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Autore: Gabriella Grieco
Lampi di oscurità
Thriller
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Lampi di oscurità
C'era una stanza chiusa, in quella casa. Da sempre. Da quando se ne poteva ricordare, almeno. Una stanza disabitata e buia, in cui regnavano polvere e silenzio. Eppure quando passava davanti a quella porta, in punta di piedi per non farsi sentire dal mostro all'interno, ne udiva il respiro e il battito. Lenti, regolari. Il mostro dormiva.
Era una vecchia villa sul lago. Un giardino ricco di alberi vetusti la isolava dalle altre case che ne orlavano le sponde, tutte in condizioni migliori. Un leggero odore di muschio proveniva dalle sue cantine e la vecchia carta da parati delle stanze buone era scollata in più punti. Era evidente che la casa aveva conosciuto tempi migliori, ma si ergeva ancora altera come un'aristocratica decaduta.
Forse non era il luogo migliore dove far crescere un bambino, ma a lui piaceva. Dalla cucina con l'antiquata stufa di ghisa provenivano quasi sempre odori allettanti, e un piacevole calore si propagava su tutto il piano. Si stava bene al pianterreno, con la cucina, l'ingresso rivestito di pannelli di legno scuro, la sala da pranzo col caminetto, il salotto con la poltrona di cuoio screpolato e il persistente odore di tabacco da pipa, pure se da anni nessuno vi fumava più. Si stava bene anche al primo piano: due camere da letto, una più grande, matrimoniale, e un'altra stanza leggermente più piccola; tra le due, il bagno padronale con tutte le tubature a vista, rumorose come ogni vecchia tubatura che si rispetti, e una vasca che lui aveva visto solo in casa sua e sulle illustrazioni di vecchi giornali ingialliti; poi la sua cameretta, la più allegra, quella in cui maggiormente era visibile lo sforzo di renderla accogliente nascondendo i guasti del tempo e della scarsità di denaro, l'unica arredata con mobili con meno di settant'anni. Aveva persino il suo piccolo bagno personale. Era l'ultima stanza la sola che non gli piacesse, quella davanti alla quale doveva per forza passare per prendere la sua roba nell'armadio a muro in fondo al lungo corridoio. La stanza chiusa.
Era uno strano bambino, costretto a una infanzia solitaria. Gli altri bambini, pochi della sua età in quel paesino sul lago tanto bello e frequentato d'estate quanto triste e abbandonato in inverno, non amavano frequentare né la sua casa né lui. Gli unici rapporti avvenivano nelle ore di scuola, ma erano soltanto dei contatti obbligati.
In casa con lui vivevano l'anziana nonna e una specie di dama di compagnia-cameriera tuttofare di poco più giovane che parlava pochissimo e senza mai rivolgergli direttamente la parola. Non incrociava mai lo sguardo coi suoi occhi.
Neppure la nonna, per quanto capace a volte di uno sporadico gesto d'affetto, una lieve carezza o l'accenno di un bacio sulla fronte, gli dedicava molto tempo. Nessuno gli aveva mai narrato una favola, ad esempio. Non che lui rammentasse, perlomeno.
Eppure riusciva a ricordare particolari lontani come quando, a cinque anni, aveva imparato a leggere su vecchi libri acquistati per altri bambini che lo avevano preceduto in quella casa. Si rivedeva in braccio alla mamma sulla poltrona di cuoio mentre seguiva col dito le parole e le illustrazioni di un vecchio sillabario.
Completamente svanito invece era il viso di lei. Sapeva di averla avuta, la mamma, ma la sua memoria era confusa e diluita nella nebbia che avvolgeva la maggior parte del suo passato, rivestendolo di un grigiore indistinto. Non aveva idea di quando fosse uscita dalla sua vita.
Due solamente erano le cose che lo turbavano: la stanza chiusa e la sensazione di un ricordo che avrebbe dovuto avere e che non trovava più. Un ricordo legato alla stanza e al mostro che vi si nascondeva. A volte, nel ricordo scomparso, si affacciavano dei lampi, come squarci di luce nel buio della notte.
Aveva cercato di sapere, chiedendo alla nonna, ma non aveva mai ottenuto una risposta soddisfacente. Più volte aveva provato a interrogarla, ma: - Non c'è nulla, là dentro. È una stanza vuota, smettila di fantasticare - gli aveva detto con la sua voce severa.
- Ma perché non ci posso entrare? - insisteva.
- Perché no. È rovinata. Ci sono dei buchi nel pavimento. È pericoloso entrare - erano state le risposte che si erano succedute nel tempo.
Ma lui era un bambino curioso. Aveva passato molti pomeriggi col naso per aria, al piano di sotto, in cerca dei buchi di cui gli aveva parlato la nonna. Aveva guardato dappertutto, e buchi non ne aveva trovati. Però non le aveva mai detto del pesante respiro che udiva nella stanza, né del timore che essa gli incuteva. Non avrebbe saputo dire il perché, ma sapeva che doveva mantenere il segreto.

