- Uova di drago nelle isole scozzesi? La scoperta di misteriose uova lascia la comunità scientifica nello sconcerto.
I resti di un rettile finora sconosciuto sarebbero stati ritrovati da ricercatori dell'Università di Edimburgo nelle South Sandwich Isles. La spedizione ha anche ritrovato frammenti di un uovo, la cui dimensione originaria è stata stimata tra gli ottanta e i centoventi centimetri e che risulta essere schiuso. Accanto a esso, è stato reperito un uovo ancora intatto. Le analisi a raggi X hanno mostrato all'interno dell'uovo stesso il corpo di un rettile dotato di ali e una lunga coda, privo di vita. Le prime analisi sembrano stabilire che la composizione chimica degli organi dell'animale consente un'alta resistenza al calore e alle radiazioni, il che spiegherebbe il miracoloso ritrovamento all'interno dei territori in quarantena. Le caratteristiche del rettile lo rendono sorprendentemente simile all'animale mitologico popolare nella letteratura ricreativa dell'Antica Era. Per il momento, gli scienziati non hanno rilasciato dichiarazioni ufficiali in merito. -
La parete di vetro infrangibile che li separava si infranse con un rumore assordante. La dottoressa Kathleen Anderson sentì il panico montarle alla bocca dello stomaco. L'intera stanza portava i segni della sua furia. Da una bombola usciva l'ossigeno con un fischio acuto e costante e ovunque c'erano pile scomposte di carta e provette distrutte. Stava per uscire. Aveva passato gli ultimi diciotto anni a cercare di impedirlo; se fosse uscito e avesse contagiato gli altri... non ci sarebbe stato alcun controllo. Sarebbe stata la fine. Si mosse verso di lei, così d'istinto Kathleen fece un passo indietro. Non era la malattia a spaventarla, ma il legame con il drago gli dava una forza incontrollabile che il suo corpo normalmente non poteva neanche sperare. In quel momento, in piena crisi, appariva più alieno che mai, con gli occhi freddi come quelle di un serpente e le squame sui gomiti e sulle ginocchia in piena vista. - Mamma - , disse lui, con voce piagnucolosa. L'appellativo le suonò sbagliato, odioso. Era stato un errore fin dall'inizio. Ma far credere che fosse suo figlio aveva risparmiato molte domande. Inizialmente non ci aveva neanche pensato: era nato nel laboratorio, l'unico sopravvissuto ad una serie di test che avevano ucciso tutte le altre cavie. Il bambino miracoloso, il cui sangue poteva contenere la chiave per risolvere l'enigma del legame con i draghi. Un esperimento, il più interessante e appassionante che avesse mai intrapreso, ma pur sempre un esperimento. Quando l'aveva portato a casa, David l'aveva guardata con gli occhi sgranati e pieni di speranza. - È un fratellino? - aveva chiesto. David era stato un bambino così solo. La sua malattia gli aveva impedito a lungo di andare a scuola o anche solo giocare con i suoi coetanei. Anche dopo che era guarito era sempre rimasto un po' schivo, come se gli altri bambini fossero animali interessanti ma pericolosi, che preferiva osservare a una certa distanza di sicurezza; e il neonato non poteva contagiarlo, non lui. Sarebbe stato tutto più facile, niente autorizzazioni da firmare, niente da nascondere, solo un altro bambino malaticcio che non sarebbe uscito spesso... - Sì, David - , gli aveva risposto, e aveva visto il suo viso accendersi di gioia, - è il tuo fratellino. - Avrebbe dovuto immaginarlo, avrebbe dovuto prevedere i pericoli a cui aveva esposto suo figlio. All'inizio era andata bene: da piccolo quell'essere era stato sorprendentemente normale, carino, addirittura. Ricordava i suoi sorrisi sdentati e come, a volte, per qualche istante, aveva pensato che forse, alla fine, avrebbe persino potuto provare affetto per lui. Lei ci aveva provato a trattarlo nel modo giusto. Non come David, no; non ci sarebbe mai riuscita... però almeno come se fosse stato come gli altri. Ma c'era qualcosa di malvagio, di corrotto in lui. Era nel suo sangue, come il drago. E David... alla fine era stato lui a