Un viaggio può essere lungo o breve, il suo scopo è ovviamente la destinazione. Spesso però le strade si complicano, oppure vengono volutamente cambiate dal viaggiatore che, del tragitto, decide di godersi il panorama. Tutti i viaggiatori hanno il diritto di raggiungere il loro traguardo, molti di loro però, perdono memoria di quale fosse l'arrivo, concentrandosi sul ricordo delle mete trascorse, dando quindi le spalle a quelle future. La vita può essere osservata oppure guidata, ma il destino è un biglietto di sola andata con la propria direzione scritta sopra sin dal principio, la cosa migliore da fare? - ...non perdersi mai lo spettacolo - .
- Mamma il sole è andato via!!! - ... - ma no, il sole è ancora lì... proprio dietro le nuvole!
Ero ancora un bambino.
Per qualche motivo, non riuscivo a capire come mai la stella più grande, potente e bella potesse essere fermata da nuvole così piccole. La prospettiva, la mia posizione ed i limiti dovuti alla condizione umana erano la risposta alla mia domanda.
1. LA FAMIGLIA (il castello)
Il tempo, correndo su di un cavallo, mi consegnò ad una donna premurosa, che aveva cura di me, senza che sapessi il perché. Quella donna, quando la luce mi diede memoria, imparai a chiamarla Mamma. Era la regina del castello, un suo abbraccio era un premio prezioso, una sua lacrima era un mattone che crollava. Un gigante che a volte, mi faceva volare in cielo e mi faceva sorridere, era Papà, il re del castello, di poche parole e temuto da tutti. Una bimba che mi faceva i dispetti facendomi piangere, era Bella, che insieme a Lorenzo chiamava Mamma, quella donna premurosa che si prendeva cura di me e Papà il gigante divertente. Capii in seguito, che questa era una famiglia, formata da due genitori e tre figli. C'era una donna, o forse un angelo, che mi insegnò cosa fosse la fiducia, che mi teneva sempre tra le sue braccia, e nei miei ricordi le bastava che emettessi dei suoni per farla piangere, ridere e darmi dei baci: era Nonna N. ero sicuro che non mi avrebbe mai lasciato. Insieme al gigante re, vedevo sempre un altro gigante, un po' più piccolo ma più rotondo, anche lui era simpatico, mi faceva sempre gli scherzi ma non mi faceva piangere come Bella, lui veniva chiamato dagli altri come me, - chissà perché? - comunque mi diceva sempre Nonno quindi pensai che fosse il nome con cui voleva essere chiamato, veniva chiamato così anche da Bella e Lorenzo. Nonno viveva con una signora che lo rimproverava sempre, ma si vedeva che gli voleva bene, perché trovava sempre una scusa per farsi baciare, quella signora era Nonna E. C'era il guardiano, un essere forte e tenero diverso da tutti gli altri, aveva dei peli e quattro zampe, era con noi sempre ed io sono sicuro che la notte venisse a difendermi dai lupi, perché non riuscivano mai a prendermi. Leone mi insegnò ad amare i cani, purtroppo non rimase con noi per molto tempo, perché doveva accompagnare Nonno e proteggerlo quando andò a vedere se il sole fosse ancora dietro le nuvole, una volta glielo chiesi e siccome mi voleva bene volle sicuramente scoprirlo andandoci, ma credo si siano persi, li ho aspettati tanto e non sono più tornati.
2. LA SCUOLA
La notte era trascorsa come sempre, tra cadute nel vuoto e lupi mostruosi che cercavano di mangiarmi, certo io ero furbo, perché nascondevo la testa sotto il cuscino e loro non mi vedevano, solo che questa volta al mattino mi aspettava il primo giorno di scuola. Un peso sul petto mi toglieva il respiro - cosa ci troverò lì dentro e chi mi salverà se ne avessi bisogno? - mi sentivo in pericolo, giustificato dall'ignoto. La scuola era molto vicina a casa mia, tanto che, in un batter di ciglia era proprio davanti ai miei occhi - andiamo che ci stanno aspettando - , mia madre ruppe il silenzio che iniziava a soffocarmi, chissà magari speravo che fosse tutto uno scherzo. Ero il più piccolo della scuola, sia di età che di statura, tutto mi sembrava gigantesco persino i banchi, non ero sicuro se fossi io a portare lo zaino oppure lui a portare me, sta di fatto che mi trovai seduto al banco.
Era giunta l'ora di alzarmi per rispondere alla maestra che facendo l'appello diceva il mio nome, questa volta però seguito da un altro nome che avevo imparato da poco con difficoltà; il perché ci fosse bisogno di due nomi mi era ancora sconosciuto. I bambini presenti in quella stanza, che chiamavano aula, erano strani, tutti diversi e poi c'erano anche delle bambine che erano più o meno come me, con i capelli lunghi ma anche dei vestiti diversi dai miei, un altro mistero, a dire il vero non mi era nuovo, mia sorella era più simile a loro così come le mie cugine. Il tempo era sceso dal cavallo ed aveva cominciato a passeggiare, tanto che potevo vederlo, maledetto, sembrava volermi prendere in giro, mentre sentivo dei rumori di fondo dati dalla voce della maestra che non riuscivo proprio a comprendere, pur riconoscendo le parole che diceva. Un suono potente squarciò quel momento interminabile chiamato lezione, era una campanella che determinava la fine della scuola, solo per oggi, diciamo più una tregua. Non mi sentivo pronto per gli altri bambini, non capivo cosa dovessi dirgli e soprattutto perché avrei dovuto farlo, mi sentivo in costante pericolo, anche se non sapevo quale fosse. Nei giorni a seguire cercavo di disegnare il tempo, - un cavaliere con l'armatura scintillante sul suo cavallo bianco - che mi disturbava mentre la maestra continuava a parlare, comunque non riuscivo a capire perché la maestra volesse farci scrivere quello che diceva - ...oggi facciamo il dettato - . Molti disegni che facevo venivano appesi nel corridoio della scuola, pur non sapendo il perché provavo una certa soddisfazione nel vederli lì su. Presto incominciai a farmi tanti amici, ma quando fui capace di andare a scuola da solo a piedi ci andavo con Ilenia una bimba alla quale pensavo anche quando non era con me, volevo tenerle la mano e darle baci ma non lo feci mai, la mattina andare con lei a scuola era bello. Non fui mai un bravo scolaro, - ...non si applica - diceva di me la maestra, forse doveva pensare più a come migliorare la sua fastidiosa voce, in fondo io mi dovevo occupare del corridoio e come abbellirlo con i miei disegni. Credevo di fare qualcosa per la scuola, - ma cosa faceva lei per me? - . Ebbi sempre un rapporto conflittuale con la scuola sin dall'inizio e questo conflitto durò fino al termine dei miei studi.
