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Autore: Massimiliano Fusai
La rosa, il folletto e il vecchio fucile
Mistery
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La rosa, il folletto e il vecchio fucile
La fatidica notte.
- Dam indrì e mi britin, dam indrì e mi britin, dam indrì e mi britin... -
La Notte a San Piero, un rigoglioso paese immerso nella quiete mastodontica degli appennini tosco emiliani, era selvaggia e mordeva col suo gelo. Anche le leggende, gli esseri inventati dall'uomo come gnomi e streghe, si nascondevano e lasciavano il bosco solo, a coprirsi di brina candida, mentre la luna giocava a creare riflessi magici, ma anche inquietanti, sui tronchi degli alberi o in quei corsi d'acqua che avevano abbastanza impeto per resistere all'immobilità algida che il freddo cercava di posare su ogni cosa. Poco lontano da lì c'erano il Monte Fumaiolo, dove nasceva il Tevere, e Bagno di Romagna, paese amico e rivale di San Piero, dove si diceva dimorassero gli gnomi e un sentiero, che saliva sui colli alberati e dormienti, ne descriveva la vita con casette in miniatura e statuette gioviali e rubiconde nel Parco degli gnomi. In paese, però, i lampioni rendevano più calda quell'atmosfera argentea che l'inverno regalava alla notte e, in un cortile ben curato, quel gridolino stridulo vestiva l'oscurità: - Dam indrì e mi britin... - .
Un verso straziante, che dal bordo di un pozzo, dentro quel giardino, torturava la mente di un ragazzo in piedi sulla soglia di una casetta. I pugni appoggiati al legno della porta, le lacrime a rigargli il viso. Il cuore infranto che pulsava, respirava affannato piangendo, le braccia e le gambe erano tese, ma più per resa che per rabbia. Ci fu silenzio, il ragazzo uscì dal cancelletto del cortile correndo verso il ponticello che sovrastava il torrente. Sembrava stesse inseguendo qualcuno. - Ti prendo, mostriciattolo! - Poi, il battito affannato del suo cuore si confuse con un tonfo sinistro, il sangue alla bocca, la corsa rallentata, lo sguardo incredulo, le mani sul petto, una ferita sputò sangue nero come se la notte sgorgasse dal suo torace, dal foro nel cappotto sussurrò la morte, pochi passi ancora, trascinati e il ragazzo crollò. La guancia sull'asfalto freddo e luccicante, gli occhi sbarrati che non vedevano più, erano vuoti specchi appannati. Vicino cantava il torrente gelido e il vecchio mulino era rivestito di ricordi andati che ormai non appartenevano più a nessuno, un cespuglio di rose rosse fiorite faceva mostra di sé e si donava all'argentea carezza della luna.

