Era la morte sotto mentite spoglie. Era l'ombra di una vita che non era più. L'ombra prima del ragno. Una voce nei suoi sogni (incubi): - ***** ***, non mi lasciare. - In quello spazio vuoto, in quella sospensione del suono, si celava la sua vita di prima. Prima. Adesso, era ragno.
L'inutile stridore dei freni nella notte, poi lo schianto. Urla, fiamme, dolore. La consapevolezza della sua vita che – - Oh, miodio, no, ti prego! - – sta scivolando via in un gorgoglio di sangue. - Aiuto, qualcuno mi aiuti! - - ***** ***, non mi lasciare... - - Sono qui. Sono qui con te, fino alla fine. -
Dal nulla una voce: - Cosa ho fatto? Non volevo, davvero, io... Oddio, mi dispiace, mi dispiace! - Una figura appare e subito scompare, ondeggiando. Fugge. Il rombo di un motore che si allontana riempie il tempo e lo spazio.
Nella sua mente solo un lungo, ininterrotto lamento. E un volto che non dimenticherà mai più.
Silenzio. E polvere. Tutto è silenzio e polvere nella vecchia casa abbandonata. Polvere spessa, pesante. Densa. Strati su strati di polvere che rivestono i mobili di una cappa cinerea, come dolorosa tappezzeria. Persino l'aria è polverosa, composta da immobili granelli sospesi. La caligine che opprime il cuore è la stessa che aleggia nella stanza. La casa è grande, ben arredata, ma rovinata dall'incuria dell'abbandono, ingrigita nel silenzio. Una vecchia signora morente, incartapecorita e sola. Una figura nella semioscurità, seduta in poltrona, un tavolino intarsiato di fianco. Sembra fatta di ombra, inanimata. Soltanto un dito che tamburella lento e monotono sul bracciolo di cuoio ne rivela la vita. Di fronte a essa, una finestra con i vetri opachi per la sporcizia. Sono anni che nessuno li lava. Sul tavolino un telefono cellulare, l'unico oggetto privo di polvere. I movimenti sono minimi, solo lo stretto necessario per sopravvivere. Bere. Mangiare. Dormire. (Poco). Tutto il resto è mummificata silenziosa attesa. L'ospedale è alle sue spalle. Anni di follia e di dolore. Tempo appartenuto a un'ombra cui non è stato concesso di morire. Lo squillo improvviso del telefono violenta l'aria immota. Il dito cessa il suo battere uniforme. La mano a cui appartiene lo afferra con forza, le nocche sbiancate per l'intensità della stretta. Aspettava da tanto. - Pronto. - Detto proprio così, senza punto di domanda. - Sono io. - Una voce maschile, untuosa. - Lo so. - Non poteva essere nessun altro. - Il nome che mi ha chiesto... - - Sì. - Il monosillabo fuoriesce in un sussurro, stremato dall'attesa. - Ce l'ho. Nero su bianco. - - Bene. - - Vuole che venga adesso? - - Anche prima. - - Arrivo. E non dimentichi, preferisco i contanti. - - Me l'ha già detto. - - È vero, ma... - - La aspetto. - Clic.
L'uomo trovò il Ragno ad aspettarlo. E i ragni, si sa, uccidono.
Il ragno si muove leggero. Cammina in silenzio, e in silenzio tesse la sua tela mortale. Studia. Osserva. La strategia è innata (un primo filo di seta che cala dall'alto) ma è la posizione che conta. Occorre scegliere l'angolo giusto, valutare la preda. Ci vuole tempo, ma il ragno ha pazienza.