3. LA CASA
Era il posto più sicuro dove vivere, ogni volta che ci entravo, chiudendo la porta alle mie spalle, lì mi sentivo tranquillo, ogni pericolo svaniva, eccetto la notte ovviamente, quando mi venivano a trovare i mostri ed i lupi. Ero convinto che mi avrebbe riparato dai pericoli per sempre. Si erano alternati tanti giorni di pioggia e sole, tanti che se li avessi messi in fila avrebbero raggiunto la luna, ma uno di questi mi fece dubitare persino del mio posto sicuro. Stavo giocando con Lorenzo nella nostra camera da letto, avevo aspettato tanto quelle costruzioni di plastica colorata che Papà mi portò da uno di quei viaggi che faceva, - il lavoro, una cosa che usano i grandi per stare lontano dai propri figli - , insomma mi incominciai ad arrabbiare con mio fratello - la smetti di buttarmi giù le torri? - lui mi guardava senza proferire parola con un enorme punto interrogativo nello sguardo, non riusciva a capire quale fosse la sua colpa. Improvvisamente entrò di corsa in camera mio padre, prendendoci tra le sue braccia e portandoci sotto la porta che dava sul corridoio, incominciai a vedere la casa sorridere, uno strano sorriso che mostrava anziché i denti, dei mattoni rossi mentre cadevano dei pezzi dal soffitto, c'era uno strano rumore ed i mobili si muovevano da soli, poi si fermò tutto, era l'ora di uscire di casa - Corriamo bambini - Papà gridava indicandoci la porta di ingresso. Una volta fuori c'erano quelli che abitavano al piano di sopra ma anche quelli che abitavano in altre case, capii che quando la casa sorride non è una cosa buona. I grandi lo chiamarono - Terremoto - credo. Dormimmo in macchina, pensai che fosse una cosa strana da fare. sopratutto con quel freddo, ma non ebbi il coraggio di chiedere il perché a Mamma come facevo sempre. Sembravano molto spaventati, in quel momento pensai che fosse giusto stargli vicino e mostrargli il coraggio che avevo, loro non potevano sapere che Nonno ci avrebbe aiutato, lo vidi sporgersi dalle nuvole, avevo capito che lui da lì avrebbe potuto proteggerci meglio, mentre Leone gli guardava le spalle.
Fu l'ultima volta che vidi quella casa.
4. IL VIAGGIO
Era un giorno molto triste ancora una volta il sole non si vedeva c'erano le nuvole Nonna N. mi disse - devi andare con Mamma e Papà - , questo viaggio mi divideva tra emozione e dispiacere, tutte le estati andavamo in macchina al mare, ma questa volta faceva freddo, non sapevo dove saremmo andati ma non lo chiesi, erano tutti tristi. Le montagne scorrevano lungo il finestrino e la città diventava sempre più piccola alle nostre spalle, una lunga strada ci aspettava d'avanti. Non tornai più a vivere in quella città dove stavano i miei cugini, i miei zii e sopratutto Nonna N. Conobbi il dolore senza ferite e sangue, quello profondo, quello interno. Il bambino aveva imparato cosa significava crescere.
L'odore dell'asfalto mi piaceva, mi ricordava quando mio padre mi chiedeva di accompagnarlo al lavoro. Facevamo tanti chilometri insieme, mi raccontava storie, quando lui non c'era lo immaginavo lungo quelle strade grigie smezzate da strisce bianche, quello era il lavoro che avrei voluto fare anche io. Quando viaggiavamo tutti mia madre amava giocare al gioco delle città, guardando le targhe delle macchine dovevamo indovinare da quale città venivano e dove sarebbero andati. Anche questa era una cosa che mi piaceva, probabilmente ero il peggiore ad indovinare, ma mi piaceva immaginare la vita di ogni persona su quella strada. Dopo tante ore di viaggio incominciai a vedere una città in lontananza che diventava sempre più grande, era la città dove avrei vissuto per sempre. La differenza che notai con quella dove vivevamo prima era che fosse tutta pianeggiante, non c'erano salite ne discese, ne scale ovunque, ma c'era una grande quantità di parchi dove avrei potuto giocare e tante statue di persone importanti, la casa dove saremmo andati era immersa completamente nel verde dei campi, lontana dal centro dove si raggruppavano case e palazzi altissimi.
5. LA CITTÀ LONTANA
I miei genitori in passato impararono a conoscere le città prima dagli ospedali, ero un bimbo vivace, trovavo sempre il modo di ferirmi, cose lievi per fortuna tranne quella volta che riuscii a farmi entrare un ago da ricamo sotto la rotula inginocchiandomici sopra per giocare sul tappeto. Fui operato per l'estrazione in anestesia totale. Ancora ricordo la faccia incredula del dottore quando vide le mie radiografie. Fu lì che conobbi dei miei coetanei, senza gambe o braccia a causa di tumori ossei che li avrebbero privati della normalità a cui erano abituati. Sulla grigia rampa di scale del reparto di ortopedia io e Papà, prima del mio intervento, incontrammo il padre di un mio compagno di stanza che stava raccontando della protesi alla gamba del figlio, entrando così tanto nei particolari, che mi riuscì di immaginare come fosse fatta. La prima cosa che feci quando mi risvegliai dall'operazione fu quella di toccare la gamba per sincerarmi che fosse ancora attaccata al corpo, questa cosa mi segnò l'infanzia al punto tale che le gambe dei manichini nelle vetrine dei negozi di calze mi ricordava quelle protesi. Comunque avevo una - buona media - punti di sutura sulla pelle. La prima volta fu nella città di mare dove andavamo l'estate. Lì scoprii che, con un fazzoletto bianco sventolato fuori dal finestrino, si poteva raggiungere l'ospedale più rapidamente.