pagarne le conseguenze. Era stata tutta colpa sua, lo sapeva... ma ora non poteva lasciarlo andare: era troppo pericoloso. - Vuoi scappare? E dove pensi di andare? - lo incalzò con voce tremante. Lui non rispose. - Pensi di poterti confondere tra la gente? Ma guardati - , lo provocò lei. Non provò neanche a nascondere il disprezzo nella sua voce; non aveva più importanza. - Non potresti nasconderti neanche per un giorno. - Lui scosse la testa in un gesto di stizza, come se non volesse ascoltarla. - Ascoltami - , gli disse. - Tu non puoi stare con gli altri. Sei contagioso. Tutti quelli che toccherai moriranno. È questo che vuoi? - Lui si strofinò le braccia dove, sulla pelle troppo pallida, spiccavano i lividi delle siringhe e delle flebo, un gesto fastidioso e infantile che faceva spesso quando era nervoso. Kathleen notò che le sue pupille si stavano di nuovo arrotondando e le iridi stavano perdendo la fredda sfumatura verdastra. Sentiva che la furia stava fluendo via da lui; senza quella era inoffensivo. Kathleen poteva ancora controllarlo, pensò... non tutto era perduto. Cercando di mantenere la calma, estrasse una siringa di sedativo dalla tasca del camice e la nascose dietro la propria schiena. - Ora stai fermo. Calmati - , disse, avvicinandosi lentamente a lui, - respira. - Lui continuò a scuotere la testa. - Vieni qui. Fidati di me - , continuò Kathleen. Ormai era a pochi passi da lui. - Domani ti sembrerà tutto un brutto sogno. - Allungò un braccio verso di lui... era quasi fatta... Per un attimo sembrò funzionare. Si lasciò toccare, avvicinare, afferrare il braccio. Tuttavia, quando vide la siringa scattò: - No! - Sollevò lo sguardo, e lei vide nuovamente gli occhi del drago. La spinse via con una forza inusitata per le sue braccia tozze. Kathleen volò attraverso la stanza e quando atterrò sentì qualcosa di appuntito conficcarglisi nella schiena, poi attraverso il petto. Quando guardò in basso vide il proprio sangue sul camice immacolato. Provò ad alzarsi ma le forze la stavano abbandonando in fretta. Il suo viso era sopra di lei: sembrava confuso e orripilato. - Mi dispiace, io... - disse, guardando la sua ferita con i suoi occhi da rettile, senza sapere cosa fare. - Non mi toccare - , riuscì a sibilare Kathleen. La paura la rendeva sgarbata, ma ormai non aveva più importanza. La testa le girava e la vista le si stava annebbiando. L'ultima cosa che vide fu il suo figliastro forzare la porta del laboratorio e correre via, tanto velocemente quanto le sue gambe gli consentivano. - È finita - , pensò Kathleen, mentre intorno a lei il mondo si faceva buio. - Tutto è perduto. -
CAPITOLO 1
Venticinque anni dopo
Sophie Weber entrò nella sala d'aspetto e, come ogni giorno, rimase per un attimo scossa dall'odore intenso e ferale di troppe persone ammassate nella stessa stanza. L'ansia le faceva ancora martellare il cuore nel petto. Scosse l'ombrello e lo lasciò accanto alla porta, poi fece lo stesso con il parka e il cappello. Fuori cadeva una pioggerella sottile ma insistente, che sarebbe stata persino piacevole sul viso se non fosse stato per il pericolo di scorie di cui ogni tanto parlavano i telegiornali. Si affrettò a lavarsi con attenzione la faccia e le mani con il sapone a base di argilla: dicevano che contrastava l'accumulo di radiazioni, ma lei aveva l'impressione che non fosse altro che un palliativo. In ogni caso, la sua routine del mattino aveva un che di rassicurante. Si infilò il camice ed entrò nello studio. - Sei in ritardo - , la accolse la dottoressa Solarin, senza alzare lo sguardo dal paziente la cui schiena stava auscultando. - Scusa. Un blocco alla Porta Nord - , spiegò. Prese un bel respiro: - Un infetto. - La dottoressa si bloccò, ma non rispose. Il paziente, un uomo con degli occhiali molto spessi, trasalì: - Davvero? - . Sophie represse un brivido, ripensando all'ambulanza, la polizia in tenuta antisommossa e il nastro giallo con il simbolo di pericolo biologico. L'idea di un infetto così vicino