Il nobile sofà e la bottega

Giacinto lavorava nella sua bottega di antiquario, restauratore. Aveva tra le mani un sofà meraviglioso di inizio Settecento. Stava cercando di capire come poterne salvare i tessuti, piuttosto consunti, evitando di sostituirli, sarebbe stato un peccato. Una meraviglia del genere doveva restare il più possibile autentica. Si chiese come mai fosse stato così mal tenuto. Era un tesoro di un certo valore che probabilmente avrebbe fatto bella mostra in qualche vecchia rocca dei dintorni visto che a dargli il compito di sistemarlo era stata l'amministrazione comunale di Cesena.
Non si azzardò a sedervisi sopra, era troppo debole, anche i piedi erano piuttosto ballerini, ma lo accarezzò e ne ascoltò la storia. Sì, perché Giacinto aveva il dono di parlare con i mobili e gli oggetti in generale. Questo gli accadeva sin da bambino e non si era mai chiesto il motivo; gli succedeva e basta e per lui era una cosa normalissima. Col crescere cominciò a pensare che questa sua facoltà fosse più il frutto della sua immaginazione. Il fatto che i mobili gli svelassero verità, poi assodate, poteva dipendere dal suo acume, la sua empatia e soprattutto la sua capacità di svelare, nei segni lasciati su quegli oggetti, alcuni eventi o l'utilizzo che se n'era fatto, così come il luogo dove erano stati tenuti. Insomma, cercava di razionalizzare questa strana magia che gli capitava di vivere.
Il divanetto restò in silenzio per un po', ma appena Giacinto cominciò a eseguire i primi ritocchi, la sua voce risuonò nella sua mente.
- Caro signor restauratore, la prego, abbia grazia nel maneggiarmi. Sono importante io, sa? Arrivo da un'epoca piena di avvenimenti politici e culturali. Sono un sofà del Settecento, epoca in cui si mise da parte la sontuosità del Re Sole, amante del barocco, e si alleggerì l'arredo e l'arte tutta con un nuovo stile che poi, più avanti, verrà indicato come rococò. Insomma, sono un precursore. Abbia gusto nell'aggiustarmi. Fui io a spostare l'attenzione da Firenze e Roma a Versailles, mio caro. Nell'epoca in cui i miei tessuti ancora sfavillavano di floreali arabeschi sono stato, per la maggior parte della mia inanimata vita, in casa di un nobile di Faenza, il Conte Gasparro Ferniani. In Italia ancora il rococò non si era diffuso, lo sarà poi, ma più che altro a Torino, Venezia e Napoli. Prima di allora, non ci crederà mio caro, ero alla corte del Re Luigi XV, così innamorato del rococò, dell'arte di cui, in me, porto ancora i segni, anche se deturpato dall'ignominia del tempo e dell'incuria. Ah, quanta grazia in quella reggia, a Versailles, quanti ricevimenti e quante azzimate dame si sedevano su di me con arrivisti, politici e nobili in cerca di avventure. Del resto, il Re Luigi XV era insofferente al suo ruolo, a lui piaceva più organizzare ricevimenti mondani piuttosto che politici ed era un amante infaticabile tanto che veniva soprannominato il Beneamato. Proprio sopra i miei tessuti il Re sedusse Madame de Pompadour e la baciò. Dirà lei, com'è finito qui questo nobile sofà? La storia è lunga e parte dalla scozia dove Giacomo Francesco Edoardo Steward stava cercando di rivendicare il trono in Inghilterra perso dal padre Giacomo II. Essendo lui cugino del Re Sole e di Luigi XV, questi, appoggiarono Francesco Edoardo con ogni mezzo. Luigi XV però, essedo più un fanfarone che un politico, mandò al cugino scozzese alcuni esempi di nuova arte e tra quadri, armadi e seggiole c'ero pure io. Avviluppato in un panno di elegante seta e caricato su un carro viaggiai non poco fino a sistemarmi all'interno del palazzo degli Steward. Fu un periodo meno spensierato e allegro di quello passato in Francia e purtroppo al povero Francesco Edoardo andò male e dovette fuggire, esule in Italia portando con sé molte cose tra le quali anche me. Inizialmente si rifugiò proprio a Faenza ospitato con tutta la sua corte dal Conte Gasparro, per un certo periodo. Poi se ne andò, credo a Roma, ma io rimasi lì. Potrei anche raccontarle tutto il mio travaglio, i mobili invecchiati spesso non vengono accettati e con il tempo le nuove generazioni non ne comprendono il valore e tra i passamani di volgari rigattieri finii a Cesena in un vecchio casolare di campagna tra gente pragmatica e rozza che col tempo mi relegò in cantina. E lì rimasi a farmi tormentare dai tarli e dall'umidità per anni e anni, perché la porta di quella cantina non si aprì più, dopo che il casolare venne abbandonato. Per chi ha il dono della longevità, come ce l'ho io, però, le cose possono cambiare in modo repentino e fu così che rividi la luce dopo che qualche anima buona pensò di rovistare tra i rottami di quell'ambiente angusto. Fui ritrovato proprio da un ragazzotto e dai suoi amici che per gioco entrarono nel casolare abbandonato, come spesso fanno gli annoiati giovani di provincia. Caso volle che il ragazzo fosse figlio del consigliere comunale della giunta di Cesena, addetto alla cultura, che ne parlò al padre, il quale venne a controllare e riconobbe subito il mio valore, tanto da portarmi qui. E adesso, caro restauratore, la prego di avere cura di me che tanto ho sofferto, oltre all'incuria, l'umiliazione dell'abbandono e dell'incomprensione, la prego di rispettare l'arte di cui io, anche se in male arnese, sono degno rappresentante. -
Come detto in precedenza, Giacinto non sapeva se quello che sentiva fosse un'allucinazione o una sorta di incantesimo che gli permetteva di ascoltare ciò che non era udibile; certo è che lui percepiva distintamente la voce dei mobili, ed erano chiare e distinte, diverse tra loro, persino gli accenti erano differenti. Questo sofà, ad esempio, parlava in italiano, ma con un'inflessione marcatamente francese. Lo stato del povero divanetto era piuttosto critico. Nella parte destra il tessuto era compromesso, non era più possibile recuperarlo e questo era un peccato perché risultava essere di pregiata fattura, beige con motivi floreali regolari e colori delicati, rosso e verde, a formare dei morbidi e semplici rombi, non stucchevoli. Era un divano a orecchioni con otto gambe miracolosamente intatte nonostante la loro elegante sottigliezza; la cornice di legno era semplice, con intarsi che riprendevano i fiori del tessuto, precisi e lineari quanto essenziali.