Era arrivato il momento della nuova casa, questa volta c'era Nonna E. con noi, rimasta sola, non aveva più il suo amore, del resto come Nonna N. che lo aveva perso pochi giorni prima che nascessi io, per quello piangeva quando mi teneva tra le sue braccia. Nonna E. era sempre triste ma comunque contenta di stare in questa nuova città perché ci viveva sua figlia, mia zia Laura, trasferitasi con il marito alcuni anni prima. Nonna E. aveva ottenuto grandi traguardi professionali, nel dopo guerra, ed era molto fiera di sé, le piaceva raccontarsi ed io passavo molte ore ad ascoltarla, era un mondo tanto diverso da quello che io vedevo e per questo mi sembravano storie fantastiche. Qualche anno dopo, con lo sguardo rivolto verso il cielo raggiunse Nonno. Sperai che Leone vegliasse anche su di lei. L'inverno stava facendo sentire il suo rigido clima, ero più grande e quella notte al mio rientro stavano dormendo tutti in casa, era mia abitudine affacciarmi nella stanza di Nonna E. appena salite le scale, quella volta la porta era chiusa ed ebbi una strana sensazione, un sentimento di paura, non volli aprire la porta della sua stanza, temevo di poterla svegliare, oppure semplicemente di non riuscire a sentire il suo respiro, sta di fatto che preferii andare direttamente a dormire, il mattino dopo, quando mi svegliai, però, non rimasi del tutto sorpreso quando mi comunicarono che mia nonna paterna avesse abbandonato questo mondo proprio durante la notte: ricordai appunto che il giorno prima era come se avesse già iniziato a prepararsi, dato che quando Bella ed io ci trovavamo nella sua stanza, la vedemmo stesa sul letto, con gli occhi rivolti verso il soffitto, sembrava parlare con qualcuno e gli tendeva le braccia come se volesse essere venuta a prendere. Non volemmo dare troppo peso a ciò che era appena accaduto perché ultimamente aveva iniziato ad avere comportamenti strani dovuti alla sua malattia sviluppata in vecchiaia e notevolmente peggiorata nelle ultime settimane. Certo incominciammo a vederne un significato proprio dopo la sua dipartita.
Un altro pezzo del mio cuore andò in frantumi, era un'altra parte del CASTELLO che franava con lei. Assistetti al suo funerale senza volerla vedere stesa nella bara. Da bambino avevo assistito al funerale del prete della parrocchia dove facevo il catechismo e nel guardare il suo corpo senza vita non riuscii più a ricordare la sua immagine senza la bara, quindi decisi di salvare i miei ricordi e da quel momento, evitare di assistere a qualsiasi altro corpo in quella forma. Quelli che riuscivano a vederci una persona che dormiva tranquilla, in fondo li ho sempre invidiati, io ho sempre dato un peso all'anima e purtroppo i miei occhi percepivano solo un involucro vuoto, non avrei mai voluto sentire così una persona amata.
Il mio primo approccio con la città incominciò subito quando i miei genitori vollero iscrivermi ad una gara di disegno, sapendo della mia passione, mi accompagnarono in questo enorme capannone dove c'erano tantissimi bambini che avrebbero dovuto competere per il premio come miglior disegno tra studenti di tutte le classi. Eravamo tutti seduti a dei tavoli lunghissimi con fogli, matite e pennarelli colorati, poi c'erano dei maestri che giravano per controllare lo svolgimento della prova. Al mio fianco avevo un bambino che avevo già visto nella mia scuola, solo che era all'ultimo anno, perché era tanto più grande di me, era davvero molto bravo a disegnare, stava facendo un Pavone talmente bello che si erano accalcati in molti alle nostre spalle per apprezzarlo, io stesso ne ero attratto, ma comunque dovevo pensare al mio lavoro, un Cowboy che stava sparando ad un indiano, ero affascinato dai film che guardavo in televisione ed il mio sogno era montare un cavallo nero, con la pistola ed un cappello, proprio come loro. Come sempre incominciai a vedere quella immagine nella mia testa fino a sentirne lo sparo; tutto d'un tratto fui disturbato da uno strano mormorio alle mie spalle e pur tentando di non farci caso e continuando il mio disegno, quei mormorii incominciarono ad essere sempre più fastidiosi, quindi fui costretto ad uscire dalla mia immagine per cercare di capire cosa stesse accadendo alle mie spalle. Pensai che quelle persone che guardavano il Pavone fossero aumentate e continuassero a fare dei commenti, quindi mi voltai per vedere quante fossero. Nel voltarmi per guardare alle mie spalle volli vedere a che punto fosse arrivato il mio vicino e rimasi stupito dalla bellezza del suo disegno tanto che provai un pizzico di invidia, poi finalmente guardai quella folla accalcata, rimasi sorpreso nel vedere che l'oggetto di tanto stupore da parte loro non fosse il Pavone ma il mio Cowboy, vidi tante persone che mi facevano i complimenti. Vinsi il primo premio di quel concorso e mi diedero una medaglia, mi sembrò strano essere premiato per disegnare, in fondo ero piccolo e non sapevo nemmeno cosa fosse una competizione; peccato per quel Pavone era davvero bello! Qualche giorno dopo venne a casa un signore con la barba lunga che parlava con i miei, - Sarei lieto di avere suo figlio nella mia scuola - , era il professore di storia dell'arte, che mi ritrovai in classe quando iniziai le scuole medie.
