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Autore: Claudia Provenzano
Figli mancati
Romanzo
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Figli mancati
Risvegli.

È quasi l'alba sulla città.
L'oscurità ancora l'avvolge, ma non è che un velo lucido attraverso cui la prima luce del giorno si infiltra languida e silenziosa. Affiora da sotto l'orizzonte, tenue dilaga. Cola flebile sui palazzi e sulle strade, si allunga fra le vie, si espande nelle piazze. Inonda gentile il paesaggio urbano rivelandone segreti e misfatti.
Il timer scatta e i lampioni all'unisono si spengono. Milano si sveglia piano. Alcune vetture indugiano al verde del semaforo, partono bofonchiando e si disperdono in lontananza. Passa il primo autobus vuoto. Si ferma, nessuno scende, solo un giovane nordafricano sale tirandosi dietro la sua valigia malconcia. Le porte si chiudono sbuffando e il mezzo riparte svogliato. Torna il silenzio. Si sente soltanto lo sfrigolio di una scopa di saggina che spazza il marciapiede e l'abbaiare stanco di un cane, dall'alto degli alberi qualche corvo appollaiato che gracchia il suo malumore. Dal retro di una panetteria ancora chiusa sciamano onde fragranti di pane appena sfornato. Due uomini in giallo fluorescente escono dal bar dell'angolo e con disgustata gratitudine salgono sul predellino della bocca ingoia-rifiuti che incessantemente, per tutto il giorno, rutterà sulle loro facce il suo schifoso fetore. Nel giro di un'ora l'aroma di quel caffè sarà poco meno di un ricordo e molto più di un desiderio. Intanto un anziano percorre fiacco il marciapiede, mani incrociate dietro la schiena, non ha fretta lui. Indugia sulle prime pagine dei quotidiani freschi di stampa che l'edicolante sta smazzando dalle risme. Esalano un odore pungente di piombo. Più avanti una ragazza in tenuta da jogging, musica nelle orecchie a rimborso dei sogni appena interrotti e contapassi in cintola a garanzia delle calorie che perderà, sbuca come una saetta fuori dal portone. Ha lo sguardo perso nel vuoto e per poco non urta il ciclista anarchico che scivola sommessamente lungo il marciapiede. Ai giardini una casalinga dai capelli scarmigliati pascola il cane, pensa alle incombenze domestiche che l'aspettano su di sopra e rimanda a domani i suoi sogni di libertà. Dall'altro lato della strada un pendolare si dirige rassegnato verso l'imbuto della metropolitana, lancia promesse d'amore nel monitor del cellulare pensando alla sera che prima o poi arriverà.
Ognuno è preso dalla propria vita.

Come le strade di Milano assistono al risveglio dei loro cittadini, così la nicchia di marmo, nel breve tratto di via Monteverdi che finisce in piazza Argentina, assiste a quello ben più timido del suo neonato. Anche lui si sveglia piano. Si sgranchisce, tende gli arti in un movimento riflesso. Oscilla la testa a destra e a sinistra. Sbadiglia tenendo gli occhi ancora chiusi. Non c'è nessuno intorno a lui. Saluta timoroso il nuovo giorno con mugolii e gemiti, deglutizioni e sospiri. Riecheggiano timidi nella via deserta. Nessun passante, saracinesche e persiane chiuse.
Nessuno lo ode.

Etiche

McDonald di piazza Argentina.
È qui che lavora Axel.
Il responsabile del locale non vorrebbe chiamare lui, che è un bislacco studente rasta dei centri sociali, ma ieri era il terzo anniversario del suo fidanzamento e si è fatto prendere la mano dai festeggiamenti. La notte è stata troppo lunga e impegnativa per riuscire ora a fronteggiare l'alzataccia delle cinque. Ha un melmoso impasto acido che gli si rivolta nello stomaco, la bocca di fango e un nugolo di calabroni che gli ronzano dentro al cranio. È piegato in due e non ha altra scelta. Proprio non ce la può fare. Non subito. Deve mandare qualcuno al suo posto per l'apertura stamattina. Ma ha solo quei due. L'orrido e tuttavia sveglio rasta e l'oca giuliva perennemente ritardataria e svampita, cui non affiderebbe neanche il suo pacchetto di sigarette. Prende a tentoni il telefono dal comodino e lo accende. La luce dello schermo brucia le pupille. Indugia. Poi digita.
Il rasta è il minore dei suoi mali.
Axel esce dal portone di casa del suo capo con un'espressione torva e si dirige a passo militare verso la meta designata deglutendo lo spinoso cardo dell'obbedienza al superiore. È incazzato nero. Lo è già, di principio, nei confronti del McDonald per vari motivi di ordine ideologico, dal momento che lui è un No Global. E poi perché, ragione personalissima ma non meno importante, la grande multinazionale gli aveva imposto di tagliarsi i dreads. Un'umiliante sopraffazione. Una violenza, uno stupro. Non erano mica un orpello, erano una parte della sua identità. Li aveva cresciuti con cura per anni. E sei mesi fa lo avevano costretto, bastardi!, a eliminarli. - Indecorosi - , così li aveva definiti l'intervistatore al colloquio di selezione del personale. Un ragazzo più o meno della sua età, eppure già vecchio. Imbevuto di regole, responsabilità e doveri. Ingessato dentro la divisa dell'esercito del terziario, un tristissimo completino grigio, cravatta al collo, mocassini lucidi ai piedi e uno strato di grasso di balena che gli incollava i capelli al cranio. Si lappava le labbra orgoglioso delle sue parole di mostarda. Nella sua concezione della vita lineare come un elettrocardiogramma piatto, rappresentavano le condizioni per essere un uomo vero. - Bisogna fare i conti con la realtà, non si può fare i ragazzini in eterno - , lo aveva ammonito accademico. Poi gli aveva teso l'esca dello stipendio, un gustoso numero a quattro cifre dentro il quale si celava l'amo pungente e fatale delle due più insostenibili fra le condizioni aziendali: divisa McDonald e taglio dei capelli. Giudicava quel lavoro infame e tuttavia le quattro cifre che gli camminavano a braccetto, gli avrebbero garantito le spese universitarie che i suoi, con le loro umili occupazioni e la recente caduta nel precariato di suo padre, non potevano più sostenere. Si era dovuto piegare al ricatto capitalista. Si sentiva un verme. E tuttavia un verme costretto a un percorso senza via d'uscita. Era quello che si ripeteva per placare i demoni che gli si agitavano nel petto. Per mesi infatti aveva cercato un lavoro più dignitoso, ma senza alcun risultato. Era stata già abbastanza dura sacrificare la sua chioma sull'altare del capitalismo e del cibo tossico, svendere i suoi ideali democratici equosolidali e noglobal sul mercato nero della