluto lui. Certo in casa avevamo molti problemi economici anche perché mia madre aveva il vizio del gioco ma per me il soldo non aveva mai avuto nessuna importanza nel nostro amore. Così spesso per non deludere sua papà lei optava per accontentare lui lasciando me sgomento e triste.
Comunque trascorse le feste, la scuola riaprì le porte delle aule e in quella mattina di gennaio mi svegliai con uno strano freddo addosso che penetrava fin dentro le mie ossa. Fuori la notte avvolgeva le strade mentre in casa mia io percepivo uno strano malessere che non avevo mai provato prima. Mi vestii velocemente ma con una fatica che non conoscevo e dopo aver preso il mio zaino con i libri, mi diressi a scuola pensando che forse non avevo ancora digerito lo sgarbo che la mia fidanzata mi aveva nuovamente dedicato. Camminavo per la strada con le lacrime che bagnavano il mio viso, infreddolito come il mio cuore, perché la sua lontananza mi aveva fatto molto male e sebbene non fosse la prima volta che questo accadeva, ancora non riuscivo ad abituarmi alla sua distanza. Purtroppo, in quella mattina, il gelo che provavo non era un freddo di solitudine: da lì a poco avrei scoperto che la vita può terminare in un sol momento senza che tu possa farci nulla.
Così sulla fermata dell'autobus guardai la luna che, invece di illuminare gli occhi di Gabriella, mi guardava triste perche non sapevo dove lei fosse. Mille pensieri mi solcarono la mente ferendo o accarezzando il mio cuore: forse aveva conosciuto altre labbra o forse era distesa nel letto a sognarmi ma di certo non era li con me. A inizio lezioni la mia testa era completamente distante da quell'aula e mentre pensavo a lei fra le braccia di un altro, il mio naso cominciò a sanguinare copiosamente. Pensai che il mio nervoso sommato alla mia sinusite avevano fatto danni e invece, recatomi in bagno, scoprii che sul mio corpo erano apparsi dei lividi che segnavano la mia pelle proprio come la sua indifferenza aveva segnato il mio cuore. Improvvisamente provai voglia di urinare e scoprii che la mia vescica era colma di sangue che uscendo senza recarmi alcun dolore colorava di rosso la ceramica del bagno. Quel colore aveva i tratti di un presagio funesto e per me erano tutte nuove sensazioni che iniziavano a impaurirmi un po': il mio animo era ferito e il mio corpo aveva qualcosa che non andava per il verso giusto. Tornai a casa e quando giunse il dottore mi spedì direttamente al pronto soccorso dove mi ricoverarono e senza perdere troppo tempo mi sottoposero al prelievo del midollo spinale. Ero ancora troppo orgoglioso per ammetterlo comunque mi stavo letteralmente - cagando addosso - anche perché tutti quegli sguardi preoccupati stavano insinuando in me un nuovo timore. Se dentro il mio cuore mi sentivo solo, adesso ero anche impaurito perché tutti quei medici con i loro sguardi pensierosi non mi davano sicurezza e mi trasmettevano nuovi dubbi. Come un emarginato mi stavo chiudendo in me stesso sperando che Gabriella giungesse in mio aiuto per sorreggermi e sorpassare quel momento difficile che da li a poco mi avrebbe segnato per sempre. Adesso il profumo della sua pelle non avrebbe acceso il mio desiderio ma avrebbe potuto donarmi quella forza di cui avevo bisogno, anche perché amare vuol dire condividere gioie e paure. Così deluso e triste, mi ritrovai in compagnia di due uomini anziani rinchiuso in una stanza dietro a dei vetri che limitavano i miei movimenti proprio come in una prigione. Alla sinistra del mio letto, un certo Fausto originario della provincia di Piacenza mi salutò cercando di fare conoscenza; lui già sapeva cosa volesse dire trovarsi soli e dispersi in un reparto dove le persone sembravano uscite da un campo di concentramento. Quest'uomo pallido e stanco con molta umanità voleva farmi sentire meno solo e più a mio agio perché lui aveva già capito che io ero terrorizzato.