Questa non era la mia città, lo capivo dal modo in cui parlavano, soprattutto il modo in cui mi guardavano, ma non potevo certo immaginare di essermi guadagnato dei nemici. Un giorno un bambino che conobbi nella nuova scuola mi venne a citofonare, chiedendomi se mi sarebbe piaciuto andare a giocare con lui, ne fui contento e chiesto il permesso a Mamma lo raggiunsi in strada. Aveva una bici bellissima e mi disse di salire dietro, poi mi portò nel cortile dietro la scuola. Era un pomeriggio di quel lungo inverno dopo il mio arrivo in città, stava incominciando ad imbrunire, quando vidi altri bambini un po' più grandi, che lo salutarono indicandogli dove fermarsi con la bici, una volta fermi si avvicinarono ed incominciarono a spintonarmi, mi dissero che mi avrebbero picchiato perché ero diverso da loro. Tornai verso casa a piedi con qualche graffio ed un occhio pesto, ma la ferita più grande mi rimase nel cuore, la lezione che avevo imparato fu di non fidarsi di nessuno e mi rese ancor più diffidente di quanto già lo fossi prima di allora. Non mi spiegavo perché lo fecero, io non gli avevo fatto nulla, credo dipendesse dal fatto che venissi dal sud. In un certo qual modo da lì incominciai ad apprezzare le diversità, ma sicuramente ogni cosa aveva il diritto di essere spiegata. Non mi importava se la maggioranza avesse ragione o torto, non volli appartenere più alla massa, mi convinsi che il branco non fosse capace di ragionare con il cuore ma che agisse solo spinto da ideali spesso sbagliati, solo per essere accettati ed apprezzati dai più. Passai quindi un lungo periodo da solo, continuai a fare le cose che un bambino vorrebbe fare, ma senza alcun compagno. Andavo al cinema in città nelle ore pomeridiane e mi sedevo sulle poltroncine della prima fila che di solito non piacevano a nessuno, con l'idea di entrare letteralmente nello schermo per vivere altre vite. I miei occhi non erano abbastanza grandi per contenere quelle immagini, ma la fame del mio cervello era senza fine. Lo stare da solo mi diede l'opportunità di conoscermi meglio e guardarmi più in profondità, ogni notte prima di inabissarmi nel mondo della mente attraverso sogni, facevo un piccolo riassunto della mia giornata, cercando di analizzarne gli accadimenti e trarne le conclusioni.
6. AMICI
Il mio primo amico era della mia città natale, nonostante ciò Checco lo conobbi al mare. Era un bambino timido ma sapeva dire le cose giuste al momento giusto, avevamo le stesse passioni e ci bastava uno sguardo per capirci, era la mia certezza ogni volta che andavo al mare per le vacanze estive. Da bambino amavo raccontare delle storie buffe e surreali, lui era uno dei miei più grandi sostenitori al punto che spesso raccoglieva in circolo delle sedie - su al lido della spiaggia - ed invitava gli altri amici a sedersi per ascoltarle, come se fosse uno spettacolo comico, fino a chiamarne addirittura gli applausi al termine. Quando eravamo adolescenti, saremmo dovuti andare insieme in vacanza in campeggio, ma la sua fidanzata dell'epoca, che aveva conosciuto poco prima lo raggiunse. Una sciagura per me, essendo rimasto con la coppia cercai quindi di - scappare - , proprio perché mi sentivo di troppo, però ogni volta che ci provavo Checco riusciva a fermarmi promettendomi che ci saremmo divertiti, non appena lei fosse andata via, conoscendo delle altre ragazze insieme come facevamo solitamente. Ovviamente lei non andò mai via di lì. Ricordo comunque con piacere quell'estate, sia per i miei tentativi, approfittando di una loro distrazione, di raggiungere la più vicina stazione ferroviaria, per poi essere regolarmente fermato, sia le formiche dappertutto, perfino nei panini. Nella città in cui vivevo, quando spensi tredici candeline conobbi Sandro, un ragazzo debole mentalmente, che aveva bisogno di essere apprezzato e per questo sentivo il desiderio di aiutarlo, aveva conoscenze che lo spingevano a cercare il limite per far parte del gruppo, io invece cercavo di fargli capire fin dove spingersi ma sopratutto dove fermarsi. Era un ragazzo molto intelligente, i nostri discorsi però si limitavano sempre alle ragazze, - chissà come mai... - . La nostra frequentazione fu interrotta dal collegio fuori città dove fui mandato dai miei genitori, un premio guadagnato grazie al mio pessimo rendimento, ottenuto nella scuola superiore dove ci incontrammo in classe. La sera prima di andarci dopo una pizza con alcuni amici, ci ritrovammo impicciati in una zuffa con dei tipi proprio davanti la discoteca. Sandro aveva stretto uno di loro tra due auto parcheggiate, quando lo vidi esagerare, corsi verso di lui ed afferrato per la giacca lo separai dicendogli di calmarsi, qualcuno di loro frequentava il collegio dove avrei dovuto studiare, quindi dedussero che fossi il capo di una banda, la qual cosa era lontanissima dalla realtà, ma questo mi valse comunque rappresaglie e malintesi all'interno dell'istituto, iniziai appunto con - il piede sbagliato - , riempiendomi di nemici. Spesso falsificavo la firma di mia madre per giustificare le assenze, una di queste volte fu nel periodo natalizio, rimasi infatti in città mangiando un panettone che mia madre mi aveva dato per il collegio, come unico pasto perché privo di soldi, chiesi a Sandro di darmi un posto dove passare la notte ma non potendo dormire in casa sua, preoccupato che la madre potesse fare la spia, passai la notte nella soffitta del suo condominio, dormii poco per il freddo ed il timore di essere scoperto. Feci il possibile per stare lontano da quel posto senza amici e soprattutto pieno di nemici. Il collegio fu un brutto periodo ma fortunatamente per me breve, convinsi infatti i miei a farmi tornare in città e cambiare ancora scuola. Approdai così alla scuola privata che mi permise di ottenere il Diploma di maturità qualche anno dopo. Durante gli esami del biennio della scuola privata che si svolgevano nella capitale, ebbi la mia prima volta con Silvia, una ragazza del nord anch'essa lì per gli esami. Dormivamo tutti in un albergo di fronte all'istituto dove si svolgevano le verifiche, colsi quindi l'occasione per invitarla nella mia stanza, per fare due chiacchiere insieme in tranquillità, le mie intenzioni erano innocenti, anche perché non avrei saputo come comportarmi oltre il bacio e qualche toccatina. Nella notte imparai a superare il limite aiutato da lei che già conosceva il sesso, fui un disastro totale ma lei ebbe molta pazienza e comunque fu un'esperienza indimenticabile e liberatoria, grazie a lei acquisii più sicurezza in seguito. Con Sandro fu breve il percorso insieme, ma segnò una profonda lacerazione nel mio passato. Purtroppo la sua debolezza aveva vinto e si fermò per sempre, con una siringa nel braccio, in una stazione dei treni. Ancora nuvole.