sopravvivenza e mantenersi quotidianamente puro durante quelle quattro ore dentro il mondo corrotto del nemico. E adesso, a tutto questo si aggiungevano pure rogne extra. Sottrazione ulteriore del suo tempo, invasione illegittima del suo spazio, condizionamento dei suoi piani. Eh, no! E poi proprio stanotte. Fumava rabbia dalle orecchie e gli si contorcevano le budella a ripensarci. Si trovava a una serata al Leoncavallo quando era squillato il telefono. Saranno state le cinque e mezzo o giù di lì. Aveva gli occhi chiusi e la mano sinistra infilata nell'impasto morbido fra le cosce della ragazza cui era stato dietro per tutta la sera. Una gnocca di colore meravigliosa. Tutta curve e forme morbide. Aveva occhi da scoiattolo e polpa di papaya al posto delle labbra, pelle di velluto dal profumo selvatico, gli ubriacava le narici. Stavano lì attorcigliati l'uno all'altro come la vite al pergolato. La testa affondata in quelle tette grandiose. Ce l'aveva già duro. Doveva solo convincerla a farlo senza preservativo, se l'era dimenticato (come sempre). Era quasi sul punto di persuaderla. Erano nel mezzo della festa, nel cuore della notte, nel centro della matassa del loro desiderio ancora tutta da svolgere. La mano, infilata nella mutandina già zuppa del suo desiderio, lo constatava. La ragazza gli aveva sfiorato l'orecchio con le labbra, erano calde e umide, vi aveva soffiato dentro parole di zucchero filato. Un sussurro. - Ti voglio - , e proprio in quel mentre il cellulare di Axel aveva vibrato nella tasca interna della felpa. Proprio sopra l'aorta. Per un istante non si era reso conto che non si trattava di una fibrillazione del suo cuore, ma solo del suo telefono. Avrebbe dovuto ignorarlo. E invece aveva pure risposto. A quel punto, colto alla sprovvista, non aveva saputo dire di no. Si era lasciato incastrare dal capo. Avrebbe dovuto anticipare il turno di due ore e gestire l'apertura del negozio. Lui che di responsabilità non ne voleva. Vaffanculo! Vaffanculo a quel mezzo borghese sfigato. Impiegato impagliato. Moralista di merda. Gli aveva rovinato tutto. Porca puttana! Quella ragazza gli piaceva un botto. Aveva pure la testa, ragionava bene. Era una con cui starci.
Lo studente stringe le chiavi del negozio in mano mentre cammina e il senso di colpa lo attanaglia. Non riesce a liberarsi dal pensiero ossessivo di aver ceduto al ricatto e di trovarsi così ora asservito alla globalizzazione. Globalizzazione è una parola che gli arroventa il palato. Gli turbina nel cervello, come un ciclone s'ingrossa, gli vortica nelle viscere sollevandolo alla rivolta. Lui ha scelto di battersi, perché - non si può vivere una vita intera come sbirri di frontiera in un paese neutrale - . Così ogni volta che si reca a lavorare dall'oppressore si sente marcire dentro. Lui che all'università studia architettura bioecologica perché vuole salvare il pianeta. Lui che ha deciso di farsi paladino dell'ambiente. Di lottare contro lo strapotere neoliberista che perpetra lo sfruttamento sfrenato della natura e dei suoi abitanti. Ed eccolo invece venduto alla più grande multinazionale del mondo.
È difficile essere coerenti in un sistema che ti stritola, si dice con indulgenza.
È difficile, quando la mattina ti svegli al suono del tuo smartphone (prodotto da una multinazionale), caghi e ti pulisci il culo con la carta igienica (fabbricata da un'altra multinazionale), fai colazione con il caffè, il latte, lo yogurt e i fiocchi di cereali (che provengono da quattro diverse multinazionali), e poi esci con il tuo motorino scassato (marchio multinazionale), fai benzina al distributore (di una multinazionale) e vai all'università, dove ti sensibilizzano sulla necessità di trovare modelli economici alternativi facendoti lezione sugli effetti devastanti della globalizzazione capitalistica e consumistica. Il sovraccarico di polveri fini nell'aria, l'inquinamento delle acque, la rarefazione dell'ozono, il surriscaldamento del pianeta e la desertificazione, l'estinzione di molte specie viventi... Solo per dirne alcune. Poi esci dall'aula con la testa piena di ideali e subito dopo, per mantenerti agli studi, vai a lavorare da McDonald. Una delle multinazionali che vanta i peggiori comportamenti antietici: l'abuso di potere, lo sfruttamento dei lavoratori e delle terre dei paesi in via di sviluppo, i danni all'ambiente, gli Ogm, i regimi oppressivi, i movimenti finanziari illeciti, lo sfruttamento degli animali, la pubblicità scorretta. È difficile tenersi fuori, quando per diffondere le tue idee No Global o per organizzare un'azione di protesta usi Whatsapp e scrivi su Facebook (due multinazionali), e per farlo devi connetterti ad Internet (che tra router, cavi, fibre ottiche, server, software e tutto il resto coinvolge minimo cinque multinazionali). Difficile quando, per scrivere la tua tesi sui materiali costruttivi e sugli impianti tecnologici ecocompatibili, usi il Pc (marchio multinazionale), e quando non ci stai dentro con lo stipendio, cioè praticamente sempre, vai su Ebay, (una multinazionale), che ti fa risparmiare su tutti i prodotti, paghi con Paypal (una multinazionale), ed il prodotto ti arriva con UPS (anch'esso una multinazionale). La sera a cena ti cucini il filetto di nasello o di merluzzo perché sono i più economici della categoria pesce, che nella piramide alimentare sta al centro e devi mangiare almeno tre volte la settimana se no ti viene un infarto a trent'anni. E poi i pomodorini perché sono antiossidanti e prevengono la demenza precoce. I frutti rossi per mantenere alto il metabolismo se no rischi l'obesità. E le banane perché contengono il potassio che ti evita la paralisi muscolare e la rabdomiolisi. Tutto questo grazie alla globalizzazione. Infatti il nasello arriva dalla NeoZelanda, il merluzzo dall'Alaska, i pomodori e i frutti rossi dal Sud America, le banane dall'Africa, perché non è stagione. Per non parlare del sabato sera quando, trovando rifugio da questo mondo corrotto nell'isola felice del tuo centro sociale, consumi, a chilometro zero, la marjuana che ti sei coltivato con i semi e i concimi bio che ti sei procurato, ancora una volta, tramite le multinazionali del Web. Infine, se ti va bene vai a dormire sul tuo futon etnico equosolidale, costruito con materiali della sua terra d'origine dalle rispettabili mani di un lavoratore asiatico per un'azienda occidentale e distribuito in tutto il mondo da una multinazionale.
