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Autore: Luciano Dal Pont
Arrivederci all'inferno
Horror
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Arrivederci all'inferno
Ho paura.
Non erano loro, stanotte, non era nessuno, non era niente, forse era soltanto il buio, forse era soltanto la mia suggestione.
Ma ho paura.
Immagino sarà così, quando verrà il momento.
Arriveranno nel buio, in silenzio, appena si saranno spente le luci, però qualche rumore lo faranno e io li sentirò arrivare. Lo so.
Del resto non avranno tutti questi motivi per cercare di non fare rumore. Penso che ormai non sia più un segreto per nessuno. Non ne ho le prove, non ne ho la certezza, ma credo che anche chi dovrebbe sorvegliare, anche chi, in un certo senso, non fosse altro che per dovere istituzionale mi dovrebbe proteggere, in realtà sia complice e connivente.
Ma è giusto che sia così.
Ciò non toglie, però, che io abbia paura.
E loro lo sanno.
È una paura folle, attanagliante e continua, che non ti da tregua, che ti penetra dentro fino all'ultimo neurone del cervello e si trasforma in un'angoscia torturante, annichilente, una paura che non ti lascia respirare, aggravando sempre più quell'angoscia in un circolo vizioso senza fine. E poi magari crolli e ti addormenti nonostante tutti i tuoi sforzi per rimanere sveglio perché il sonno ti fa paura, ti terrorizza, ti addormenti senza neanche rendertene conto fino a quando ti svegli di soprassalto al minimo rumore percepito o anche soltanto immaginato o anche soltanto sognato.
Un rumore che si è insinuato dentro un incubo così ottenebrante, così raccapricciante da fare a pezzi la tua mente.
Perché a volte gli incubi parlano, sapete?
Oh sì, gli incubi a volte sono molto loquaci, gli incubi a volte ti parlano e ti dicono delle cose, specie quando qualcuno viene a farti visita entrando nei tuoi sogni più atroci per lanciarti dei messaggi terrificanti, ossessionanti, torturanti.
E io ho paura.
Sì, ho una paura folle.
Paura di morire?
No. Oh, no.
Magari fosse soltanto questo.
La morte non è certo il peggiore dei mali, ci sono cose molto peggiori della morte, anzi, la morte certe volte non è altro che un agognato traguardo che vorresti raggiungere al più presto per non soffrire più e che invece sempre ti sfugge, che sempre ti è negato, ancora e ancora e poi ancora, ben oltre ogni limite di umana sopportabilità, e questo credo che nessuno al mondo lo possa sapere meglio di me, visto che ho accumulato una lunga esperienza in questo genere di cose.
Già. Solo che stavo dall'altra parte.
Adesso invece tocca a me.
[...]
Se ne sono appena andati.
Sto seduto sul bordo del letto in un bagno di sudore e sto tremando come una foglia al vento di primavera, si vede, lo sto vedendo io stesso, e lo vedrà la persona alla quale consegnerò il manoscritto, si vede dalla mia calligrafia incerta e distorta. Ma ho voluto prendere subito in mano il quaderno e la penna per non lasciare alle immagini e alle sensazioni che stanno bruciando quel poco d'intelletto che ancora mi rimane il tempo di sbiadire come a volte al risveglio sbiadiscono le immagini e le sensazioni vissute poco prima, nei sogni.
Negl'incubi.
Le immagini e le sensazioni sono invece ancora chiare, adesso.
Loro sono venuti stanotte.
Le loro facce evanescenti e asessuate e morte si sono solidificate nel loro opaco pallore in quella nebbia di tenebra che gravitava tutt'attorno alla mia coscienza, i loro corpi smembrati e putrefatti e privi di organi genitali mi si strusciavano addosso con raccapricciante lascivia e le loro carni maciullate e sanguinolente e putride si staccavano dalle loro ossa spezzate e mi scivolavano giù lungo il corpo lasciandovi lunghe strisciate rossastre e giallastre per poi spiaccicarsi ai miei piedi con un flaccido e schifoso rumore di tonfo
Splak
Splak
Splak
l'odore di putrefazione mi ha seguito nel risveglio e ancora lo sento, lo sento, lo sento ancora adesso, e mi viene da vomitare.