Avevo bisogno di musica, un'amica meravigliosa, - abbassa... quel rumore!!! - erano chitarre elettriche e batterie, più forte dovevano suonare per scacciare l'oscurità, che - ...è arrivata - .
7. L'OSCURITÀ
Una brutta sensazione, quella che provavo, sentivo una presenza scomoda, una nemica, la sventura, la negatività,. - L'oscurità - , come la chiamavo, era la mia compagna di vita, sempre con me, che mi toglieva la speranza, non c'erano arcobaleni, il sole era troppo lontano per mandarla via. Non facevo programmi per il futuro perché temevo potesse intercettarli ed incominciare a lavorare per distruggermeli. La solitudine non esisteva più data la sua compagnia. Non mi capiva nessuno, era tutto così complicato ma arrivò Anna, con un suo sorriso mi liberava da lei, però era solo una tregua, infatti tornava non appena Anna non era più con me. Lei aveva i capelli color ambra, due occhi verde smeraldo ed un sorriso fantastico, avrei passato le ore a guardarla e contarle le ciglia, per poi dimenticarmene, pur di ricominciare a farlo. Eravamo due ciechi che camminavano nell'oscurità, ma insieme illuminavamo il cammino di luce intensa, con lei non avevo più paura di cadere oppure perdermi. Mi batteva forte il cuore perché non avevo mai baciato una ragazza, - se si fosse arrabbiata - temevo, non potevo perderla. Le mie labbra raggiunsero le sue in un bacio, era un po' strano, umido, sentivo il suo sapore e mi piaceva, non potevo smettere, anche se mi mancava il fiato non volevo finisse mai quel momento magico. - La amo!!! - però amore era una parola troppo grande per uscire dalla bocca di un adolescente, non ricordo perché ma ci perdemmo come due comete inghiottite dal buio. Ancora non era arrivato il momento di abbandonare l'oscurità.
8. LA SOCIETÀ
Erano giorni piuttosto tranquilli quando Dario, un tipo simpatico, alto almeno quanto me, biondo e riccio con un ciuffo lungo, mi invitò ad unirmi a bere con degli amici comuni il pomeriggio in centro città. Mi ricordo che vomitai - anche gli occhi - quella sera, però che ridere! Da allora incominciai ad uscire spesso insieme a lui ed un suo amico strabico, che successivamente sparì, - ...siamo amici - . Erano quasi arrivati i quindici anni e bisognava organizzare una grande festa, la più grande della città e poi se fossi stato fortunato avrei potuto invitare quella ragazza che tanto mi piaceva a casa mia. Dario mi aiutò, eravamo diventati due - simpaticoni - che andavano in giro tra la gente per invitarla al più grande evento sulla faccia della terra, - sapete... i miei sono fuori casa - . Avevamo superato le aspettative più ottimistiche, non c'era spazio per tutti quella sera. Anche quella ragazza che mi piaceva era venuta alla mia festa, volevo invitarla a bere un calice di spumante dolce sperando di ottenere un suo bacio, fui anticipato di un soffio da un piccoletto con cui poi si mise insieme, dovetti assistere a quella sconfitta proprio in casa mia, seppi però accettarla sportivamente, probabilmente sarebbero stati una bella coppia in un mondo parallelo. Improvvisamente dalla porta sentii, - mio Dio... sei impazzito? - , il rientro dei miei genitori mi costò una punizione molto lunga. Continuai comunque a compiacermi per giorni, nonostante la punizione avevo avuto il mio momento di celebrità, era il regalo perfetto per un quindicenne. Non c'era più spazio per lo studio, ne tantomeno per gli allenamenti, erano mesi che non prendevo quel borsone. Lo sport era importante per me, avevo scelto il calcio perché credevo fosse un modo per sfogarmi e divertirmi nello stesso tempo, ero abbastanza bravo ma piccino di statura. Mi misero nella squadra dei ragazzi più grandi ma nel cercare disperatamente di farmi notare dai miei compagni mi toccava correre il doppio di loro, ogni partita era una vera e propria lotta, mi dovevo destreggiare nel cambio di passo ed altre piccole magie, che imitavo dai giocatori della mia squadra del cuore, guardandoli. Non era molto semplice rimanere in piedi con quei giganti in campo, ma non mollavo finché non riuscivo a mettere il pallone nella porta avversaria. Ma col tempo, l'operazione avuta al ginocchio incominciò a darmi sempre più problemi e continui infortuni, sta di fatto che tutto questo era già passato. Quello che volevo era stare con i miei amici, quelli veri, dietro al cinema c'era - la piazzetta - dove ci incontravamo, un appuntamento fisso immancabile, tanto che se non veniva qualcuno ci preoccupavamo, come quella volta che io e Dario ci inventammo - la mia morte - , mentre mi trovavo al sud da Nonna N. lui disse che ero morto in un incidente stradale. Lo scherzo sarebbe iniziato quando gli avessero chiesto di me, quindi lui avrebbe detto dell'incidente per poi rivelare subito la verità, ciò nonostante andò diversamente da quanto programmato, omise infatti la parte che fosse solo uno scherzo. Quando tornai in città infatti, vidi la maggior parte della gente che incontravo guardarmi come un fantasma, proprio perché la voce girò in tutta la città, anche per questo rischiai di essere ammazzato dai miei amici. Gli amici della - piazzetta - , noi eravamo un gruppo di adolescenti misti, dove convivevamo con ragazze per cui non nutrivamo desideri sessuali, almeno per la maggior parte dei casi, con cui scherzavamo e ci intrattenevamo, ognuno di noi aveva una storia diversa e amici che portavamo occasionalmente, qualcuno rimaneva e qualche altro scappava, proprio per la peculiarità che ci distingueva. Non c'era cattiveria tra di noi ma del - prendere in giro - , a volte anche in maniera pesante, ne facemmo un fondamento. Ci piaceva recitare ruoli differenti tutti i giorni, specialmente a me e Dario, tanto da sembrare dei veri e propri matti. Fu allora che scoprimmo la passione per la recitazione - ci iscriviamo a teatro? - volevamo fare gli attori.