È difficile essere No Global.
Ma se c'era una cosa che avrebbe potuto risparmiarsi in tutta questa ineludibile cancrena - contro cui tuttavia, Axel e tutti i suoi compagni No Global credevano ancora di poter combattere - era proprio questo merdosissimo lavoro da McDonald. Avrebbe voluto esser assunto da un kebabbaro ed invece no, quelli non lo hanno preso. Guarda tu, paradosso, perché occidentale! Lui che stava dalla parte dei musulmani. A lui piacevano. Li stimava per il loro attaccamento viscerale alla famiglia, per il loro senso della fratellanza e della solidarietà. Per come si occupano dei figli. Per come trattano gli anziani. Tenuti nel palmo della mano. Messi sul trono della saggezza. Considerati col massimo rispetto. Mica come suo padre che trattava sua nonna come una demente, con quell'aria di sufficienza e quei modi scostanti, finché alla fine, spazzatura della famiglia, inutile reliquia improduttiva - a che servono gli anziani? - l'ha messa in casa di riposo. Suo fratello Abdel al centro sociale lo ha guardato come fosse un extraterrestre quando gli ha detto che sua nonna non vive in casa con loro, ma in un istituto. E da allora non gli fa più accendere i narghilè! Massimo segno di disprezzo.
Lo studente cammina e si guarda intorno. Assapora il gusto dolce e morbido del giorno che bruca la notte. E pensa al social forum di Genova del prossimo luglio. Ne avevano parlato tutta la sera. Piani, propositi, discorsi. I No Global contro il G8. Circolava una corrente entusiasmante, un flusso esaltante di rabbia rivoltosa e fame di cambiamento. I grandi ideali di pace, uguaglianza e giustizia. Illuminavano il loro futuro e ne tracciavano la via come un faro nel buio. Incendiavano i loro animi come dei moderni Robesbierre. Con lui condividevano valori e afflato, ma non immaginavano che ne avrebbero condiviso pure un analogo destino, non sapevano che Genova sarebbe stata la loro ghigliottina.
Axel cammina e guarda i suoi muri. Sono la tela bianca della sua creatività e di quella del suo branco. Cerca il segno depositato, il sedimento dell'anima di uno di loro. I riferimenti che lo rimettano in carreggiata. Trova quello di Blu, il famoso graffitista. Intenso e spregiudicato. Lo stesso sangue circola nelle loro vene di muralisti. La stessa stirpe li accomuna. La stessa lingua. Quanto gli piace questo lavoro. Ammira Blu, vorrebbe esser lui. E mentre è fermo a contemplare l'opera del suo mito, alle sue spalle passa una pattuglia della polizia. Axel la nota subito e freme. È un automatismo appreso con ripetute esperienze. La polizia è il suo nemico numero uno. La macchina rallenta ed indugia. Il primo pensiero di Axel va alle bombolette nello zaino. Le porta sempre con sé per ogni evenienza. Istintivamente allunga una mano sulla spalla e con sollievo constata che è libera dalle bretelle. Ah sì! Ora ricorda. L'ha affidato a Spago prima di lasciare il Leoncavallo poco fa. Ormai erano quasi le sei, non avrebbe più avuto la complicità del buio neppure per scrivere una fulminea firma o lo schizzo di un logo lungo il suo percorso. Può stare tranquillo, stavolta è pulito. Gli sbirri non possono fargli niente. Un sorriso di sfida gli attraversa impudente il volto mentre voltandosi incrocia lo sguardo inquisitore del poliziotto.
Alla guida della sua volante l'agente-capo Pietro Ravazzi procede a passo d'uomo per esaminare la situazione. Attenzione, sospetto e controllo. Le tre qualità che fanno di lui quello che è. Un mastino. Il poliziotto ha appena svoltato l'angolo a due isolati di distanza dal McDonald che Axel deve raggiungere. E vigila. Non abbassa la guardia. No. Anche se ormai gli manca poco più di un'ora alla fine del turno di notte. Una notte tranquilla tutto sommato. Il poliziotto nota il giovane. Facilmente lo identifica grazie al suo inequivocabile vestiario largo. Jeans tutto pieghe e balze. Felpa con cappuccio sotto una giacca di pelle bombata stile Starter. Cappellino con visiera sopra la bandana. Tesa girata sul coppino. Scarpe da ginnastica a caviglia alta. Linguetta di fuori. Catene pendenti fra tasca anteriore e posteriore agganciate con grossi moschettoni ai passanti dei pantaloni. È questione di una frazione di secondo per la mente svelta e allenata dell'agente-capo più anziano. Ha esperienza lui. E abilità ormai provate. Osserva, raccoglie i dettagli, li interpreta. In un attimo li ricompone in un'unità strutturata ed ecco che ha chiara la totalità del quadro nel suo complesso. Il ragazzo viene immediatamente 1. individuato, 2. definito, 3. catalogato: è un graffitista. Ribellione, arroganza, mancanza di rispetto, teppismo sono le parole chiave. Tutti termini che lo definiscono come il nemico giurato delle forze dell'ordine e dello Stato, cui la polizia è al servizio. Ma questo ragazzo sembra tranquillo. È da solo - i graffitisti non operano quasi mai da soli, hanno sempre una spalla a far loro da palo. Non ha lo zaino. Segno inequivocabile. Serve per trasportare e nascondere l'arma del delitto, le malefiche bombolette. Il giubbotto ricade sgonfio su se stesso, visibilmente vuoto. Non si guarda intorno. Ha le mani libere. La situazione è presto definita. Individuata, catalogata. Il ragazzo è in modalità non-operativa. Almeno ora. Non gli si può fare nulla.
