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Autore: Alessio Moa
Nove passi nel delirio
Fantastico
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Nove passi nel delirio
I fiori del male

Trovai quello strano negozio dietro a una piccola piazza di cui non avevo mai nemmeno sospettato l'esistenza. Si apriva su un vicolo maleodorante, neanche un lampione che lo illuminasse. Inciampai in qualcosa e finii per urtare contro la piccola vetrina. Piante, addobbi, fiori esotici.

- Posso aiutarla? -

Mi girai a guardare il vecchio che era comparso sulla soglia del negozio.

- Non so - risposi. - In effetti cercavo qualcosa per mia moglie. -

- Oh, un anniversario forse?! -

Lo osservai meglio. Vestiva una specie di tunica nera che gli arrivava al ginocchio; emanava un odore forte, piuttosto un profumo, dolciastro, eppure fresco, come di un frutto appena colto.

- Ha indovinato. Pensavo a una composizione floreale, oppure a una pianta esotica. -

- Certo. Le mostro qualcosa. Prego... -

Lo seguii piuttosto scettico. Quel negozietto non mi ispirava la minima fiducia, tanto meno il suo proprietario. Fui notevolmente sorpreso perciò quando mi trovai di fronte a un piccolo vaso da cui spuntavano meravigliosi fiori di colori diversi.

- Sono stupendi! Ma precisamente... cosa sono? -

- Che importa il loro nome; sono per lei. Li annusi. -

Quei fiori emanavano un profumo celestiale.
Ebbi un lieve capogiro. Mi ricomposi e pagai senza esitazione la cifra che quell'uomo mi propose. Non ricordo nemmeno se lo salutai. Uscii da quel negozio e mi diressi verso la nostra casa in rue des Abbesses. Prima di uscire dal vicolo però, mi voltai per leggere l'insegna che capeggiava sopra l'entrata. Les fleurs du mal c'era scritto in caratteri dorati.
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Quella sera mangiammo in un ristorante poco lontano da Montmartre. Fu una serata deliziosa. Laura splendeva nel suo abito da sera ricamato e senza maniche. Io ero raggiante. Tornammo a casa un poco brilli e senza dirci nulla salimmo le scale verso la camera da letto. Facemmo l'amore più volte, con passione, gridando, poi con dolcezza, sussurrandoci parole dolci. Giacemmo a lungo abbracciati. Poi Laura si avvicinò al vaso di fiori che aveva voluto sistemare su uno scaffale della piccola libreria davanti al letto; l'annusò nuovamente.

- Dev'essere questo l'odore del paradiso. Non credi? Sono i fiori del giardino celeste. Il regalo più bello che potessi farmi! -

- Non capisco come facciano a convivere nello stesso humus, come le radici trovino spazio all'interno di quel piccolo vaso. Sono così diversi l'uno dall'altro... Ma tu, amor mio, meriti questo miracolo. Buon anniversario. -

La notte ebbi un brutto incubo. Sognai di essere a casa, in poltrona, a leggere, quando senza preavviso la stanza iniziò a tremare, poi a ondeggiare. D'improvviso il pavimento si sollevò, poi si abbassò, infine si aprì. Un terremoto devastante! Ma invece di crollare, la casa restò in piedi. Solo la pavimentazione si squarciò. E non fu tutto. Qualcosa emerse dalla fenditura. Fu una percezione nitida accompagnata da terrore indicibile. Un essere opaco, indistinto, salì dagli abissi, penetrò nella nostra casa. Mi svegliai urlando. Laura non c'era. Appena riuscii a ricompormi, a scacciare quella terribile sensazione di terrore misto a impotenza, scesi in cucina. Lei era lì, seduta al tavolino, che guardava il muro. Mi salutò appena.

- Credo di aver urlato poco fa. -

Non rispose. Per un poco rimanemmo in silenzio. Poi si voltò verso di me, parlò con un filo di voce: - Ho avuto un incubo tremendo. Così realistico! C'era un terremoto in questa casa. Mi inghiottiva! Mi trascinava nel sottosuolo. Lo squarcio si richiudeva. E il buio... Buio ovunque. Nell'oscurità qualcuno mi uccideva. -
La guardai sgomento. Entrambi avevamo avuto un incubo in qualche modo simile. L'abbracciai e la tenni stretta, fino a ché sembrò quietarsi un poco.
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La notte successiva sognai di nuovo: un terremoto, la terra che si apriva, l'essere vestito d'ombra che si avvicinava ancora. E io che potevo solo percepirlo, senza realmente riuscire a vederlo. Intuivo la sua orribile presenza. Anche quel mattino, quando mi destai, lei non era con me. Si era rifugiata nel salone stavolta; stava suonando una desolata melodia al pianoforte. Riconobbi subito la Tristesse di Chopin. Mi sedetti ad ascoltare. Quando finì le andai vicino, sussurrai: - Hai avuto un incubo anche stanotte. Lo stesso. - Lei annuii. Poi si girò a guardarmi. Una lacrima le scendeva, solitaria, dall'occhio sinistro.

