Storie di fantasmi e altri racconti.
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Théophile Gautier.
Il piede della mummia
Oziando, ero entrato nel negozio di uno di quei venditori di curiosità e cose vecchie che si chiamano marchands de bric-à-brac, in quel gergo parigino che è così perfettamente incomprensibile altrove, in Francia. Di certo ognuno di noi, di tanto in tanto, ha guardato attraverso le vetrine di alcuni di questi negozi, oggi così numerosi che è diventata una moda comprare mobili antichi, al punto che ogni piccolo agente di borsa ritiene sia fondamentale avere la propria stanza da letto medioevale. In quei posti c'è una cosa che si attacca allo stesso modo alla bottega del commerciante di ferro vecchio, al magazzino del fabbricatore di arazzi, al laboratorio del chimico e allo studio del pittore: in quelle tenebre oscure in cui filtra una furtiva luce del giorno attraverso le persiane, la cosa più manifestamente antica è la polvere. Le ragnatele sono più autentiche dei cordoni di stoffa e i vecchi mobili esposti in pero sono in realtà più recenti del mogano che è arrivato appena ieri dall'America. Il magazzino del mio commerciante di bric-à-brac era un vero e proprio Cafarnao. Sembrava che tutte le epoche e le nazioni si fossero date appuntamento lì. Una lampada etrusca di argilla rossa si trovava su un mobile Boule, con pannelli di ebano, vivacemente rigati da linee di ottone intarsiato; una duchesse della corte di Luigi XV allungava con nonchalance i suoi piedi da cerbiatta sotto un massiccio tavolo dell'epoca di Luigi XII, con pesanti supporti di quercia a spirale e motivi intarsiati di chimere e fogliame intrecciato. Sugli scaffali dentellati di diverse credenze brillavano immensi piatti giapponesi con disegni rossi e blu alleviati da tratteggi dorati, affiancati da opere smaltate di Bernard Palissy, raffiguranti serpenti, rane e lucertole in rilievo. Dagli armadi aperti sfuggivano cascate di lucenti sete cinesi argentate e onde di orpelli, che un raggio di sole obliquo riempiva di luminose perline, mentre ritratti di ogni epoca, in cornici più o meno macchiate, sorridevano attraverso la loro patina color ocra. Il pettorale a strisce intarsiate di un'armatura damascata milanese brillava in un angolo; amorini e ninfe di porcellana, grottesche cinesi, vasi di celadon e ceramiche smaltate, tazze Sassoni e di Sèvres ingombravano gli scaffali e le vetrine del locale. Il commerciante mi seguiva da vicino lungo il percorso tortuoso creato dalle pile di mobili e suppellettili, fermando con la mano il pericoloso volteggio delle falde del mio soprabito, mentre controllava i miei gomiti con l'attenzione inquieta di un antiquario e un usuraio assieme. Era un volto singolare, quello del mercante; aveva un immenso cranio, liscio come un ginocchio, circondato da una sottile aureola di capelli bianchi che mettevano in risalto la chiara tinta color salmone della sua carnagione, che gli conferiva un ingannevole aspetto da anziano bonario, contrastato, tuttavia, dallo scintillio di due piccoli occhietti gialli che brillavano nelle loro orbite come due Luigi d'oro nell'argento vivo. La curva del naso aveva un profilo aquilino, che suggeriva origini orientali o ebraiche. Le sue mani - magre, sottili, piene di nervi che sporgevano come corde sulla tastiera di un violino e armate di artigli come quelli all'estremità delle ali dei pipistrelli – vibravano di un tremito senile. Quelle mani così agitate diventavano però più solide delle tenaglie d'acciaio o degli artigli delle aragoste quando sollevavano qualsiasi oggetto prezioso: una tazza di onice, un calice veneziano o un piatto di cristallo di Boemia. Quello strano vecchio aveva una parvenza così profondamente rabbinica e cabalistica che, tre secoli orsono, sarebbe stato arso sul rogo per il suo solo aspetto. - Oggi comprerà qualcosa da me, signore? Ecco un kriss malese con una lama ondulata come una fiamma ardente. Guardi quei solchi fatti per far scorrere il sangue, quei denti ricurvi per strappare le viscere nel ritirare l'arma. È una bella espressione di arma feroce e starà davvero bene nella sua collezione. Questa spada a due mani è molto bella. È opera di Josepe de la Hera; e questo frantopino con il suo paramano, che superbo esemplare di artigianato! - - No, possiedo abbastanza armi e strumenti di morte. Voglio una statuina, qualcosa da usare come fermacarte, perché non posso sopportare quella robaccia di bronzo che vendono i cartolai e che può essere trovata sulla scrivania