Tira il fiato, innesta la terza e aumenta di velocità. È stanco stasera. Il collega sta smanettando sul cellulare e lui può immergersi nei suoi pensieri. I pensieri scivolano via, come le ruote sull'asfalto, cavalcano le onde della libera associazione. Dai progetti per la prossima estate in Grecia, al sogno della sua Audi A4 1.8 per la quale sta segretamente risparmiando da tre anni. Dagli esiti degli esami medici di routine, eccellenti, - Lei è una bomba - , gli aveva detto il medico, ai nuovi attrezzi fitness acquistati dalla palestra, se tutto va bene domani pomeriggio è di riposo, li proverà. Dalle sue mai spente velleità sessuali, alle prime rughe che proprio stamattina ha scovato sulla fronte, sta decisamente invecchiando, il tempo stringe. Dai pettegolezzi del portiere sulla nuova procace e, a suo dire, dissoluta inquilina del sesto piano, all'invidiabile moglie del suo affezionato collega e amico. Bella, laureata e in carriera e nello stesso tempo sexy e sempre disponibile col marito. Pietro non aveva mai desiderato una donna così in realtà. Bella sì e pure intelligente, certo, ma quel tanto che basta per sostenere una conversazione sensata, non chiedeva di più. Lui era uno semplice. Aveva un normale diploma e tutte le sue ambizioni erano rivolte alla famiglia. Lui non desiderava una donna in carriera che compensasse lo scarso prestigio e gli scarsi guadagni della sua professione. Lui voleva una donna che gli fosse compagna nella quotidianità e che gli desse dei figli. E quei figli, lui voleva non solo metterli al mondo, voleva accudirli, crescerli, educarli. Formarli ai veri valori della vita. Lavoro, onestà, rispetto, responsabilità. Renderli giovani edificanti, non come questi scapestrati dei centri sociali che non sanno fare altro che contestare, infamare e distruggere, cani! Figli da far diventare uomini nobili. Come suo padre aveva fatto con lui. Figli ai quali lasciare in eredità i propri principi, affinché a loro volta li tramandassero ai loro figli, e ai figli dei figli, in una catena solida e sonora che lo collegasse al futuro.
E invece.
Invece il destino è beffardo e tutta l'ironia affilata con cui, fra sé e sé, aveva fatto a pezzi e disprezzato la moglie rampante del suo collega e commiserato il loro matrimonio, ora si era crudelmente ritorta contro di lui e il suo, di matrimonio. La coppia in crisi e senza figli era la sua, non quella dell'amico, come aveva con superbia profetizzato solo qualche anno prima. La moglie di Salvo, la donna in carriera manager in una multinazionale, era - di nuovo -incinta. Nonostante gli impegni e le responsabilità professionali gli stava per dare, a breve distanza l'uno dall'altro, il suo terzo figlio. Mentre lui, che aveva scelto e sposato Lisel proprio per la sua propensione al ruolo di moglie e di madre, si era visto sbattere in faccia il verdetto della medicina che ne decretava la cronica, irreversibile sterilità. E ahimè, perfida sorte, non solo era stato privato dei figli, che immaginava numerosi, ma anche di sua moglie e della sua vita sessuale, dal momento che la depressione si era portata via entrambe. Così, mentre il suo collega, nonostante i due figli piccoli e il terzo in arrivo, ancora scopava di gran lena e il giorno dopo si presentava vispo e ringalluzzito al primo turno del mattino, lui arrivava in servizio spento e avvilito dall'astinenza cui l'abulia della moglie lo aveva forzosamente costretto. Erano passati i bei tempi in cui doveva mettere la sveglia un'ora prima per avere il tempo di fare l'amore. Una consuetudine rituale che oltre a ricaricarlo, li amalgamava. Rimpiangeva quei giorni. La loro intesa, la complicità. Dopo che avevano condiviso il piacere dell'amore mattutino, si alzavano insieme e, mentre lui si radeva, Lisel gli preparava il caffè. Gliene portava una prima tazzina in bagno e gli si faceva vicino. Si appoggiava come una piuma al suo torace, silente, occhi grati, gli premeva contro il suo corpo ancora caldo e, delicatamente, lo abbracciava. Buongiorno amore. Lo contemplava mentre si vestiva. Lo accompagnava alla porta. Lo avrebbe atteso al suo ritorno, accogliente. Ti aspetto. Così Pietro se ne andava portandosi dentro al petto il ricordo del suo bel viso appagato e la promessa di un nuovo desiderio.
Quel rituale era finito nel momento stesso in cui erano usciti dalla porta dello studio dell'emerito luminare stringendo fra le meningi le parole dell'ultima, definitiva, diagnosi. Quella del sesto specialista in tema di fertilità. Ultimo scoglio cui si erano aggrappate le loro speranze. Ultimo baluardo di qualsiasi noi. - Non c'è proprio niente da fare, signori - , aveva sentenziato il professore, scuotendo la testa e abbassando gli occhi sulle dita inutilmente impegnate a roteare la lussuosa penna stilografica. Lisel si era rattrappita dentro se stessa come una tartaruga impaurita, si crogiolava nel suo dolore, attribuiva a lui il loro problema. La fiducia che li aveva saldati l'uno all'altro in una complicità compatta e solida era svanita via in un attimo come per incantesimo. Si erano allontanati sempre di più, giorno dopo giorno. Giorni di assoluto presente, da cui il futuro era stato radicalmente estirpato.
Ora, Pietro e Lisel si trovavano distanti l'una dall'altro come la Terra da Giove.
(...)
Simultaneità

Lisel si sveglia di soprassalto nel suo letto. Come sempre è vuoto, è raro che trovi il marito al suo fianco. Le palpebre si alzano di scatto come una zanzariera a molla e la prima cosa che vede sono le cifre squadrate arancioni della sveglia digitale che barbagliano nel buio. La luce sbava intorno ai numeri 5.58. La sveglia è puntata alle sette. Ma lei si è svegliata spontaneamente un'ora prima, perché ha un chiodo fisso che le batte in testa da ieri. Un sospetto dolce che nasconde una terrificante paura. È nella natura del sospetto, del resto, ambivalenza.