9. L'ARTE
Il periodo della musica mi spinse ad imparare a suonare la chitarra, me ne feci regalare una elettrica per il mio compleanno, passavo le ore a provare quei pezzi musicali che mi emozionavano, ma qualcosa non mi soddisfaceva, avevo sempre più bisogno di esprimermi per provare sollievo. Papà mi insegnò le scale musicali sul suo meraviglioso piano bianco, un mezza coda, che torturavo incessantemente toccando i tasti sulla tastiera. Fortunatamente per quel piano, mio padre era la sua salvezza, lui invece era capace di suonare il Jazz che aveva imparato negli anni, quando ero piccolo spesso suonava quella musica che mi trasportava in mondi misteriosi, fatti di note e suoni che combattevano contro il silenzio, vincendolo con emozioni che mi lasciavano senza fiato. La mia voglia d'arte, probabilmente nacque in quei frangenti, per riuscire a trasformare l'emozione in colori, suoni ed immagini che si materializzavano nella mia mente, fu proprio quella voglia di esprimermi a spingermi verso mondi fantastici che mi davano risposte alternative rispetto al resto dei miei coetanei. Mi bastava una matita, un foglio oppure uno strumento musicale per catturare quello che era nascosto nella mia mente e liberarlo verso l'esterno per sentirmi sollevato. Decisi infine di iscrivermi alle lezioni di recitazione, salire sul palco mi terrorizzava, mi sentivo indifeso ed essere osservato non era una sensazione che mi faceva stare bene, ma fu un'occasione per governare le mie paure e conoscere chi aveva le mie stesse passioni, la banda del - Piccolo Teatro - . Dario ed io ci presentammo in teatro per iscriverci nelle ore serali, eravamo seduti insieme agli altri intorno ad un attore vero, uno di quelli che aveva studiato per esserlo, ascoltandolo come fosse un profeta, aveva fatto tanti spettacoli e per noi era un piacere imparare da lui. Divertente era anche il dopo lezione, avevamo formato un gruppetto di amici, c'era una cantante, un pianista, una pazza ed un saggio, ovviamente c'eravamo anche noi due. Alla fine di ogni appuntamento serale ci univamo, noi sei, per andare a bere, oppure semplicemente per chiacchierare del più e del meno, seduti sul muretto lì fuori. Era diventato un appuntamento fisso anche il concerto del martedì che facevano la cantante ed il pianista del nostro gruppo, più altri due che formavano la band, i due li conoscemmo successivamente nel Pub dove erano soliti esibirsi, respiravamo aria di spettacolo continuamente ed eravamo molto uniti. Come ogni classe che si rispetti, arrivò il momento degli esami. - Ci sarà il pubblico... che ansia! - il saggio di fine anno ci portò sul palco, il Teatro della città era pieno, la gente che non conoscevo si mescolava ad alcuni amici e conoscenti che erano troppo pochi per farmi sentire a mio agio. Il silenzio e quelle luci mi facevano sentire la tensione scorrere lungo la schiena, era un momento di vero imbarazzo, non so come ma trovai la forza di parlare. Avevo un ruolo principale, ed ero al centro del palco, mi domandavo perché avessi voluto fare questo. Partirono i primi applausi, quindi mi sciolsi ed incominciai a provare piacere, era successo qualcosa, il bambino ancora nascosto dentro di me incominciò a giocare. Fu un successo, - ...meno male - pensai, - questo sono io, un bambino che ama giocare - . Si susseguirono altri spettacoli, infatti la mia esibizione piacque ad un impresario di feste di piazza e sagre popolari. Ci fu ancora un altro anno di corso, poi l'attestato di partecipazione con un nuovo saggio di conclusione. Fu il mio ultimo anno di teatro, purtroppo mi allontanai per amore.
10. IL PRIMO AMORE
Carnevale era arrivato e con lui arrivò, Beatrice. - ...Andiamo ad una festa in maschera stasera - una delle solite idee dei miei amici della piazzetta, una sala piena di gente, che voleva dimenticarsi chi fosse oppure semplicemente travestirsi ed emulare per una notte il personaggio che avrebbero voluto essere, ma io no, non ne sentii la necessità, la cosa non piaceva ai miei amici tanto da costringermi a travestirmi, messo alle strette decisi di scrivermi sulla fronte A.I.D.S. con il rossetto di una di loro, fu il mio gesto di stizza che fece ridere tutti, - da cosa saresti vestito? - risposi di essere un male incurabile, strizzandogli l'occhio. Mi scontrai con una Sirenetta, un leggero colpo sulla spalla che mi sembrò un fortissimo gancio sotto al mento, ero al tappeto, le sue parole erano musica, suoni celestiali, come un marinaio fui rapito e scaraventato in un sogno bellissimo, nulla aveva più importanza per me. Bea era arrivata al primo posto nelle cose importanti della mia vita, con un suo respiro era riuscita a togliermi il fiato per sempre. - La amo! - questa volta la parola amore non era troppo grande, era addirittura minuscola al punto tale che l'avrei potuta custodire nel mio cuore. Il suo nome fu inciso nella mia anima per sempre. Mi insegnò tutto quello che so sull'amore, ogni secondo con lei era il paradiso, non esisteva alcuna cosa impossibile quando ero con lei, avrei potuto salvarla da draghi e stregoni a mani nude, fu così. Lottavo contro ogni cosa per tenerla al mio fianco, aveva molte ferite ed un'infanzia difficile, le era mancato quello che io avevo avuto, era una principessa senza - Castello - la famiglia, con lei divenni un acrobata, camminavo su di un filo sospeso, la mia storia con lei era diventata una questione di equilibrio. La prima volta che dormimmo insieme fu al mare, organizzai tutto nei dettagli, avremmo avuto un letto matrimoniale tutto per noi, ma soprattutto una notte intera a nostra disposizione. Passai a prenderla, senza farmi notare dalla madre alla quale aveva detto che sarebbe rimasta a dormire da una amica, prendemmo quindi l'autostrada verso il mare, arrivati al hotel ci sistemammo per poi uscire e passeggiare un po', la cena in un bel ristorante per poi consumare il dolce in camera. Non dormimmo quasi per nulla, ma durante il viaggio di rientro restammo in silenzio con un sorriso stampato sul viso, ero al settimo cielo. Da quel momento ogni posto era quello giusto, soprattutto nel suo garage dentro la macchina della madre, nella mia auto ovunque ci fossero: uno spiazzo, degli alberi e tranquillità, insomma eravamo giovani e avevamo scoperto qualcosa di straordinario da vivere il più possibile insieme. Poi le nuvole incominciarono ad organizzarsi per nascondere ancora una volta il sole, quindi arrivò il - servizio militare - che a quei tempi era obbligatorio.