di tutti - . Il vecchio gnomo frugò tra la sua robaccia e alla fine mi sistemò davanti alcuni antichi bronzi, o almeno gli sarebbe piaciuto esserlo; frammenti di malachite, piccoli idoli indù o cinesi, alcune statuine in pietra di giada che rappresentavano le incarnazioni di Brahmā o Visnù, a sua detta meravigliosamente appropriati per il compito molto poco divino di fermare documenti e lettere. Ero incerto tra un drago di porcellana ricoperto di scaglie, dalla formidabile bocca irta di zanne e denti affilati, e un orrendo feticcio messicano, che rappresentava il dio Vitziliputzili, quando vidi un incantevole piede, che a una prima occhiata pareva un frammento di qualche antica Venere. Aveva quelle bellissime tinte rossastre e brune che conferiscono al bronzo fiorentino quell'aspetto di calda vita tanto preferibile al grigio-verde del comune bronzo, che invece fa apparire le statue come fossero in putrefazione. Splendenti riflessi giocavano sulle sue forme arrotondate, senza dubbio levigate da duemila anni di baci amorosi, perché sembrava un bronzo corinzio, un'opera dell'era aurea dell'arte, magari plasmata dallo stesso Lisippo. - Prenderò quel piede - , dissi al commerciante, che mi guardò con aria ironica e sorniona, e mi porse l'oggetto desiderato per poterlo esaminare più a fondo. Rimasi sorpreso dalla sua leggerezza. Non era un piede di metallo, ma di carne, un piede imbalsamato, il piede di una mummia. Esaminandolo ancora più da vicino, si notavano l'ordito stesso della pelle e le linee quasi impercettibili impresse su di essa dalla trama delle bende che l'avevano fasciato. Le dita dei piedi erano sottili e delicate, coperte da unghie perfettamente curate, pure e trasparenti come le agate. L'alluce, leggermente separato dal resto delle dita, offriva con loro un piacevole contrasto, in stile antico, e conferiva al piede una leggerezza tale che pareva la zampa di un uccello. La pianta, appena segnata da alcune lievi linee trasversali, dava prova del fatto che non si fosse mai posata sul nudo terreno, ma fosse venuta a contatto solo con le migliori stuoie in giunchi del Nilo e con i più morbidi tappeti in pelle di pantera. - Ah, ah, vuole il piede della principessa Hermonthis! - esclamò il mercante, con uno strano sogghigno, piantando i suoi occhietti rapaci su di me. - Hahaha! Come fermacarte! Un'idea originale! Che idea artistica! Il vecchio faraone sarebbe stato sicuramente sorpreso se qualcuno gli avesse detto che il piede della sua adorata figlia sarebbe stato usato come fermacarte, dopo aver fatto scavare una montagna di granito come alcova per la tripla bara, dipinta e dorata, coperta di geroglifici e splendidi dipinti del Giudizio delle Anime - continuò lo strano, piccolo commerciante a mezza voce, quasi parlasse con se stesso. - Quanto mi costerà questo frammento di mummia? - - Ah, il prezzo più alto che posso ottenere, perché è un pezzo eccezionale. Se avessi avuto entrambi i piedi, non avrebbe potuto comprarla per meno di cinquecento franchi. La figlia di un faraone! Niente è più raro - . - Sicuramente non è un articolo comune, ma quanto vuole? Innanzitutto, lasci che l'avverta che tutta la mia ricchezza è composta da soli cinque Luigi. Posso comprare tutto ciò che costa cinque Luigi, ma niente di più caro. Potrebbe frugare nelle tasche della mia camicia e nelle fodere interne della giacca senza trovare nemmeno un piccolo pezzo da cinque franchi in più - . - Cinque Luigi per il piede della principessa Hermonthis! È davvero molto, molto poco. È un piede autentico - mormorò il mercante, scuotendo la testa e ruotando gli occhi sovrappensiero. - Bene, lo prenda, e le darò anche le bende - , aggiunse, avvolgendo il piede in un antico tessuto damascato. - Molto bello! È vero damasco: damasco indiano che non è mai stato tinto. È resistente, eppure morbido - borbottò, accarezzando con le dita il tessuto sfilacciato, con l'abitudine acquisita dal commercio che lo spingeva a lodare anche un oggetto di così scarso valore, al punto che lui stesso riteneva valesse la pena regalarlo. Ripose le monete d'oro in una specie di borsa per l'elemosina medievale appesa alla cintura, ripetendo: - Il piede della principessa Hermonthis da usare come fermacarte! - Poi, rivolgendo verso di me gli occhi fosforescenti, esclamò con una voce stridente come il miagolio di un gatto che ha appena ingoiato un pesce: - Il vecchio faraone non sarà contento. Amava sua figlia, mio caro! - - Parla come se fosse un suo contemporaneo. Lei è abbastanza