Ha una settimana di ritardo nelle mestruazioni e il test di gravidanza nascosto nel fondo del cassetto del bagno. Non le è mai successo in tutta la sua vita, ha un ciclo regolarissimo fin da ragazzina. Era stato un buon presagio allora, preconizzava la sua certa fertilità. E invece! Quante volte ha atteso quel ritardo in quegli anni di matrimonio con Pietro. Ci avevano provato così tante volte. Tutte le volte facevano l'amore arroventati dal filo incandescente dell'idea di maternità, ci si attorcigliavano attorno acrobaticamente come scimmie.
Fare l'amore pensando al figlio che sarebbe potuto arrivare attizzava lui e mandava in estasi lei. Conferiva al banchetto della loro sessualità, già di per sé succulento, un sapore aggiunto che lo rendeva ancora più gustoso. C'era nel culmine di quel piacere così effimero la promessa di un futuro solido e durevole. La garanzia di continuità per la propria esistenza nel dopo, oltre l'inafferrabilità dell'ora. Ché il più grande dolore del vivere è il presente, quella inconsistente dimensione dell'attimo che non è più e che tuttavia non è ancora. Nel quale il sé si sfalda e si disperde. Solo oltre il suo ciglio la vita si addensa e prende forma. Il passato e il futuro sono la vera realtà dell'esistenza, l'uno nella forma della solida certezza, l'altro nel conforto della speranza di ciò che può ancora essere.
Lisel rifletteva, tutta raggomitolata nella sua metà di letto. Non osava stendere le gambe oltre il confine tiepido del suo stesso corpo, al di là del quale non avrebbe incontrato che il gelo delle lenzuola intonse e la spietata assenza del marito. Guardava la porta del bagno e un impulso doppio e opposto la spingeva da un lato ad alzarsi subito, correre fino al cassetto, spalancarlo, afferrare il pacchetto della farmacia, scartarlo ed estrarne il magico arnese, sgocciolarci sopra un po' della sua urina. Dall'altro, a riabbassare le palpebre, avvoltolarsi ancora più stretta nelle coperte e sprofondare nell'ultima ora di sonno concessa accantonando ogni pericolosa speranza. Se si fosse infranta l'avrebbe definitivamente annegata nella depressione. Quante volte aveva atteso quel ritardo, accidenti, ma nulla, non era mai accaduto. Quel test era lì dall'ultima volta che lei e Pietro avevano fatto l'amore ancora pregni di eccitate speranze, prima di incontrare quell'odioso primario che aveva schiacciato i loro sogni come merda secca. - Non c'è proprio niente da fare. I suoi ovuli non sono fertili, solo un miracolo potrebbe farla rimanere incinta - , così aveva dichiarato il luminare. L'ultimo. Dopo Pietro non ne aveva più voluto sapere niente. Quattro diagnosi erano sufficienti per lui, non voleva che si torturassero. Le cose stavano così e dovevano solo prenderne atto, da persone adulte, senza deroghe alla ragionevolezza. Ma Lisel a quella parola, - miracolo - , si era aggrappata. Una possibilità che solo la fede contemplava, la scienza gliela negava categoricamente. Il professore vi si era appellato soltanto per enfasi retorica. Ma il valore paradossale di quel termine era stato invece inteso da Lisel in senso letterale. Si teneva appesa a quell'idea con le unghie. Era solo una speranza, una miserabile luce nel cosmo nero, ma era già qualcosa. Certo non poteva condividerla con Pietro, l'avrebbe ritenuta irragionevole e l'avrebbe derisa. Ma cosa ci fosse di irragionevole in questo, lei proprio non se lo spiegava. Che forse i miracoli non esistono? Quante volte persone date per spacciate, in coma da anni, vittime di incidenti in fin di vita, malati di cancro sono improvvisamente guariti senza una scientifica spiegazione? Perché, la medicina non può sbagliare? Non è mai capitato forse che medici, anche consessi di medici, abbiano formulato diagnosi sbagliate? La medicina non è una scienza esatta e i dottori sono fallibili, come tutti gli esseri umani. Il sapere non è perfetto, il corpo umano non lo è. È solo che loro due si sono fermati prima di poterlo verificare. Si sono arresi. Hanno consultato un pugno di specialisti e, convinti che questi rappresentassero la quintessenza della scienza medica universale, hanno accolto la diagnosi in modo definitivo e non sono andati oltre. Ma se le cose non dipendessero dal corpo, bensì dalla testa, come le aveva suggerito la sua migliore amica? - Perché non andate da uno psicologo Lisel? - , le aveva bramito, incoraggiandola a non desistere, l'aveva guardata con quei suoi occhi selvatici, puri, da alce e le aveva inoculato il germe di un'altra verità. Ma Lisel non lo aveva fatto. Pietro non l'avrebbe mai assecondata, lui non crede nella psicologia. Neanche fosse una religione! Per lui le teorie psicologiche e le terapie, sono tutte baggianate, fanfaluche da fattucchiere camuffate da pseudo medicina. Pietro è un uomo concreto e la psiche per lui non si può vedere né toccare, dunque non esiste. Esiste solo il corpo. Così quando erano usciti da quel professore, non c'è proprio nulla che si possa fare, lui l'aveva preso come un verdetto definitivo.
Ma lei no.