Il professor De Lellis, secco e allampanato, grande studioso di lingue morte, aveva settantasette anni e un sogno: scrivere Il Libro. Per tutta la sua vita da adulto Il Libro era stato soltanto nella sua mente, un pensiero fisso che gli aveva tenuto perenne compagnia, affamandolo di libertà. Il desiderio di dedicarsi alla scrittura era cresciuto di pari passo con l'insofferenza per i legami della famiglia, del lavoro, degli amici... per la sua vita insomma. Il professore l'aveva attraversata di sbieco, cercando di ritagliarsi un passaggio sottile per defilarsene, mai completamente appagato, mai abbastanza coraggioso da lottare per il suo sogno. La sua vita era stata una lunga, estenuante attesa. Che gli anni passassero, che la pensione arrivasse a liberarlo da un lavoro che, specialmente negli ultimi tempi, era diventato soffocante (avete mai provato a insegnare Latino e Greco a ragazzi con i cellulari, gli Mp3, l'Ipod, l'Ipad o tutte quelle altre diavolerie buone solo a distrarsi in classe?), che la moglie si decidesse infine alla giusta dipartita. E meno male che figli non ne erano mai venuti. Però infine c'era riuscito. Età della pensione arrivata, moglie convenientemente defunta e pianta per il tempo adeguato, l'esimio professore si era rifugiato nel suo paese d'origine. Il suo unico parente, una specie di pronipote o qualcosa del genere, gli aveva trovato una vedova disposta ad affittargli un piccolo appartamento per una somma modesta. Aveva una donna di servizio per le pulizie settimanali, una vecchia Olivetti lettera 32 antiquata ma funzionante, risme di carta a iosa, e i suoi libri. Non gli serviva altro per essere felice. Con grande entusiasmo si era dedicato alla stesura del suo capolavoro, la summa del suo sapere su tutte le lingue morte e sui parallelismi tra le antiche culture che le adoperavano, con riferimenti a semisconosciute leggende. Il Libro gli avrebbe donato fama imperitura. L'ampiezza del lavoro non lo spaventava. Non all'inizio, perlomeno. Erano già cinque anni che vi si stava dedicando ed era riuscito a scriverne poco più della metà. L'impegno stava diventando frenetico, temeva che la vita gli giocasse il terribile scherzo di terminare prima del suo Libro. Lui non si sentiva vecchio, ma guardandosi le mani rugose dalle grosse vene in rilievo, le dita deformate dall'artrite, le nocche ingrossate, faceva fatica a ripetersi che era ancora forte come un giovanotto. Non erano le mani di un giovane. E quelle sopracciglia cespugliose sugli occhi slavati e umidi, quelle orecchie troppo grandi per la sua testa... lo specchio in cui si guardava gli diceva ogni giorno che era di un giorno più vicino alla morte. Eppure quando il suo nuovo medico curante gli raccomandava di prendersela con calma, di riposarsi di più (il suo cuore era usurato, diceva, non avrebbe retto allo stress del superlavoro che si stava imponendo, a quei ritmi serrati), lui si arrabbiava. Ma se si sentiva un leone! - Dottor Tositti dei miei stivali! Col cavolo che mi prendo quelle stupide medicine che vorresti darmi - andava sempre più spesso ripetendosi tra sé. - Hai atterrato tuo padre, ma con me non ci riuscirai. Non prima che io finisca il mio libro. Poi potrai anche prenderti la mia eredità! - Il suo medico era infatti il pronipote a cui si era rivolto tempo addietro perché gli trovasse il porto tranquillo della sua vecchiaia, e anche il suo unico erede. Non aveva poi questa gran fortuna, il professore, ma non dovendo dividerla con nessun altro restava sempre un rispettabile mucchietto di soldi, per non parlare della casa di proprietà in città il cui fitto integrava la magra pensione da insegnante. Ma lui non aveva nessuna intenzione di defungere solo per fare un piacere a quel giovanottino che si spacciava per medico. Ogni volta gli faceva un predicozzo sulla sua salute, gli diceva che era troppo trascurato, che avrebbe dovuto stare più attento a cibo e medicine, che avrebbe dovuto fumare meno, che erano tutte cose che non facevano bene né al suo cuore né alle sue arterie. Chiacchiere, lui si sentiva benissimo, un paio di sigari al giorno li aveva sempre fumati, e i piatti pronti surgelati erano una comodità troppo grande per rinunciarvi. Ma niente, il nipote insisteva sempre perché almeno prendesse quelle gocce dall'orrendo sapore che, sosteneva, l'avrebbero aiutato. Come le chiamava? Ah, sì, anti... anti qualcosa... Accidenti, sempre più spesso le parole gli fuggivano via. Un attimo prima le aveva in bocca, l'attimo dopo non le trovava più. Come quando con lo sguardo si segue un insetto, e si è certi di tenerlo sempre d'occhio e di non lasciarselo sfuggire, ti vedo ti vedo ti ve... e di punto in bianco, puff! è sparito dal tuo campo visivo.
Antiaritmiche, ecco! - Ah, vedi, ancora non sono così vecchio, mio caro! E nemmeno così malato come ti piacerebbe (farmi) credere! - Beh, forse non era così vecchio, ma di certo lo era tanto da parlare da solo, e così solo da parlarsi addosso. Però ogni tanto il cuore qualche capriola la faceva.
Gabriella Grieco
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