- Ti rimetterò in sesto, amico mio. Sono il migliore in questo campo. Dovrei trovare un tessuto simile, ma credo sarà meglio che lo faccia fare appositamente, potrei salvarne almeno una parte, magari quella dove stava seduta madame de Pompadour, con un lavoro sapiente di cucitura dovrebbe essere possibile. Devo fare in modo di salvare più materiale originale possibile, credo che nessuno più si siederà su di te, ma vedrai ogni giorno gente nuova, non sarai mai più solo perché finirai sicuramente in una rocca dei nostri borghi a far mostra di te. Fungerai da reperto storico, per questo dovrò fare in modo che tu rimanga il più originale possibile. L'assessore mi ha chiesto di darti solo una rassettata, ma io farò anche in modo di rinforzarti perché, anche se nessuno si siederà su di te, sei piuttosto debole e il maneggiarti potrebbe provocare dei danni. Quindi per prima cosa smonterò la seduta e la rinforzerò con qualche staffa in ferro, staffe che rimarranno nascoste, così come nei braccioli e nello schienale. Per quanto riguarda il resto mi basterà cercare di pulirti e dare uno strato di lucido al legno. Sarai sempre un vecchio sofà, non tornerai ai tempi d'oro di Versailles, ma acquisterai in robustezza e solidità e quella parte di tessuto infradiciato sarà tolto. Ho un amico che è in grado di riprodurre qualsiasi tipo di motivo su stoffa, vedrai che non se ne accorgerà nessuno, nemmeno della cucitura. Ho la mano fine, io. -
Il sofà sembrò sorridere e Giacinto ne fu soddisfatto. In quel momento entrò in bottega Angelo col suo solito sorriso aperto e luminoso. Era un ragazzo di quarant'anni che non riusciva ancora a staccare i poster dei suoi idoli giovanili dal muro della sua camera da letto. Fisico asciutto, con lo sguardo da guascone incastonato nel viso scavato, ma bello, di una bellezza maledetta e, probabilmente, eterna.
- Ciao, Giaci. Che faccio questa mattina? -
- Puoi cominciare a carteggiare quel comò laggiù, dovrebbe arrivare anche Giovanni, appena sarà qui caricherete quel divano sul furgone e lo porterete al suo proprietario. -
Da un po' di tempo Giacinto aveva assunto l'amico Angelo rimasto senza lavoro a causa di un disturbo che da un po' lo affliggeva. Infatti, ogni tanto spariva, nel senso che era presente fisicamente, ma non con la mente incantandosi per qualche minuto. Questo, nell'azienda agricola dove lavorava prima, non piacque e gli costò il posto. A Giacinto non disturbava che l'amico andasse in tilt per un po'. Lo vedeva ogni tanto assente carteggiare insistentemente la superficie di un mobile, sempre nello stesso punto, ma grossi danni non gliene procurava e comunque durava poco. Aveva, inoltre, verificato che questa sua specie di attacco autistico non lo colpiva mai nel mattino, ma solo nelle ore pomeridiane. Perciò poteva fidarsi anche a fargli fare le consegne col furgone nella prima parte della giornata. Di certo lo aveva assunto perché era, per lui, più che un fratello. Avevano condiviso la vita e mai lo avrebbe abbandonato. E comunque conosceva bene il motivo di quei suoi mancamenti anche se lo teneva per sé. Angelo era davvero un angelo.
Poco dopo arrivò Giovanni, silenzioso come sempre e con lo sguardo rivolto ai suoi passi. Il viso da adolescente introverso. Una cesta di capelli sovrastava la sua fronte aggrottata e dalla pelle glabra del viso spuntava, qua e là, qualche brufolo.
- Olà, Campione. Eccoti qua. Bene, lì c'è la tua tuta incellofanata insieme ai guanti. Tu e Angelo porterete via quel divano, potete cominciare a caricarlo. -
Giacinto diede una leggera pacca sulla spalla di Giovanni che si ritrasse. Vedendolo così infastidito cercò di alleggerirlo con una battuta: - Ti affido Angelo, è sempre con la testa tra le nuvole, mi raccomando, badalo bene. -

Massimiliano Fusai

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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