Fausto
Forse questo fu il primo atto umano che stavo ricevendo da qualche giorno e così lo guardai con curiosità e, mentre contraccambiavo il suo saluto, notai anche tutte quelle altre persone ricoverate: erano calve e con uno strano pallore in volto che le faceva assomigliare a degli zombi di un film dell'orrore. Dentro di me un nuovo stato di malessere e di angoscia si aggiunse a quello a che già provavo: mi sembrava di vivere un incubo ma purtroppo ero sveglio e lentamente il contenuto della flebo iniziò a mettere sottosopra il mio stomaco. Il mio primo giorno in reparto passò fra un conato di vomito e il mio stomaco che si strizzava nel mio addome mentre il resto del mio corpo stava provando una strana stanchezza che proprio non mi sapevo spiegare.
La sera giunse e con essa anche la cena che non riuscivo a toccare; mentre mi contorcevo nel letto negandomi quella paura che avevo dentro, mia madre mi faceva delle menate perché avrei dovuto mangiare e non ci riuscivo. Le risposi che forse in seguito avrei assaggiato un pezzo della pizza che alcuni amici mi avevano fatto avere, ma lei decise che la pietanza napoletana mi avrebbe fatto male e la fece sparire. Mia mamma impersonava i panni della madre disperata ma era sempre più attenta a impedirmi di fare qualsiasi cosa io desiderassi, più che a capire cosa io stessi davvero provando. Adesso volevo riposare in santa pace, rimanendo in silenzio e dando un po'di respiro al mio fisico debilitato; e sopratutto mi sarebbe piaciuto che da quella porta fosse sbucata Gabriella, ma lei non sapeva nemmeno che io fossi ricoverato così di certo non sarebbe potuta venire a trovarmi. Ero disteso in un letto con quel tubicino che penetrava nel mio avambraccio mentre il mio sguardo rimaneva disperso nel vuoto. Ero li solo in mezzo a una marea di gente di cui non mi importava nulla e ancora aspettavo che lei entrasse da quella porta. Ero disteso e aprendo gli occhi del cuore guardavo fra i miei ricordi e mi cullavo inseguendo quel sogno proibito della solita quiete dopo la tempesta. Rimasi coricato nel letto in compagnia del mio malessere e l'unico pensiero era poter parlare con lei, con Gabriella. Alla fine decisi di chiamarla al telefono perché in realtà avevo troppo bisogno di lei. Mi alzai a stento e prendendo l'asta di allumino che reggeva la flebo, mi diressi verso l'atrio di quel reparto dove un telefono a gettone mi avrebbe messo in comunicazione con il mio amore. A fatica riuscivo a camminare strisciando i miei piedi, ma attraversare quelle decine di metri che mi separavano da una cornetta telefonica era diventata una mia priorità assoluta. Dovevo parlare con Gabriella perché se il mio corpo stava decadendo così in fretta, forse una sua parola mi avrebbe ridato quelle forze che mi stavano mancando. Composi il numero con il cuore in gola, l'aria in torno profumava di morte quella stessa morte che si era fissata dentro di me insieme a quel freddo e a quella stanchezza che mi facevano tremare mani e gambe. Ero sempre più stanco. Mi dovetti sedere su di una seggiola di metallo grigia e fredda aspettando in silenzio che qualcuno rispondesse. Il segnale dava libero e il tu tu si sommava ai palpiti del mio cuore. Finalmente rispose e ascoltai la sua voce dolce e gentile come se non fosse mai successo nulla fra noi:
Gabriella
Al sentire questa sua frase dentro di me un nuovo senso di speranza e di tranquillità mi fece subito sentir meglio; di certo non sarei riuscito a correre ma adesso la sua voce me la faceva sentire vicina, cancellando così la mia paura di averla persa. La mia ritrovata sicurezza mi spinse a dirle cosa mi stesse succedendo e la informai del mio ricovero:
Bernardo
