New York, febbraio 1924
Tre assi contro quattro donne perdono. Bill H. Harrison socchiuse gli occhi. Guardò le carte che aveva in mano e sospirò. Erano sempre tre assi, non uno di più, e tre assi contro quattro donne perdono. Guardò il suo avversario sparecchiare il tavolo verde con un solo movimento del braccio. Guardò tutti i suoi soldi passare di mano senza neanche un cenno di rimorso. Bill si alzò, si toccò il cappello, tracannò l'ultimo sorso di whisky dal bicchiere sudicio della sudicia bettola dove si era infilato per tentare la sorte, prese la sacca ed uscì. Fuori l'aria gelida del porto lo fece rabbrividire. La nebbia nascondeva ogni cosa, ti avvolgeva, ti penetrava sotto i vestiti, ti faceva sentire bagnate anche le mutande. Il suo nome per intero era William Henry Harrison, lo stesso nome di suo padre, lo stesso nome di suo nonno, e lo stesso nome del nono Presidente degli Stati Uniti d'America, l'uomo passato alla storia per aver governato solamente un mese.
Il padre di suo nonno, John Harrison, era di Berkeley Plantation nella contea di Charles City in Virginia, la città natale di quel presidente. Quel presidente, grande combattente degli indiani, che aveva puntato tutta la sua campagna elettorale sulla celebrazione dell'uomo forte di fronte alle mollezze della vita moderna, aveva raccolto su di sé i voti di tutti gli americani che si riconoscevano nei duri uomini di frontiera, quelli che avevano fatto grande questa nazione. Per mantenere e rafforzare l'immagine del pioniere tosto e abituato a tutte le intemperie, il giorno del suo insediamento presidenziale a Washington, nonostante infuriasse un violento temporale, volle tenere il suo discorso inaugurale, ricordato come il più lungo comizio tra tutti quelli tenuti da tutti i presidenti americani, a capo scoperto e senza soprabito. La polmonite fulminante che si prese quel giorno di festa lo portò nel giro di un mese alla tomba. Il suo mandato viene ricordato per essere stato il più corto fra tutti i presidenti degli Stati Uniti. Il nonno di Bill nasceva quel giorno maledettamente piovoso dell'insediamento del nuovo sfortunato presidente, il 4 marzo 1841, e suo padre John, che si chiamava anch'esso Harrison pur non essendone lontanamente parente, volle fare al neonato il regalo di mettergli lo stesso nome in onore del compaesano. Se John Harrison poteva avere un benché minimo motivo per chiamare suo figlio allo stesso modo del concittadino divenuto famoso, nessuno seppe mai perché la tradizione continuò per altre due generazioni.
William H. Harrison rimase pensoso davanti alla taverna per alcuni minuti, emise un sospiro e tornò all'in-terno. Tirò fuori dalla sacca un pacco di fogli manoscritti e li gettò sul tavolo. - Possono valere cento dollari - disse. - Cos'è, un'altra storia che nessuno ti compra? - Valgono almeno CENTO dollari - ripeté. - Ok, vada per venti.
Dopo dieci minuti Bill era nuovamente fuori, nell'aria fredda e con la sacca vuota. Prima di uscire era passato al bancone e si era fatto dare una bottiglia. - Questa mettila in conto a Joe - aveva detto al barista accennando col capo al tizio che stava raccogliendo i fogli sparsi sul tavolo. Dette una lunga sorsata. Raggiunse il macinino all'angolo della 57esima, una vecchia Dodge del '14, e sbuffando e spernacchiando si mosse verso est. Svoltò a sinistra per la Nona Avenue, attraversò Broadway, prese per la Central Park West, entrò nell'Ottava Strada e si diresse verso Harlem.
La sua Dodge del '14. Come molti reduci della 1. Guerra Mondiale, la prima cosa che Bill aveva fatto appena tornato dall'Europa era stata quella di acquistare quell'auto, simbolo di agiatezza e di certezza verso un futuro ricco di soddisfazioni. Era tornato con molte idee in testa, e la seconda spesa che aveva fatto era stata una macchina da scrivere Underwood per iniziare a buttarle giù. Di scrivere a mano neanche a parlarne. La partenza a vent'anni, la guerra vissuta tra le montagne d'Italia, le esperienze fatte, l'ospedale, i morti e le atrocità che ogni guerra si porta dietro erano stati per lui solamente appunti da rielaborare e mettere in bella copia. Qualunque editore sarebbe stato felice di pubblicarle! Sperava. L'Underwood se la giocò dopo un mese per puntare su Little Cory, un cavallo sicuro a sentire il suo amico Lenny. E così dovette scrivere le sue memorie a mano. Dentro una stamberga nei sobborghi di New Orleans aveva perso due anni a scrivere la storia della sua esperienza in guerra, ed altri due a cercare un editore che la pubblicasse. Quattro anni in cui, tra l'altro, si era sposato, aveva divorziato, aveva lasciato il suo paesino nel Virginia, era salito su un Greyhound si era avventurato nel caos della Grande Mela con la speranza che in quella città fosse più facile piazzare il sogno della sua vita. Frequentando i locali malfamati di Bourbon Street e Storyville, giù a New Orleans, tra i quartieri a luci rosse dove delinquenza e prostituzione erano di casa, aveva imparato a conoscere ed amare quella musica che i neri suonavano in ogni bordello ed in ogni angolo di strada. Ed arrivato a New York il caso lo portò a cercare, e trovare, dove dormire proprio nel quartiere di Harlem, dove in tutti i bar si esibivano i musicisti di jazz. Ed ancora il caso (ma non credo che il caso esista quando si parla di jazz) proprio di fronte alla sua camera, all'incrocio tra la 142ª strada e Lenox Avenue era stato aperto il Cotton Club, che era diventato la meta di tutti i protagonisti di quella musica. Ora dalla sua stanza sentiva venir su tutta la notte il suono delle orchestre: Duke Ellington e Cab Calloway erano di casa, aveva ascoltato, tra un bicchiere e l'altro, Joséphine Baker, Coleman Hawkins, Lena Horne, Dorothy Dandridge. Il pubblico era rigorosamente bianco, i proprietari avevano nomi più da gangsters che da baristi, e gli spettacoli spesso avevano come tema l'uomo bianco che prevale sui selvaggi neri, e questi erano costretti a cantare vestiti come zulù, mentre i bianchi ballavano coi fucili in mano. Nel periodo del proibizionismo al Cotton si poteva bere qualunque cosa, soprattutto quel miscuglio altrimenti imbevibile chiamato Madden's Number One, in onore del suo proprietario Owney Madden. Ma la musica, ragazzi, la musica ubriacava bianchi e neri. E quella musica la suonavano i neri. E nessuno riusciva più a stare fermo quando la musica partiva.