Lei non aveva rinunciato affatto alle sue speranze. E ora che c'è il ritardo di una settimana quelle speranze si sono rinfocolate. Tanto che dopo sei giorni ha ceduto alle sue stesse ragionevoli resistenze e ha comprato un test di gravidanza. Adesso deve solo alzarsi da questo maledetto letto che la tiene incollata alle sue paure e andare in bagno. - Dai Lisel! - , si incita. La voce esce involontariamente alta e chiara e sentirla la risveglia dall'indolenza, come se l'invocazione provenisse da un'altra stanza, dalla bocca di un'altra donna più forte e determinata di lei, più coraggiosa. Lisel scatta su, balza fuori dalle lenzuola come una molla e si alza in piedi. Scalza si accorge che il tappetino soffice non c'è più, la pianta dei piedi aderisce al pavimento di marmo gelido. Strano!? Controlla l'orologio, sono sempre le 5.58, e anche questo le pare strano, le era sembrato di essere rimasta lì a rimuginare per un mucchio di tempo e invece non è passato neanche un minuto. Incredibile come il pensiero viaggi veloce. Lisel si volta e cerca il maglione e le babbucce di lana che lascia sempre ai piedi del letto, nel caso debba alzarsi nel cuore della notte. Proprio come ora. Freddo cane! Lisel rabbrividisce e sbuffa e quello sbuffo le si rende subito visibile nell'aria, è un soffio di vapore. Ma com'è possibile? Si volta per guardare fuori dalla finestra. Immagina che stia nevicando, ma la tapparella è abbassata. Strano, la lasciano sempre su. Tanto si alzano tutti e due troppo presto per essere svegliati dalla luce e a Pietro piace guardare fuori dalla finestra. I coni gialli delle luci dei lampioni, il formicolio rosso e bianco delle macchine. Gli piace sentirsi ancora in strada anche quando ha smontato il turno. La strada è il suo regno, più di questa casa, soprattutto da quando non sono più tanto intimi e il focolare del loro rifugio si è spento. Ecco perché fa così freddo, sì, è lei che lo percepisce, è il freddo della solitudine che prova dentro. Ma ora tutto potrebbe cambiare. Lisel non esita più e si precipita in bagno, afferra la maniglia del cassetto con tale vigore che le resta in mano. Oddio no, proprio adesso! Non ora no, lì dentro c'è il test di gravidanza, accidenti! Ma Lisel non si scoraggia, esce dal bagno puntando dritta all'armadio dove Pietro tiene la cassetta degli arnesi. Fuori dal bagno, nello spazio aperto del soggiorno fa ancora più freddo. Lisel nota con la coda dell'occhio che dal cassettone delle tapparelle pende qualcosa. Sono stalattiti di ghiaccio, come quelle che si formano d'inverno in alta montagna dall'acqua che cola dalle grondaie. Apre l'anta dell'armadio e si piega sulle ginocchia per estrarre dall'ultimo scaffale la cassetta rossa degli attrezzi. La cassetta è di ferro e anche quella è gelida, talmente gelida che la pelle delle dita ci si appiccica. Schizza in piedi, si lancia verso il corridoio e dalla tasca del cappotto estrae i guanti di lana, se li infila e torna alla cassetta. Finalmente potrà aprirla, prendere un cacciavite e riavvitare la maniglia. Ma, una volta aperta, scopre con stupore che all'interno, moltissimi attrezzi, non c'è neanche un cacciavite. Ma come, Pietro ne aveva comprato un intero set da sedici di tutte le misure e tipi, piatti, a stella e a brugola, e ora non ce n'è più nemmeno uno? Rovista disperata. Dove può trovare un cacciavite? Non ne ha proprio idea. Intanto le gambe si stanno pietrificando. Dovrebbe chiamare Pietro?, si chiede battendo i denti come un ossesso. No, assolutamente no. Non lo chiama mai quando è in servizio, se lo chiamasse si spaventerebbe a morte, significherebbe che è un'emergenza. E anche rassicurandolo certamente Pietro le chiederebbe perché ne ha così impellente bisogno di cacciavite e lei non vuole dirgli del test. Penserebbe che sta impazzendo e si preoccuperebbe ancor di più. Sicuramente lui non si ricorda che hanno fatto l'amore esattamente quarantanove giorni fa. Ma anche se si ricordasse, non riterrebbe pensabile l'ipotesi di una gravidanza. Lui crede a quel luminare più che alla potenza della psiche. No, no. Deve trovare un altro modo. Fruga freneticamente nella cassetta e continua a ignorare le mani inguantate, i soffioni di vapore che emette respirando, le gambe di legno, le dita dei piedi viola. È come se fosse nuda in mezzo alla neve, ma per Lisel è tutto normale. Rovista estraendo e gettando sul pavimento tutti gli attrezzi che trova. Ce n'è di ogni genere, ma un cacciavite neanche a pagarlo. Rovista, estrae e getta a terra, finché non raggiunge il fondo della cassetta. Completamente svuotata. Proprio come lo è lei, nell'animo. Si lascia cadere sul pavimento duro, le natiche congelate fanno uno strano stonck, come due pietre che sbattono su altre pietre. Ma Lisel è ormai del tutto separata dal suo corpo, lo ignora. Osserva tutto quell'inutile repertorio di attrezzi desolata, finché un'idea l'accende. Ma certo, perché non ci ha pensato prima? Afferra la mazza, la alza fin sopra la testa e con tutto lo slancio del braccio la fa ricadere a parabola sul cassetto. Scatacrash! Un attimo e quello si è sventrato rivelando tutto il suo prezioso contenuto. Soddisfatta, Lisel afferra il piccolo pacchetto rettangolare della farmacia contenente il test di gravidanza. Si tira giù le mutandine, si siede sul WC e scarta l'involto. Svella la bacchetta del test e senza nemmeno leggere il foglio delle indicazioni - quanti ne ha inutilmente comprati in passato! - ci urina sopra qualche goccia di pipì fumante. Poi si rannicchia sul tappetino, chiude gli occhi e conta: uno, due, tre, quattro, cinque... (Che freddo fa!, batte i denti e senza alzarsi tira a sé l'accappatoio appeso al calorifero e vi si avvolge)... novantadue, novantatre, novantaquattro... (Siamo a metà, sospira)... centocinquantuno (Quasi ci siamo, Lisel non sta più nella pelle, strizza gli occhi più forte che può per non cedere alla tentazione di sbirciare e incrocia le dita), centosettantotto, centosettantanove e...CENTOTTANTA. I tre minuti richiesti sono passati e Lisel dissigilla gli occhi tutta eccitata, come una bambina la notte di Natale. E proprio come quella bambina l'emozione è tale che si fa la pipì addosso. Sì, sì, sì!!! È come se lo sentiva lei. Il test è positivo.