In un sol fiato le raccontai tutte le mie paure e i miei stati d'animo di due giorni; dopo di che un silenzio gelido si interpose fra di noi, io le chiesi più volte se fosse ancora al telefono e dopo alcuni istanti di silenzio mi disse:
Gabriella
A quel punto cercai di chiederle spiegazioni ma il click che mise fine alla comunicazione stava contemporaneamente anche mettendo fine al nostro amore, alle mie speranze ma sopratutto alle mie emozioni. In quel preciso istante morì il Bernardo Sandri acerbo ma anche tenero e romantico che lei aveva conosciuto. Morì il ragazzo tranquillo e onesto che ero sempre stato e, rimasto solo con la mia paura di morire anche fisicamente, riuscivo solo a percepire un'atmosfera tetra e triste che penetrò nel mio cuore umiliato da quella freddezza con cui mi aveva congedato. L'odore della morte si insinuò fin dentro al cuore e avvolse il mio animo lasciando che vivesse solo il mio corpo già malato. Stavo diventando uno zombi che senza più coscienza avrebbe vissuto la sua vita senza farsi remore o scrupoli. In quel preciso istante avrei avuto bisogno della magica forza che possiede un abbraccio ed invece mi ritrovai a fare i conti con l'indifferenza di chi mi avrebbe dovuto sostenere e amare. Il suo iniziale tono amorevole era diventato freddo e perentorio così velocemente da non lasciarmi fiato. Io che speravo di ritrovare in lei la forza per superare quel momento difficile mi ritrovavo solo e abbandonato a me stesso mentre quel poco della cena che avevo ingerito mi stava risalendo su per la gola. La nausea che provavo nel mio stomaco la potevo percepire anche nel mio cuore e così mi diressi in bagno trascinandomi quella flebo che già odiavo ma che avrei dovuto tenere costantemente fissa al mio braccio per 24 ore al giorno proprio come una fidanzata.
Mentre curvo sulla turca stavo liberando il mio stomaco, iniziai a piangere perché in quel momento realizzai che Gabriella mi aveva lasciato per sempre come forse stava facendo la mia stessa vita. Per cinque lunghissimi minuti piansi senza ritegno ne vergogna, non era la prima volta che soffrivo per lei ma quella sera il mio pianto mi faceva troppo male. Ogni lacrima che usciva dai miei occhi si portava via con se anche una parte di me fino a quando quelle sue parole riecheggiarono nella mia mente come un tuono nella notte. A quel punto andai davanti al lavandino e dopo essermi lavato il volto mi guardai allo specchio e vidi il mio viso colorato di quello stesso pallore che colorava gli altri malati del reparto. Mi osservai a fondo le pupille e i tratti del volto pallido e stanco mentre sulle mie gengive tracce di sangue si mischiavano a quel gusto amaro che aveva avvolto il mio palato e il mio animo. In quel preciso momento una volta ancora quelle sue tremende parole mi uccisero dentro e gettatomi dell'acqua in faccia mi lavai il volto e il cuore perché proprio in quel istante io persi la capacità di vivere ogni mia singola emozione. Cercai di trarre forza dalla cattiveria del suo gesto e mi diedi un contegno ma sopratutto mi rinchiusi in una corazza che non avrebbe permesso a nessuno di accarezzare il mio cuore. Decisi che non avrei più pianto per nessuno e questo fu il primo gradino su per la scala dell'odio e dell'egoismo: di sicuro non mi avrebbe portato da nessun'altra parte se non verso la solitudine e l'autodistruzione, ma soffrivo troppo e non ero capace di reagire in nessun altro modo perché il mio stato emotivo era frutto di una crudeltà che non avevo mai provato.
Con il mio animo svuotato completamente come il mio stomaco, uscii dal bagno per andare a parlare con Fausto. Ero così solo con me stesso che quel suo accento mi avrebbe sicuramente fatto bene, anche perché Fausto era quell'unica persona che sebbene conosciuta da poco aveva cercato di starmi accanto.