Nera e argento. Così era la sua moto. Potente. Bellissima. Di giorno l'argento rifletteva i raggi del sole, abbagliando chi la guardava senza ripararsi gli occhi; di notte era un'ombra scura, una freccia invisibile nel buio; solo il suo faro e il rombo del motore ne rivelavano la presenza.
Quando indossava la tuta e il casco integrale, neri anch'essi, si sentiva giovane e invincibile. Nessuno poteva affrontare il suo sguardo, nessuno osava farlo. L'affilato coltello che portava nello stivale gli regalava un brivido nascosto. L'aveva già adoperato. L'avrebbe adoperato ancora. Era un piacere a cui era impossibile rinunciare.
Amava lucidare la sua moto. Non un graffio sulle cromature, non una macchia d'unto o di fango. Il motore, una sinfonia perfetta.
Era un predatore, ma chi gli stava vicino non se ne era mai accorto. L'unica eccentricità era quella moto. Durante il giorno viveva una solitaria mediocre routine, confuso tra gente comune che avrebbe tremato di paura se solo avesse potuto guardare oltre i suoi occhi.
Di giorno.
Di notte il buio nel suo cuore divampava come una fiammata di oscurità, rivestendo il mondo di un manto di orrore.
Ormai era un esperto. Aveva sbagliato solo una volta, tanti anni prima, e aveva duramente pagato il suo errore. Era stata una severa lezione, ma aveva imparato.

Finalmente stava tornando a casa. In tempo per il suo ventiduesimo compleanno. Non avrebbe festeggiato con nessuno. Nessuno lo aspettava. Non c'era più nessuno a vivere nella vecchia villa sul lago. Più di quattordici anni erano trascorsi dalla prima volta che aveva sentito il respiro del mostro nella stanza chiusa e meno di dieci da quando era stato portato via, bambino, alla morte della nonna.
La vecchia domestica aveva dichiarato che non c'erano altri parenti in vita e come aveva potuto se n'era andata senza lanciargli nemmeno un'occhiata di comprensione, preda di una fretta inspiegabile. L'esecutore testamentario aveva provveduto al disbrigo delle formalità. Il bambino sarebbe entrato in possesso della sua eredità al compimento dei ventuno anni.
La maggiore età gli aveva portato la libertà di decidere per sé e una inaspettata ricchezza. Già sapeva di essere l'unico proprietario della villa, ma fino a quel momento aveva ignorato che, nonostante l'apparente miseria in cui aveva vissuto negli anni della sua infanzia, avrebbe ereditato dalla madre un piccolo patrimonio.
La madre... Continuava a non ricordare nulla di lei e nemmeno del padre. Non sapeva neppure come fossero morti, o quando. Era un altro dei tanti segreti gelosamente custoditi dalla nonna.
Gli era mancata la sua casa. Gli era mancato il silenzio, l'imperturbabilità delle vecchie stanze, l'eco dei suoi passi nell'atrio scuro, persino l'odore di muffa delle cantine che dopo tanti anni in cui nessuno aveva arieggiato la casa si era ormai allargato in ogni ambiente. Ma non importava. Passò di camera in camera spalancando finestre e balconi per combattere l'umidità interna con il pallido sole novembrino, liberando i mobili dai loro sudari impolverati. Più del sole fu efficace la corrente d'aria che man mano si veniva a creare. Salì veloce al piano di sopra (le cantine le avrebbe lasciate per i giorni seguenti). La camera padronale, quella della cameriera, la sua vecchia cameretta, la stanza chiusa. Si arrestò di botto, improvvisamente riportato a dieci anni prima

Gabriella Grieco

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