Positivo, positivo, positivo. Lisel balza in piedi e salta, balla e urla: sono incinta, incinta!! E ride, ride e piange. Piange l'incredulità della sua gioia. Che notizia incredibile! Esulta. Devo dirlo subito a Pietro. Avevo ragione io, è tutto un fatto di testa. Aveva ragione Emma a dirmi che se avessi smesso con le visite mediche e gli esami e i controlli e le consulte, con tutta quell'invasività, ecco che sarei magicamente rimasta incinta. Perché la psiche non vuole ficcanaso in questo genere di cose. - È un fatto privato fra te e il tuo uomo - , aveva detto, e non se ne era parlato più. Ma sì, dovevo solo lasciarmi andare, ecco la chiave di tutto. Lo dimostrano i fatti. Avrà di che ben ricredersi Pietro con le sue teorie antipsicologistiche! Non vedo l'ora di dirglielo, di vedere la sua reazione. Rimarrà senza parole. Così Lisel si precipita in camera per prendere il telefono e chiamare il marito. Sul pavimento della camera si è formato un leggero strato di ghiaccio, ma Lisel non se ne preoccupa, tanto adesso tornerà di corsa a casa Pietro e allora ci penserà lui. Ci penserà lui a tenerli al caldo, lei e il loro bambino che porta in grembo. La loro famiglia. Lisel corre a piedi nudi sul pavimento per tuffarsi sul comodino dove tiene il suo cellulare, ma correndo scivola sulla lastra di ghiaccio e cade in avanti picchiando la pancia contro lo spigolo del letto. Accidenti! si dice, mentre il dolore le azzanna il ventre, dovremo comprare montagne di paraspigoli, una caduta così sarebbe pericolosissima per il bambino. E mentre lo stabilisce non si rende conto che per lei è stato già fatale. È un attimo. Si rialza, si siede sul bordo del letto, afferra il telefono e proprio mentre sta digitando il nome di Pietro ecco che sente un rigagnolo caldo colare nell'interno coscia. La sensazione di calore in tutto quel freddo è piacevole. È la prima considerazione di Lisel. Ma subito dopo l'aggredisce il pensiero funesto. Abbassa lo sguardo terrorizzata e ...
Nooooo!
Nooo! No, No, No, No! Urla in preda all'orrore e alla disperazione. Un capogiro le fa perdere l'equilibrio e si lascia cadere indietro nel letto. Si guarda intorno sconcertata, è spaesata. Non si ritrova. Non sa cosa stia accadendo. Ora è infilata nel suo letto le gambe sotto il piumone, non indossa più calze e maglione. Non capisce. È come se si fosse appena svegliata. È fradicia di sudore. Le tapparelle sono alzate e un piacevole tepore circola per la stanza. Volta lo sguardo al comodino e vede le cifre arancione della sveglia digitale che barbagliano nella semioscurità dell'alba. La luce sbava intorno ai numeri 5.58. Sente una puntura al cuore e crolla.
Noooo!
È il grido sconfitto del lavoro onirico. È il grido aggressivo e ribelle della frustrazione che non accetta rassegnazione. Ma lei lo sa bene, troppo bene, che Pietro in fondo in fondo ha ragione. La verità è razionale e alcuni fatti incontrovertibili. Come quello che lei non ha più le ovaie, per esempio. Altro che potenza della psiche! Le parole della sua amica avevano avuto un senso solo fin quando l'urgenza di un intervento chirurgico le aveva asportato le ovaie. Nessun bambino, mai più, sarebbe stato concepibile. In nessun modo. Nemmeno per miracolo. Non si può correre con le gambe amputate.
Oddio! Respira profondamente e cerca di riprendere contatto con la realtà. Il sogno era così vivido, così reale! Si strofina le mani sul viso, si spazza via le lacrime, il sudore e la delusione. E un sollievo triste e amaro si insinua nel buco vuoto lasciato da tutto quel turbamento.

*

In quello stesso istante, la giovane madre sta ancora vagolando sola col suo fagotto stretto al petto. Sono quasi le sei, non c'è più tempo, deve darsi una mossa. Ha appena voltato l'angolo e la gigantesca insegna gialla del McDonald le sbatte in faccia con l'arroganza della spensieratezza e la prepotenza dei ricordi buoni. Quelli recenti delle serate con le sue amiche, quelli lontani della sua fanciullezza, quando la mamma la portava a festeggiare i compleanni. Economiche e già organizzate, le feste di Mac erano la soluzione migliore all'incombenza della festa di compleanno. Quella cui non ci si poteva sottrarre senza fare la figura dei pezzenti davanti ai compagni di classe e senza deludere le aspettative degli invitati, del festeggiato e dei genitori. Clamore e fanfara a basso costo in cambio di tanta felicità per tutti. Quel McDonald con la stretta confidenziale della sua familiarità le scalda il cuore e insieme glielo affligge. Krystyna non festeggerà i compleanni di Daniel.
Daniel. È questo il nome che ha deciso di dare alla sua creatura. Perché nominare è definire e definire è individuare e Krystyna non vuole che quell'esserino forgiato col suo corpo, che ora sta consegnando al mondo, si perda nell'anonimia.
Lui è Daniel, non è nessuno.
Così ieri ha preparato anche l'ultimo dettaglio del suo piano. Ha scritto il suo nome su un foglio di carta, lo ha arrotolato e infiocchettato con un nastro di raso blu e glielo ha applicato con una spilla sul pannolone.
Accelera il passo, avvolge bene il pile azzurro a quadri attorno alla creatura. Creatura non voluta eppur sua. Lo rimbocca con cura e lo stringe forte a sé. Inerme di fronte all'istinto, lo bacia. Inspira il suo odore con tutta la capacità che ha nei polmoni, se ne imprime l'aroma dolce e acidognolo di yogurt, odore fresco e buono di latte, di giorno appena spuntato, di tenero acerbo germoglio. Lo bacia e lo ribacia. Un umore gelatinoso le imbratta il cervello. Non sa da che parte stare. Non sa cosa sia il bene e il male. Vede solo in grigio. Il colore degli indecisi, degli insicuri, il colore dell'ignavia.
La giovane madre, la fronte corrucciata, un sorriso rattrappito che le arriccia le labbra, è già vecchia.
Suo figlio non la riconoscerà.
Krystyna guarda il suo bambino. Ha gli occhi chiusi, è tranquillo, lui non sa.
Ma cos'è più ferino, gettare il proprio bambino nel cassonetto, decretarne la morte sollevandolo da ogni futura sofferenza, oppure metterlo in salvo e consegnarlo a una vita segnata dal dolore?