Parcheggiò in Lenox Avenue, spense il motore ed entrò dentro un portone buio. L'uomo al banco della reception, termine pomposo per definire un tavolo sudicio pieno di giornali di pronostici sulle corse dei cavalli, dormiva; Bill salì le scale, entrò nella camera che gli costava, se riusciva a pagarla, 5 dollari a settimana, e si buttò vestito sul letto sfatto. Prima però dette una lunga, generosa sorsata alla bottiglia.
Caporetto, ottobre 1917
Bill suda nella neve. Trema, ma di paura, e non di freddo. Tutt'intorno gli spari del nemico, quando non prendono i soldati, alzano spruzzi di terra, di fango e di neve. Quando invece viene colpito un soldato, il terrore sale sugli occhi dell'americano. Il pensiero che non lo lascia mai è: ma che ci faccio qui, che me ne importa di questa guerra? perché mi sono arruolato? E nei suoi occhi si materializza continuamente sua madre, il suo paese, i suoi amici, il bar di Johnny, gli occhi di Suzie e le sue gambe strette, e la sua gonna che rotea ballando, e tutto si confonde col sangue che scorre intorno. Ha paura di morire, Bill, e pensa alla madre, ai giorni sereni al bar della piazza del paese, alla casa che ha bisogno di un tetto nuovo, agli animali da governare, a quella biondina della casa di Madame La Rouge a cui le si illuminavano gli occhi quando lo vedeva entrare, che gli chiedeva in silenzio portami con te, dovunque vuoi ma portami via. Bill suda e trema. E piange. Prega Dio che finisca e piange, trema e piange. Gesù, perché sono qui? Sono mesi che sto dentro questa trincea rintanato come un topo. E mentre le lacrime gli scorrono sul viso un soldato si alza per guardare al di là della muro di terra che deve ripararli dalle cannonate degli austriaci, sta un attimo in bilico, poi viene scaraventato indietro come un birillo e cade lì vicino. Bill si avvicina strisciando sulla pancia. L'uomo ha il terrore negli occhi, lo guarda e implora mamma mia mamma mia bella aiutami tu mamma mia santissima aiutami tu. Bill lo prende per le spalle, cerca di sollevarlo, e vede il sangue sul petto. Pensa di sbottonargli la giubba, ma la stoffa si allarga da sola e il ventre e l'intestino fuoriescono e si spargono in terra e si mischiano al fango ed al piscio. Bill gli dice stai calmo, adesso ti faccio una fasciatura, stai calmo perdio, ti hanno preso di striscio, te la cavi anche stavolta sei fortunato parola mia, e l'altro continua a chiamare mamma mia santissima aiutami tu. Poi il soldato abbassa gli occhi, vede le sue budella che si allargano, guarda Bill con stupore, mormora ancora una volta con un filo di voce mamma mia bella santissima aiutami, poi reclina la testa e muore. Bill gli chiude gli occhi, si guarda intorno disperato, tenta di trovargli nelle tasche un documento che gli possa permettere di avvisare la famiglia, ma il corpo è completamente inzuppato dal sangue, e la nausea lo fa quasi vomitare. Riesce alla fine a trovare un portafogli, gli strappa la targhetta dal collo e si mette tutto in tasca. Improvvisamente sente il suono di una tromba, è la ritirata, bisogna fuggire al più presto, fra poco le truppe nemiche saranno lì e non ci sarà pietà per i soldati che verranno trovati ancora in trincea, alla faccia dei diritti internazionali sui prigionieri e tutto il resto. Bill corre, corre a perdifiato, inciampa su un corpo, cade, si rialza, i colpi di mortaio lanciano schizzi di neve tutt'intorno. Tutti corrono come lui, qualcuno viene colpito, qualcuno si carica un commilitone sulle spalle, finché può cerca di portarlo in salvo, ma molti abbandonano il fardello per correre più veloci, bestemmiando per non sentire le urla di quello abbandonato.
Gianfranco Sassu
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