Passammo altre notti d'inferno. Sempre il medesimo incubo, con particolari insignificanti che ogni volta mutavano. Lei sognava di essere inghiottita dal terremoto. Nel buio qualcosa la uccideva. Nel mio, l'essere d'ombra si faceva sempre più intraprendente, si avvicinava, cercava di ghermirmi. Mi irrideva.
E Laura... Laura stava sfiorendo. Bianca in volto, non rispondeva quasi più alle mie domande ansiose. Un giorno la trovai a parlare da sola. Sembrava declamasse.

- Quando la terra si muta in umida spelonca, dove la Speranza, come un pipistrello, va battendo i muri con la sua timida ala e picchia la testa sui fradici soffitti... -

- Oddio, è Baudelaire... - esclamai. Poi continuai per lei: - Senza tamburi, senza musica, sfilano funerali a lungo, lentamente, nel mio cuore: la Speranza, vinta, piange, e l'Angoscia atroce, dispotica, pianta, nel mio cranio riverso, il suo vessillo nero. -

Era la nostra poesia preferita che in gioventù, ai tempi in cui frequentavamo la stessa università, spesso recitavo per lei: Spleen, da I Fiori del male.
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- Dobbiamo liberarci dei fiori! - urlò qualche giorno dopo. Gli incubi, sempre più terribili, si erano susseguiti senza tregua. Ormai la notte non dormivamo che una manciata d'ore.

- Per quale motivo? -

- Devono essere loro a farci stare così male. Chissà, forse sono un innesto, una mutazione particolarmente potente della Belladonna. -

- Colpa dei fiori? -

- Del loro profumo. Ci uccideranno. Dobbiamo distruggerli. Ora! -

La guardai senza dire nulla. Un velo nero sembrava oscurarle gli occhi. Un drappo di tristezza e disperazione l'avvolgeva.

- Va bene. -

Salii a due a due gli scalini, entrai in camera, afferrai il vaso, annusai un'ultima volta il profumo delizioso e feci per uscire di casa. Arrivato davanti al portone però esitai. Guardai i fiori scarlatti, verde smeraldo, indaco e scossi la testa. Non potevano essere velenosi. Mi diressi in cantina, posai il vaso sullo scaffale, avvicinai una sedia: rimasi lì non so per quanto tempo a osservare quei fiori straordinari, ad annusarne l'odore indescrivibile.
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Quella notte dormimmo separati. Io rimasi in mansarda. Mi addormentai subito, di un sonno profondo. Verso le tre però mi destai completamente, zuppo di sudore.
La terra tremava. Accesi la luce per scacciare l'incubo. E l'ombra mi assalì.
Urlai con tutto il fiato che avevo in corpo. Era lì davanti a me, incappucciata d'oscurità. Un ondeggiare d'inchiostro, due fessure maligne al posto degli occhi che mi fissavano. Un ticchettio sinistro, sempre eguale.
Rotolai sul letto, caddi sul pavimento, strisciai come un verme pur di non fissare più quello sguardo orribile, pur di sfuggirgli.
Mi precipitai sulle scale, le saltai, caddi malamente. Zoppicando aprii la porta d'ingresso, attaccandomi alla ringhiera mi diressi verso la cantina. Li avrei strappati con le mie mani, li avrei divelti, i fiori del male.
Fortunatamente la porta era rimasta aperta. La spalancai e senza accendere la luce lo cercai a tentoni. Era dove ricordavo di averlo lasciato.
Sollevai il vaso, lo scagliai contro il muro. Sentii il rumore di cocci infranti. Mi girai trionfante. Ma lui era sempre lì. Nell'oscurità quasi assoluta la figura incappucciata d'ombra mi fissava, gli occhi biancastri erano due fessure di luce malvagia.
Arretrai fino alla parete. Urlai mentre avanzava verso di me. Spalancai le braccia, mi inginocchiai. Fu allora che la mia mano incontrò qualcosa, un bastone. No un manico! Sollevai l'ascia, la presi con entrambe le mani, vibrai un colpo verso la creatura delle tenebre. Avvertii qualcosa che si lacerava.
Quando accesi la luce gli occhi senza più vita di Laura fissavano il soffitto. L'ascia era conficcata nel suo petto. Gridai a lungo il suo nome. Poi ci fu un boato nel sottosuolo e le pareti iniziarono a ondeggiare.

Alessio Moa

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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