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Autore: Pelagio D'Afro
Colonne d'Ercole
Storico Fantasy
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Colonne d'Ercole
L'ultimo viaggio della Maschera di Ferro.

Prologo

Dicono che il canto degli aedi non svanisca mai del tutto, ma che continui a risuonare nel tempo, sotto le volte dei palazzi, lungo le strade, nelle piazze.
In quel giorno, la melodia che giungeva dall'esterno assieme allo scricchiolare delle navi e ai rumori delle prime attività del porto aveva assunto la forma del chioccolare mattutino dei merli.
Il principe indossò una tunica di lino, candida, corta al ginocchio, e uscì nel cortile dove si sciacquò il viso alla fontana. Nell'aria persisteva ancora un po' del fresco della notte, ma il sole era già alto. S'incamminò per le vie della città, scegliendo con dimestichezza quelle dal pendio più agevole, diretto al mare.
Suo padre era già lì, sulla piattaforma d'imbarco. Colto da un senso di premura, lo raggiunse con una corsa leggera che fece vibrare il pontile come se l'invisibile mano di Poseidone avesse preso a scuoterne i sostegni.
- Padre, - gli disse con un po' d'affanno, - è dunque deciso? -
L'uomo tramutò il sorriso con cui l'aveva visto arrivare in una smorfia di dolore. - Sì, figlio, è deciso. -
- Speravo che la notte avesse cambiato i tuoi propositi, - disse il giovane, - speravo che la regina... -
- Tua madre sa che è giusto così - lo interruppe l'altro. Alzò gli occhi e credette di vedere una figura avvolta da un velo scuro affacciata al più alto balcone del palazzo; poi li riabbassò su quelli del figlio e aggiunse: - E lo sai anche tu. -
- Pensavo che dopo essere stato lontano tutti questi anni... - Il giovane mormorò le parole con un certo stento, sentendo in bocca il sapore amaro delle cose dette e ridette.
Il padre sorrise e gli portò una mano alla nuca. Il suo volto, pensò ancora una volta il principe, sembrava emanare una strana luce. La guerra e i viaggi l'avevano cambiato, ma quella luminosità sembrava non appartenere a quei mutamenti che avvengono nella vita di un uomo, neanche se si trattava di un uomo che aveva superato indenne battaglie e tempeste sotto l'influsso di divinità bizzose in lotta tra loro.

***

Parte Prima

(33°20' Nord, 16°30' Ovest)

Non era il rosso del tramonto quello che squarciava il cielo ferito al largo di Madeira.
Il sole, basso sull'orizzonte, traspariva appena dalla coltre uniforme di nubi, l'aria era di quel nero livido che, d'agosto, suole preannunciare burrasca, ma la luce non mancava: le fiamme si levavano alte dalla corvetta dalle vele blu. Solo l'albero di maestra era rimasto integro: gli altri due giacevano ridotti in schegge sul ponte.
Il vascello, che fino a poco prima era stato capace di incutere terrore ai naviganti diretti alle Indie Occidentali, rivolgeva ora la sua prua alle profondità marine. Il leone ferito e moribondo era attorniato dai cadaveri delle iene, le piccole agili fregate che l'avevano distratto finché non era giunto il suo fiero antagonista, il Royale. Le vele del galeone erano ormai lontane, dirette verso il continente.
L'uomo era aggrappato a due barili fissati con una cima a una polena lignea a forma di leone, la stessa che guarniva la prora del suo vascello prima che un'esplosione la facesse precipitare in mare. Con sguardo colmo d'odio e di rimpianto, il naufrago fissava le vele blu che s'inabissavano. Si issò meglio sui galleggianti e con una certa sorpresa si accorse del macabro trofeo che ancora stringeva in mano. Un ghigno salmastro si aprì sul volto dai tratti regolari, rigato dall'acqua che colava dai capelli scuri e ricci.
Il ricordo corse agli ultimi momenti della battaglia.
L'avversario, gigantesco, lo fronteggiava; era alto, dal petto ampio, muscoloso, i capelli scuri raccolti in un codino. Nel braccio destro mulinava con forza e perizia una sciabola e avanzava urlandogli i peggiori epiteti.
Lui aveva risposto con uno dei gridi di battaglia che gli erano valsi il soprannome con cui era noto e temuto, El Rugiente, e gli si era scagliato contro, costringendolo a ridosso della murata con una serie di finte e affondi. L'avversario, il cacciatore di pirati, per una volta in vita sua aveva trovato un degno avversario.
In quel momento, però, il pirata aveva udito un grido femminile e si era voltato appena in tempo per vedere una donna cadere in mare, colpita da una palla di moschetto. Era rimasto congelato, la spada sollevata, la guardia abbassata, permettendo all'arma dell'avversario di arrivare vicino alla gola. Solo i suoi riflessi l'avevano salvato, i riflessi di un animale perennemente braccato. La reazione era stata istintiva e risolutiva: aveva agguantato il braccio destro del cacciatore di pirati e con un unico fendente glielo aveva tranciato poco al di sopra del polso. Poi il crollo di uno degli alberi li aveva separati e lui era precipitato in mare, stringendo moncone e spada. Mentre si nascondeva tra i resti della battaglia che galleggiavano tra le onde, aveva visto gli uomini dell'avversario, i suoi cani, portare via il loro capo in una scialuppa. Il verme si muoveva ancora, anche se ne aveva asportato un pezzo.
Il pirata dalla voce leonina portò una mano al collo per sentire sotto i polpastrelli la ferita, il sangue e una catenina con un pendente, che strinse con forza. Il suo sguardo si velò e corse verso una scarpa femminile che galleggiava non lontano dai due barili.
- Michèle - sussurrò, e pensò di lasciarsi affondare in quel mare reso violaceo dall'incendio e dalle nubi. Poi il desiderio di vendetta prevalse, e prese a nuotare.