a loro era disturbante. La malattia che una ventina d'anni prima aveva decimato la popolazione della città ufficialmente era denominata DH16N10, ma la maggior parte delle persone la chiamava la - Peste di Drago - . Iniziava con una febbre bruciante che divorava il corpo dall'interno e che nessun farmaco era in grado di abbassare. I pazienti perdevano gradualmente la vista, e in seguito forse anche gli altri sensi, ma deliravano troppo per poter dare un resoconto comprensibile. Poi la pelle iniziava a seccarsi, ed emergevano i bubboni, larghi, spessi e scuri, che ricoprivano vaste aree del corpo, specialmente in corrispondenza delle ossa. Quando scoppiavano, lasciavano delle squame simili a quelle di un serpente, ma a quel punto, nella maggior parte dei casi, il paziente era ormai morto. Tuttavia, rispetto a qualche anno prima, la malattia era quasi del tutto contenuta. Erano state istituite aree sicure all'interno della città, e ogni cittadino era periodicamente testato per individuare l'incubazione della malattia. Quella mattina tutti coloro che entravano nell'area centrale della città, lei compresa, erano stati sottoposti al controllo del sangue. Lei era pulita, aveva scoperto; almeno per il momento. Se il virus era ritornato in città... - Cosa ne è stato di lui? O lei? - chiese la Solarin, riscuotendola dai suoi pensieri. - Cosa? - - L'infetto? L'hanno preso? - Sophie si strinse nelle spalle: - Non lo so. Ma se non l'hanno ancora catturato lo faranno presto: ci sono posti di blocco dappertutto. Andrà tutto bene - , disse, più che altro per convincere sé stessa. - Povero diavolo - , commentò il paziente, rivestendosi. Sophie si strinse nelle spalle: - Meglio non rischiare, no? - Sophie aveva poca compassione per chi rischiava di diffondere il contagio. La dottoressa Solarin prescrisse al tizio uno sciroppo per la tosse e lo congedò. Con un po' di fortuna sarebbe anche riuscito a ottenerlo; i medicinali erano sempre più scarsi e difficili da trovare, e le liste di attesa potevano durare dei mesi, ma i suoi colpi di tosse sembravano abbastanza allarmanti da dargli una qualche priorità. Sophie lavorava per Amanda Solarin da ormai due anni. Prima aveva studiato medicina per tre anni, e per altri due aveva fatto un tirocinio in un grande ospedale nel quarto anello. Sapeva che un tempo, prima della peste, i futuri medici studiavano per molti anni in più, ma i tempi erano cambiati: ormai l'esperienza si faceva soprattutto sul campo. Sophie si riteneva fortunata a lavorare per Amanda che, essendo un medico da molti anni, aveva studiato in una vera università e aveva preso un'autentica specializzazione. Amanda Solarin aveva quarantasei anni: sarebbe sembrata molto più giovane, se non per i capelli brizzolati tagliati molto corti, grazie alla sua figura alta e atletica e alla sua pelle scura e senza rughe. Certo, non aveva il più facile dei caratteri: in molte occasioni era brusca e dispotica, ed era questa la ragione per cui i precedenti tre aspiranti medici avevano lasciato l'impiego. Il primo giorno di lavoro, Sophie era tornata a casa in lacrime e aveva terminato la prima settimana coltivando fantasie omicide. Tuttavia, non aveva voluto rinunciare al suo desiderio di diventare medico: aveva faticato tanto per arrivare a quel punto e non sarebbe certo stato per qualche difficoltà interpersonale che avrebbe mollato tutto. Dopo un paio di mesi aveva iniziato a capire come doveva comportarsi con lei, cosa la faceva arrabbiare e cosa invece incoraggiava; aveva iniziato a cogliere il suo caustico senso dell'umorismo e, sorprendentemente, aveva scoperto che, tutto sommato, Amanda le piaceva. Da quel momento, avevano iniziato ad andare d'accordo; Sophie doveva ammetterlo, era stato un bel sollievo. In fondo entrambe passavano la maggior parte della sua giornata nel centro medico e, di quei tempi, un lavoro era un bene troppo prezioso per rinunciarci a cuor leggero.
Anna Mantovani
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