La sera sul mio comodino un bel cabaret di paste attirò l'attenzione della dottoressa di guardia: mi comunicò che il giorno seguente sarebbe tornata per prendersi quei dolci perché io sarei dovuto essere a dieta. Peccato che l'ultimo dei 24 dolci me lo mangiai alle 23.58: ormai l'unico mio obbiettivo di vita era fare tutto ciò che volevo senza farmi più pensieri ne problemi di qualsiasi sorta. Ricordo che la notte fu molto lunga e difficile, a tratti tormentata, perché per la prima volta il ricordo di Gabriella, seppur cercasse di parlarmi, fingevo di non sentirlo. La stavo cancellando per sempre dai miei ricordi insieme a tutte le mie emozioni di giovane innamorato. A volte il silenzio è la miglior cura, ma purtroppo quel silenzio stava fomentando la mia rabbia; dentro la mia bocca si sposavano il gusto delle medicine e quel sapore amaro che mi aveva lasciato lei, facendomi risvegliare di colpo solo senza il suo amore e soprattutto disperso in un incubo dal quale avrei voluto scappare ma nel quale stavo rischiando di morire realmente. Sebbene non fosse stata la prima volta che noi due facevamo terminare la nostra storia, quella volta era diverso perché adesso ero solo con la mia paura di morire mentre lei se ne era lavata le mani con una semplicità che mi faceva un male cane. Infatti Gabriella e quella malattia che mi faceva tremare erano diventate una cosa sola e così la mattina seguente andai da Fausto:
Fausto
In quel reparto di ematologia eravamo tutti uguali e non importava che età avessimo da dove provenissimo o quanti soldi avessimo perché in compagnia della morte vivevamo tutti la medesima paura, così gli risposi:
Bernardo
Era una domanda semplice che però poteva avere come risposta solo un magari! Perché nella dieta ospedaliera la focaccia non era contemplata, ma visti i loro volti tristemente stanchi e pallidi, decisi che per una volta li avrei resi felici proprio io. Dopo essere tornato in camera mia, feci uscire dalla mia vena il butterfly dal quale una medicina cercava di guarirmi facendomi soffrire e dopo essermi cambiato i vestiti, uscii da quel reparto per andare a comprare quella focaccia che li avrebbe rasserenati un pochino. Forse il vederli contenti mi avrebbe rasserenato dentro a me per primo ma andando verso quella rivendita di pane mi fermai anche a comprare le sigarette, tanto sapevo che dovevo morire e quindi non importava più nulla: io ero rimasto l'unico a volermi bene e quindi mi volevo godere la vita. Ancor oggi i miei occhi si bagnano ricordando i loro visi felici nel momento in cui l'aria si arricchì di quella fragranza di cipolla e di olive: quella mattina a colazione nessuno di noi prese fette biscottate e the, noi mangiammo focaccia con le olive e con la cipolla; e poi via una dopo l'altra quelle Diana rosse che si bruciavano lente come i miei ricordi che svanivano in un fumo di baci sbiaditi. Ogni volta che le mie labbra sentivano la mancanza delle sue, io mi accendevo un'altra sigaretta e in bocca il gusto della nicotina avrebbe dovuto farmi dimenticare quei baci che non volevo più rammentare.
La mattina seguente fu la volta delle brioche alla crema e poi venne la volta di quelle al cioccolato e via dicendo, tanto che per non recarmi nella sala medici per farmi mettere nuovamente la flebo e non farmi riprendere dagli infermieri, imparai a rimettermi l'ago in vena da solo.
Ormai quel mio gesto era diventato un rito che giorno dopo giorno si ripeteva solo per accendere il sorriso di tutti quei compagni di un viaggio che non sapevamo dove ci avrebbe portato e, in una mattina come le altre, la vita ci prese nuovamente a pugni e ci ritrovammo in camera di Fausto senza però che uno della truppa fossi li con noi. Gli occhi dei presenti erano lucidi e ben presto io capii che un certo Luciano era arrivato a quel capolinea che ci stava aspettando tutti. Lui che ormai immobilizzato su di una carrozzella magro con il viso scavato, durante una delle nostre serate brave in corsia mi sorrise dicendo:
Luciano
Forse era proprio quel suo sorriso che mi trasmetteva la forza di resistere e invece in quel viso pallido i due occhi che mi sorridevano si erano spenti per sempre. Così mentre gli altri erano tristi e dimessi io ero incazzato e avrei voluto picchiare qualcuno ma non sapevo con chi prendermela. I miei occhi si volevano bagnare ancora ma io mi ero ripromesso che non avrei mai più pianto per nessuno, così corsi giù per quelle scale che mi avrebbero condotto fuori da quella stanza piena del profumo della morte. Scesi le scale tremando aggrappandomi al corrimano con nel cuore la speranza di ritrovare quell'aria fresca sinonimo di libertà e vita.