La giovane madre si guarda attorno furtivamente, volta la testa a destra e a sinistra, nessun passante. Nello slargo della piazza i negozi sono ancora serrati. Il chiosco dei fiori e quello del bar non danno segni di vita. Oltre la piazzetta, solo una parete punteggiata da rettangoli grigi. Tutte le tapparelle dell'edificio moderno e dell'hotel sono abbassate. Alle sue spalle qualche persiana aperta sul cortile, ma i vetri sono chiusi e le tende tirate, non percepisce alcun movimento. Esamina le case sul marciapiede opposto proprio di fronte alla vetrina prescelta. È tutto chiuso. Tutto tace, muto e immoto. Ogni famiglia è ancora raggomitolata dentro l'oscurità segreta e taciturna del proprio interno. Volta la testa, gli occhi puntati come il mirino di un fucile, può procedere.
Le tremano le ginocchia e suda freddo. Appoggia cautamente il fagotto sulla base della saracinesca laterale. Fra i due strati della coperta ha infilato un giornale, proteggeranno l'esile corpicino dal freddo della pietra. Facendosi violenza si sforza di non guardare il bambino. Neanche un'ultima occhiata fugace. Nessun commiato. Si rialza bruscamente come se un granchio le avesse pizzicato le natiche, si volta e se ne va a passo sostenuto. Una lingua di sole sbiadito affiora oltre i tetti e sbianca il cielo. Un enorme stormo compare dal nulla e lo pennella col suo volo veloce e compatto, sembra una vela scura che ondeggia al vento. Sulle foglie dei pioppi e degli ippocastani nel piccolo giardinetto in fondo alla via rimbalzano scaglie di luce, rallegrando i primi testimoni del giorno. Trascinano i piedi assonnati pascolando i loro cani. Poco più in là, il parco giochi per bambini è completamente deserto. L'ex-madre alleggerita del suo fardello cammina velocemente, lo attraversa, ma guarda oltre. Dietro lo sterno una pietra è spuntata al posto del cuore. Vorrebbe correre ma non vuole dare nell'occhio. Tira avanti il cappuccio, con una mano furtiva vi infila le ciocche bionde refrattarie al suo anonimato e abbassa lo sguardo sui piedi.
Solo mezz'ora e qualcuno andrà ad aprire il negozio, scoprirà il contenuto fragile e prezioso del fagotto e il suo bambino sarà allora in salvo.

*

In quello stesso momento, il capopattuglia Pietro è in macchina col suo collega. Stanno completando l'ultimo giro di ronda al Leonavallo, e la fatidica chiamata che rovinerà loro la fine del turno non è ancora arrivata. Sono lontani dal luogo in cui Krystyna sta agendo contro la legge. Abbandono di minori. Ci sarebbe di che ben arrestarla. I due, ignari delle azioni della giovane madre come di molte altre efferatezze che si stanno consumando in città fuori dal cono visivo delle loro perlustrazioni, stanno conversando. Sono tranquilli. Fra poco smontano.
Pietro è stanco morto, non regge più neppure la conversazione con il suo invidiabile compagno. Aveva smesso con l'epopea erotica, per fortuna, ma in realtà non sa cosa gli pesi di più, se sentir parlare di sesso, che non fa da mesi, o di figli. Solo la parola gli fende le budella come una lama e lui se le strapperebbe, budella e lama, tutto insieme, pur di liberarsi di quella sofferenza lancinante. È da più di mezz'ora che gli parla dei suoi figli. Con quell'orgoglio disarmante che gli brilla negli occhi. La voce caramellata di soddisfazione. Ogni parola è una picconata. Si sfila il cappello e allenta un po' la cravatta. Si passa indice e medio intorno al collo strozzato nel colletto e inspira, non ne può proprio più. Tre figli, quei due, mentre loro non sono riusciti a metterne al mondo neanche uno! E neanche a farsi affidare quelli che gli altri non vogliono, nemmeno degli scarti sono degni. Dopo tutto il percorso per raggiungere l'idoneità dal tribunale dei minori. Sono da due anni in lista di attesa per l'adozione, ma niente. Prima erano loro a non essere idonei, con quella brutta depressione che aveva afflitto sua moglie. Poi non erano idonei i bambini disponibili, o perché troppo problematici per una coppia fragile appena uscita dalle difficoltà come la loro, o perché troppo grandi per gli estremi di legge che regolano la differenza d'età fra genitori e figli. Di bambini piccoli non ce n'erano. Avrebbero dovuto provare ad andare all'estero come fanno molte coppie nella loro condizione, lì la burocrazia è più snella, e al peggio è più agile aggirarla, basta pagare. La rabbia e la frustrazione soffocano Pietro che si allarga ancora un po' la cravatta. Si passa il fazzoletto sulla fronte umida di sudore e sbuffa. È al limite, mancano poco più di tre quarti d'ora. E se Salvo non la smette con quella bocca larga che vomita parole di una gioia a lui indigesta, adesso gli tira un pugno in faccia. L'intensa amicizia che lo lega all'amico non gli impedisce di provare invidia. Un'invidia scottante che gli arroventa le viscere. Per un istante ha l'impulso di tirarglielo davvero quel pugno. È sempre stato così logorroico?, si chiede, non se lo ricorda proprio. Agguanta a due mani il volante e lo stringe con tutte le sue forze fino a far schioccare le giunture. Deve stare attento, basta un nonnulla e il cervello fa click e salta. Ne sono successe di cose così, gli agenti esplodono come mine per lo stress. E lui è decisamente sotto stress, fra le sue vicende personali e il sovraccarico di lavoro ha esaurito ogni riserva di energia.
Abbassa tutto il finestrino e ingoia a pieni polmoni l'aria frizzante del mattino. Inspira ed espira profondamente. Da Melchiorre Gioia imbocca viale Brianza deciso a fare un ultimo giro di ronda in piazzale Loreto per poi lanciarsi sulla circonvallazione in direzione sud, immettersi in via Morgagni e far rientro in commissariato.
È già lì.

*

Mentre Krystyna si allontana a passi svelti sforzandosi di non voltarsi mai, neanche una volta, Pietro alla guida della sua volante freme affinché quei tre quarti d'ora volino via veloci e Lisel è ancora seduta sul bordo stanco del suo letto che porta il peso di una notte agitatissima.

Claudia Provenzano

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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Lisa Ginzburg Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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