11. LE ARMI
Mi fu difficile vivere alcune ore lontano da lei, quindi il mondo mi era nuovamente avverso, avrei dovuto allontanarmi per un anno, direzione nord, - Attenti, rii...poso! - . L'esordio non fu dei migliori, ci capitò infatti nel periodo in cui una tragica alluvione mise in ginocchio il nord della penisola, essendo il mio corpo d'armata uno tra i più operativi, ci toccò partire per aiutare le zone più colpite da frane e smottamenti. Il rientro in caserma fu un sollievo ma i giorni scorrevano lentamente, il mio amico tempo aveva deciso di sedersi questa volta, maledetto. Un fucile in mano e ronda di guardia, era diventato il mio compito fisso, ricordo quella fontanella che mi salutava gocciolando quando iniziavo e si fermava congelata a fine turno. Compagni di sventura, - ricordate quello magrolino con gli occhi scavati? ...beh ha fatto il tuffo dalla finestra! - era una prova di forza mentale, chi non riusciva a superarla decideva di abbandonare qualche volta per sempre. Bea era ancora lì, mi dava la forza per andare avanti con le nostre preziose telefonate in quella cabina a gettoni, sentivo che avremmo potuto superare anche questa difficoltà e poi c'erano i miei genitori, il Castello. A Capodanno in caserma eravamo in due a fare la ronda di guardia quella notte, Cambri ed io, facevamo due passi avanti ed uno in dietro, una stupidaggine, - così non arriviamo subito alla fine del giro - era un tipo in gamba, ci divertimmo a scherzare quella notte, non c'era nessuno, persino i malintenzionati sarebbero andati a ballare l'ultimo giorno dell'anno, ma il servizio militare non è uno scherzo e qualcuno doveva vegliare sulla sicurezza del deposito di armi. Ricordo le marce sotto la neve e la pioggia, le guardie al gelo e tanti sacrifici che mi rafforzarono il carattere ma questo non potei capirlo al momento, mi ci volle qualche anno per rendermene conto. - È finita la Naia!!! - Cambri con gli occhi lucidi mi abbracciò, eravamo contenti perché saremmo tornati a casa, ma credevo che sarebbe stata l'ultima volta che ci saremmo visti, mi sbagliai.
Era arrivato il momento di riabbracciare Bea la quale mi aspettò, saremmo stati insieme per sempre. Il servizio militare mi aveva cambiato, molte paure avevo imparato a superarle, forse per quel motivo mi sentii pronto a superare gli ostacoli che sicuramente si sarebbero presentati lungo il mio cammino, però non esiste scuola capace di prepararti a quello che mi sarebbe capitato l'estate dopo. - Non ti amo più - , mi parve una lama affilatissima dritta nel cuore, quella frase pronunciata dalla donna che avrei voluto avere accanto, finché il respiro mi fosse d'ausilio a tenere aperti gli occhi, mi sbagliai ancora.
L'oscurità era tornata, aveva preso il posto di chi mi aveva appena ucciso, avevo bisogno di scappare, era il momento di fare esperienze nuove.
12. PRIMA ESPERIENZA
Quella città era troppo piccola, mi sentivo come se mi avessero strappato un braccio, avevo ancora la sensazione dell'arto fantasma, l'avrei vista ancora senza di me, sarebbe stata una ferita aperta, dovevo curarla. Dovevo trovare una soluzione e doveva essere immediata. Pensai al viaggio, quella sensazione di tranquillità che mi aveva sempre dato, volli osare e chiamai un numero che trovai in un volantino. - Cerchiamo giovani da inserire nel Turismo - un uomo con la barba e lo sguardo che lasciava trasparire tanta esperienza, quello che mi serviva era un biglietto verso mete sconosciute, alla domanda, - quando potresti partire? - gli risposi - Ieri! - si mise a ridere e mi diede un foglio che significava un aereo, un viaggio, un'esperienza nuova Mamma mi vide dolorante e cupo, certo era da tanto che mi vedeva così, quindi mi abbracciò poi mi sorrise e disse, - non ti voglio più vedere con questa faccia, prendi quell'aereo! - sapevo di darle un dispiacere, ma una madre riesce a mettere da parte il suo dolore pur di alleviare le pene del figlio. Seduto in quella poltroncina con l'emozione di non aver mai volato, i motori accesi accorciavano il tempo che ci separava dal decollo, che presto avvenne. In quello stesso istante mi resi conto che il distacco dal suolo fu un grande sollievo, un senso di libertà, volare mi piaceva. Un applauso fragoroso sottolineò l'arrivo a destinazione. Ero in un posto nuovo, l'odore sentito era diverso da quelli sentiti fino ad allora, che mi trovassi in un'altra realtà mi fu subito evidente, cercai I miei colleghi, che avrebbero dovuto accogliermi all'arrivo, ma non vedendoli decisi di chiedere informazioni direttamente. In un gabbiotto, con scritto il nome dell'agenzia con cui avrei dovuto lavorare, c'erano due ragazzi del posto, non mi diedero molta considerazione e con un italiano stentato indicando un punto mi dissero, - siediti lì e aspetta... - rimasi in attesa per qualche ora senza che nessuno mi desse retta. Sentii chiaramente un - Click - nella mia testa era accaduto realmente, presi lo zaino e mi diressi verso l'uscita dell'aeroporto, mi avvicinai al primo taxi e con un pessimo inglese chiesi all'autista quale fosse l'Hotel più lussuoso del posto. Una volta arrivato a destinazione, pagai e mi diressi verso la reception con passo deciso, dissi di essere ospite dell'agenzia che mi aveva offerto il lavoro e che avevo bisogno di una stanza matrimoniale urgentemente. Come prevedibile, incominciarono a guardarsi tra di loro sorpresi - non abbiamo alcuna prenotazione - gli risposi di chiedere direttamente all'operatore mostrando un lettera che ne riportava il nome, che fossi stanco del viaggio e che avrei dovuto farmi una doccia, quindi