vecchio, lo sa bene! Ma non torni ai tempi delle piramidi d'Egitto - risposi, ridendo sulla soglia. Tornai a casa, felice del mio acquisto. Con l'idea di utilizzarlo il più presto possibile, posai il piede della divina Principessa Hermonthis su un mucchio di fogli scarabocchiati con versi abbozzati, indecifrabili mosaici di cancellature, articoli appena iniziati, missive dimenticate e imbucate nel cassetto del tavolo anziché nella cassetta delle lettere, svista di cui le persone distratte sono particolarmente responsabili. L'effetto fu affascinante, bizzarro e romantico. Ben contento di questo abbellimento, uscii per una passeggiata con la gravità e la boria di chi si sente orgoglioso di avere l'ineffabile vantaggio, rispetto a tutti i passanti con cui sgomita, di possedere un pezzo della principessa Hermonthis, figlia del faraone. Guardai con scherno tutti coloro che non avevano, come me, un fermacarte così autenticamente egiziano, e mi sembrava che l'occupazione di ogni uomo rispettabile dovesse consistere nel semplice fatto di trovare il piede di una mummia da mettere sulla propria scrivania. Fortunatamente incontrai alcuni amici, la cui presenza mi distrasse dall'infatuazione per il mio recente acquisto. Andai a cena con loro, perché quella sera non mi andava di cenare da solo. Quando rientrai a casa, con il cervello leggermente annebbiato da qualche bicchiere di vino, un vago sentore orientale mi colpì delicatamente l'olfatto. Il calore della stanza aveva scaldato il bitume e la mirra con cui i paraschisti, che aprivano i corpi dei morti, avevano pulito il cadavere della principessa. Era un aroma allo stesso tempo dolce e penetrante, un profumo che quattromila anni non erano stati in grado di dissipare. Il sogno dell'Egitto era l'eternità. Il suo profumo aveva la solidità del granito ed era altrettanto duraturo. Presto sprofondai in un sonno intenso. Per alcune ore tutto mi rimase oscuro. L'oblio e il nulla mi coprirono con le loro cupe onde. Eppure la luce illuminò gradualmente l'oscurità della mia mente. I sogni iniziarono a portarmi dolcemente nel loro volo silenzioso. Gli occhi della mia anima si aprirono e vidi la mia camera com'era in realtà. Avrei potuto credermi sveglio, ma sentivo una vaga coscienza che mi assicurava che stavo dormendo e che qualcosa di fantastico era in procinto di accadere. L'odore della mirra era aumentato di intensità e avvertivo un leggero mal di testa, che ovviamente attribuivo ai diversi bicchieri di champagne che avevo bevuto brindando a divinità sconosciute e alle nostre future fortune. Sbirciai nella mia stanza con una sensazione di aspettativa, ma non vedevo nulla che la giustificasse. Ogni oggetto di arredamento era al suo posto. La lampada, delicatamente ombreggiata dal suo globo di cristallo smerigliato, bruciava sulla sua staffa; i disegni ad acquerello brillavano sotto il loro vetro di Boemia; le tende pendevano languidamente; tutto pareva sonnecchiare tranquillo. Dopo alcuni istanti, tuttavia, questa calma interiore parve scomporsi. La legna nel camino si spezzò di colpo, il tronco coperto di cenere emise improvvisamente una fiammata blu e i dischi delle paterne parvero grandi occhi metallici, intenti a osservare, come me, ciò che stava per accadere. I miei occhi caddero accidentalmente sulla scrivania dove avevo messo il piede della principessa Hermonthis. Invece di rimanere fermo, come avrebbe dovuto fare un piede imbalsamato da quattromila anni, iniziò ad agitarsi in modo nervoso, si contrasse e balzò sui fogli come una rana spaventata. Uno scienziato avrebbe immaginato che fosse stato improvvisamente messo in contatto con una batteria galvanica. Potevo distintamente sentire il suono secco prodotto dal suo piccolo tallone, duro come lo zoccolo di una gazzella. Divenni piuttosto scontento del mio acquisto, in quanto desideravo che i miei fermacarte rimanessero al loro posto e pensai che fosse innaturale che i piedi camminassero senza gambe, iniziando a provare una sensazione simile alla paura. Improvvisamente vidi muoversi le pieghe del mio baldacchino e sentii un rumore sordo, come quello di una persona che salta su un piede solo sul pavimento. Devo confessare che ho provato caldo e freddo, avvertendo uno strano refolo gelarmi la schiena, e che i miei capelli, drizzandosi all'improvviso, fecero fare al mio berretto da notte un volo di diversi metri. Le tende del letto si aprirono e vidi la figura più strana immaginabile davanti a me...
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