***

Capitolo Primo,
in cui si fa la conoscenza dei protagonisti e della Parigi di inizio Settecento

Quella mattina l'abate Toulange percorreva serafico Rue Saint-Denis, borbottando tra sé e sé, com'era solito fare.
- Che ore sono? - disse.
Quella che per una persona normale sarebbe stata una semplice curiosità, dettata semmai dalla premura di arrivare puntuale a un incontro, per René Toulange diveniva il pretesto per fare un po' di sana speculazione filosofica, il suo passatempo preferito.
- È inutile porsi questa domanda - si rispose infatti qualche istante dopo. - Se il mondo appare così come si mostra ai nostri sensi e al nostro intelletto, non può essere diverso; dunque se mi sembra che siano le dieci saranno davvero le dieci del mattino. Altrimenti Dio, che ha creato il migliore dei mondi possibili, nella sua infinita bontà sarebbe imperfetto, e questo non può assolutamente postularsi... -
Le sue dotte elucubrazioni furono interrotte da un uomo lacero e lurido, privo di gambe, che si trascinava a forza di braccia su un carretto di legno sozzo e scorticato: gli si parò davanti, silenzioso, con la tranquilla minacciosità che caratterizza chi è in credito con la vita. Toulange si fermò sorridendo, tolse dalla tasca un borsellino di cuoio rosso e ne estrasse un luigi d'argento che donò allo storpio. Quindi riprese la sua strada parlottando.
- Ciò che a noi sembra male non lo è nella mente di Dio, che non siamo in grado di sondare se non compiendo un atto di presunzione. Se il Signore ha fatto in modo che quest'uomo perdesse le gambe, una ragione c'è: insondabile per la nostra mente limitata, ma c'è. -
L'abate voltò in un piccolo budello tra le case, dove già dominava il fragore de Les Halles, e dopo pochi passi la turba caotica e vociante gli si mostrò dinanzi, come se tutta Parigi si fosse riversata lì in piazza.
- Tutto ha una sua perfezione, - proseguì tra sé e sé nell'avvicinarsi a un banco della frutta, - a volte impalpabile, a volte immediatamente percepibile come quella che è insita nelle mele mature. - Il fruttivendolo guardò sospettoso l'abate mentre questi, con fare rapito, soppesava e annusava una mela particolarmente rossa e profumata, ma si tranquillizzò quando Toulange, con un sorriso, mise mano al borsellino per pagargliela, augurandogli buona giornata.
Facendosi largo tra la folla, l'abate girò attorno a Saint-Eustache e si soffermò ad ammirarne con soggezione le remote guglie e lo strapiombo della facciata che suggeriva l'ascesa al cielo; quindi, beato, continuò a percorrere gli stretti vicoli del Faubourg Saint-Honoré assaporando la succulenza di quel frutto non più proibito.
Giunto dopo pochi passi a un trivio, si fermò a osservare per qualche minuto una gigantesca edicola raffigurante la Crocefissione; ammirando la maestria con la quale il pur ignoto pittore era riuscito a rendere la sofferenza di Cristo, continuò a mordicchiare la mela con commozione e gusto. Quando si accorse che del frutto era rimasto solo il torsolo, si chiese cosa avrebbe dovuto fare dell'avanzo del suo pasto: - ciò di cui io non voglio nutrirmi, - pensò, - perché il Signore ha voluto collocarmi tra gli uomini cui non manca il cibo, può nutrire quelli che Iddio, nel suo imperscrutabile disegno, ha voluto porre tra gli ultimi. -
- Tieni, bel puttino, - disse quindi rivolgendosi a un moccioso scalzo e cencioso seduto sotto l'edicola e porgendogli il torsolo umidiccio, - e che buon pro ti faccia! -
Il ragazzino ci mise un attimo ad alzarsi di scatto per spingere a terra il religioso e meno tempo ancora per rivolgergli un gesto del dito medio, inevitabile retaggio della battaglia di Crécy. L'esterrefatto abate fece appena in tempo a seguirne la corsa prima che l'esuberante puttino scomparisse nel labirinto di vicoli.

Pelagio D'Afro

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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