di non perdere ulteriore tempo. Ovviamente avevo volutamente estremizzato la situazione, lo feci per far capire che ero arrivato e non avrei aspettato più nessuno, la rabbia mi aveva svegliato. Feci giusto in tempo a docciarmi prima di essere raggiunto dal mio referente, il quale, scusandosi del ritardo, mi spiegò che non sarebbe stata quella la mia sistemazione, cosa che appunto immaginavo, ma ero certo che se non avessi agito in questo modo, probabilmente sarei rimasto in attesa del suo arrivo ancora più a lungo. Dopo un breve periodo di assestamento e apprese alcune basi del lavoro da svolgere, fui assegnato alla mia zona. Il deserto era misterioso, dovevo accompagnare i turisti italiani attraverso delle oasi, essere il loro amico, il loro tramite, insomma sarei stato la guida dell'autobus. In quelL'autobus, il - mio amico tempo - questa volta era completamente disorientato, immaginavo chiaramente la sua espressione confusa, poveretto. Il tragitto prevedeva una tappa, dove il cielo e la sabbia diventavano una cosa sola nel lago salato, dove mi prendevo sempre qualche minuto per pensare. Chiudevo le palpebre, poi le riaprivo trovandomi immerso in quel nitido azzurro venato di rosa, sentendo il vento sussurrare che tutto sarebbe andato bene. Le altissime montagne di sabbia, che osavo scalare senza timore, mi lasciavano intravedere le oasi cristalline che mi abbagliavano in lontananza, il deserto mi era alleato. Lì il sole era forte e l'oscurità non riusciva a prendermi, quindi aspettava la notte per farlo, non esisteva notte senza di lei, l'arto fantasma era ancora sensibile. Da bambino su quelle scale, avevo sentito parlare di quel piccolo sfortunato al quale avevano amputato il piede e - dell'arto fantasma - , ossia la sensazione di avere un arto nonostante gli fosse stato asportato chirurgicamente, questa cosa mi ricordava Bea il mio braccio strappato ancora presente e per cui provavo ancora dolore. - Alla vostra destra il deserto, a sinistra ancora il deserto, dietro di voi la strada percorsa e di fronte quella da percorrere! - così esordivo al microfono del Pullman, era il mio modo di rompere il ghiaccio con i nuovi ospiti, il mio modo di scherzare, per allentare la tensione di un nuovo viaggio. Le settimane trascorrevano senza tempo ormai, anestetizzato tra momenti intensi e oscurità, le nuvole non stavano più nascondendo il sole da mesi. Mi stavo dedicando alle persone, ognuno era un mondo da scoprire, la maestra che viaggiava sola (non mi dava pace perché voleva la sua storia d'amore), la famiglia che aveva messo da parte i risparmi per vedere i cammelli, le coppie che si volevano dare una seconda possibilità, la ragazza che doveva dimostrare a se stessa di non aver bisogno di nessuno. - Già... proprio lei - , mi ricordo quella notte in cui eravamo sdraiati nel deserto di notte, non avevo mai visto le stelle così luminose e così vicine da poterle toccare, riuscivamo a vederle fino alle dune, sembravano posarsi sulla sabbiA. Lì facemmo l'amore e poi il bagno nella piscina dell'hotel. Bea era ancora con me, avrei voluto farle vedere il cielo nel deserto, continuavo a fare l'amore con lei, quella notte piansi. La stagione estiva si concludeva; dopo tante settimane di deserto era quindi arrivato il momento di cambiare destinazione, ancora l'aereo e poi a casa.
13. IL CASTELLO
Erano tutti fuori della stazione ferroviaria, Mamma, Papà, Bella e Lorenzo, non eravamo mai stati separati così a lungo, avevamo tutti gli occhi lucidi. - Com'è andato il viaggio? - Bella era ormai diventata una donna, di lì a poco si sarebbe sposata. Lorenzo era orgoglioso di me, gli si leggeva negli occhi, lui nacque dopo di me, gli ho sempre invidiato la forza d'animo, non si faceva abbattere da nessuno, era una roccia e per la prima volta mi sentii alla sua altezza per aver superato quel periodo difficile come ne sarebbe stato capace lui. Mi mancavano le sue ossessioni, i suoi racconti confusionari, la bellezza e la poesia della sua mente misteriosa ma allo stesso tempo pura e trasparente come l'acqua. - Sono contenta.. - eccola mia madre, mi guardava negli occhi come faceva sempre quando investigava, non c'era bisogno di parole tra noi, le bastava guardarmi e sapeva già tutto, è stato così da quando sono nato. Mio padre non spiccicò una parola, mi abbracciò e mi diede una pacca sulle spalle. C'erano pochi giorni prima della partenza, ma approfittai per rIvedere i miei amici della piazzetta, l'ultima sera conobbi Valentina, era seduta sul divanetto con sua sorella ed alcuni amici in un Disco Pub della città. Mi fermai a guardarla strappandole un sorriso, le avevo fatto la mia - mossa del dente - era un gioco che facevo per scherzare con gli ospiti sul pullman in viaggio, mi mettevo il pollice proprio sotto la punta del mio canino più lungo e facevo l'occhiolino. Mi avvicinai ed iniziammo a parlare, era evidente a tutti la forte attrazione che ci teneva incollati su quel piccolo divano, scappammo insieme quella stessa notte per rimanere da soli. Le dissi che sarei partito per lavoro il giorno dopo, sapevo che non sarebbe stata l'ultima volta che ci saremmo visti e stavolta non mi sbagliai. Eccoci sul treno, ho sempre guardato i treni quando ero bambino, ne rimanevo incantato, per me era un'invenzione fantastica che ti permetteva di andare ovunque rapidamente e nello stesso tempo potevi camminarci dentro per conoscere altra gente. Un altro aeroporto, un altro odore che non avevo mai sentito, ero nella terra delle Piramidi.
Leonardo De Benedictis
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