Nonostante mi fossi ripromesso di non farlo mai più, le mie lacrime bagnarono i miei occhi mentre la mia collera ribolliva prepotente in me come un vulcano pronto a eruttare. Ero così agitato che sudavo e con i miei pugni stretti avrei voluto picchiare il destino infame che mi aveva accolto con se e adesso non importava più nulla ne di Gabriella ne dei miei genitori ne della scuola ne del mio futuro che forse non esisteva già più; adesso uno di noi era volato via e una volta ancora la paura di morire stava bussando alla mia porta.
Mentre ero lì in compagnia della disperazione alzai il mio sguardo e vidi arrivare una Kawasaki Gpz 750 turbo bella, lucida e fiammante; in quel periodo era il mio sogno proibito di moto. La guardai sognandola e desiderandola; poi il suo proprietario scese per andare a comprare il giornale lasciandola accesa fuori dalla rivendita dei quotidiani. Il mio delirio di onnipotenza stava prendendo sopravvento sui miei gesti e dopo pochi attimi di titubanza, decisi di rubarla per poi correre nel vento e scappare lontano da quel mio stato d'animo pieno di tristezza. Non mi importava del male che avrei fatto con quel mio gesto, non mi importava se prima o poi mi avrebbero arrestato, adesso io dovevo vivere quel poco di vita che pensavo mi rimanesse senza più provare quelle nere sensazioni che avevo dentro. Gli artigli dell'angoscia mi stringevano facendomi soffrire e sanguinare e ormai il mio animo e la mia coscienza erano caduti sotto i fendenti delle parole della mia ex fidanzatina; non mi facevo più scrupolo di nulla e, pronto a saltare in sella a quella moto, sarei fuggito senza pensare a cosa sarebbe potuto succedere o da quali complicanze mi sarei dovuto difendere. Per mia fortuna il suo legittimo proprietario uscì e salendo in sella alla moto si allontanò, impedendomi di compiere quel mio gesto assurdo di cui ancor oggi non riesco a vergognarmi. Lo so che stavo sbagliando e non cerco attenuanti, ma oggi so che certe situazioni ti possono ferire così tanto da farti compiere gesti che in altri momenti nemmeno penseresti di fare. Avevo deciso di affrontare la vita come una sfida continua. Se Gabriella era svanita proprio in un momento in cui io stavo affogando in una melma viscida era certamente colpa sua, ma io avevo rialzato la mia guardia e seppur fossi rimasto da solo avrei cercato di vivere al meglio senza lei. Pensai che se una cosa ti ferisce ma non ti uccide allora questa ti rende più forte e così il suo abbandono mi avrebbe reso più solido ma in realtà mi rese solo più arido. Il mio destino mi aveva sfidato e io avevo raccolto il guanto e adesso sarei stato io a schiaffeggiare chiunque mi si fosse messo davanti. Da quel giorno vissi la mia vita come una sfida continua: non importava dei sentimenti altrui perché i miei sentimenti erano stati calpestati con una facilità impressionante e così io non fui più capace di amare nessuno se non me stesso e l'unico modo con cui ero capace di farlo era negandomi ogni tipo di sofferenza fisica e morale. Infatti quando i medici, non convinti di cosa io avessi contratto, decisero di sottopormi a una nuova biopsia midollare e con un apposito ago mi perforarono lo sterno per portare a termine l'esame, io li fissai negli occhi e rimasi fermo impassibile senza mostrare nessuna espressione di dolore sul mio volto. Percepii anche quel momento come una nuova sfida e non importava se adesso il mio osso provava dolore perché il freddo che conservavo nel mio animo era così grande che io ero già morto dentro e quindi non avevo più nulla da perdere. Il medico mi guardò esterrefatto mentre io con sguardo fisso e duro sembravo dirgli: - Non mi fai paura!!! - Ma in realtà quella frase non la stavo dicendo a lui ma al mio destino, anche perché ero stupidamente convinto che con la perdita di Gabriella io non avrei mai più potuto vivere un'esistenza felice.

Bernardo Sandri

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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