Come tutte le altre volte, anche stavolta sono venuti percorrendo i sentieri più oscuri della mia mente e mi hanno portato nel profondo più profondo di un incubo così devastante da essere intollerabile dall'umana ragione.
Ma non è rimorso, il mio, sia chiaro.
Il mio è soltanto terrore.
Mi hanno portato via con loro come faranno l'ultima volta in cui verranno, l'ultima, quella vera, quella reale, quella definitiva e senza ritorno, quella in cui si materializzeranno rendendosi tangibili, fuori dal sogno, fuori dall'incubo ricorrente, carne e ossa e muscoli e braccia e mani e volontà ancora intatte.
Quella volta, quell'ultima volta, giustizia sarà fatta.
Avevano visi giovani deformati da smorfie agghiaccianti, smorfie d'orrore e di paura e di sofferenza e di morte, eppure c'era una consapevole determinazione nei loro sguardi quando all'improvviso si accendevano e mi fissavano, e c'era una sorta di calma ancestrale nelle loro espressioni vacue.
Parlavano, parlavano fissandomi con quegli occhi spalancati come quelli di un cadavere ma vividi come quelli di un sadico carnefice, parlavano e dicevano cose che io non volevo capire ma che intuivo mio malgrado mentre le loro parole si dissolvevano in mostruosi gorgoglii come di sangue ribollente.
È il momento, vieni, andiamo, vieni con noi.
E sangue rutilante usciva a getti dalle loro bocche mentre parlavano, usciva gorgogliando e seguitando a lordare i loro corpi.
E il mio corpo.
E buio.
E tenebra.
E silenzio lacerante come un sibilo mortale.
Come il sibilo d'un frustino che fende l'aria.
E visioni s'inseriscono come ricordi nei ricordi, come sogni nel sogno, come incubi nell'incubo.
Tenaglie si serrano s'un lembo di carne viva, proprio dove la pelle è più sottile, proprio dove il dolore è più acuto, come all'interno d'una coscia.
Pinze da meccanico s'aprono e s'avvicinano come la bocca d'un piranha al testicolo d'un bambino.
E poi si chiudono e poi stringono... e stringono... e stringono...
E poi la tenebra si rischiara allargandosi verso un antro spaventevole.
Conosco quel posto, quel posto è la cantina dove portavo le mie vittime, dove le torturavo, dove le tenevo segregate per giorni e giorni e notti e notti, dove le violentavo, dove le stupravo, dove le macellavo, dove strappavo loro brandelli di carne con le pinze, dove le bruciavo con i ferri arroventati, dove estirpavo con i denti i loro organi genitali e li masticavo inghiottendo tutto quel che potevo e poi sputavo il resto nella loro bocca, e dove ancora oggi, se si ascolta bene, risuona fra le pareti l'eco delle loro urla disumane.
Al centro dell'antro c'è un uomo appeso a un gancio da macellaio.
È nudo.
Il gancio è infilzato in uno squarcio nella sua schiena.
Dimena le gambe in continui spasmi involontari mentre i piedi penzolano nel vuoto.
Ha le mani legate dietro la schiena.
Dallo squarcio dov'è infilzato il gancio da macellaio sgorga sangue, tanto, tanto sangue, sgorga a fiotti continui e copiosi seguendo il ritmo accelerato dei battiti del cuore e poi cola lungo la schiena e poi sulle mani e poi sulle natiche e poi scende lungo le gambe e infine gocciola dai talloni e dalle dita dei piedi e si deposita sul pavimento, dove si va espandendo una pozza immane.
La bocca dell'uomo è digrignata e a tratti si spalanca e boccheggia come se non riuscisse a respirare e, boccheggiando, vomita sangue, e pare che voglia urlare ma non un suono si ode. Non uno.
Il sangue cola e continua a colare e la pozza s'allarga sempre più.
Un corpo straziato e insanguinato emerge all'improvviso dalla bolgia che danza una danza di morte ai piedi dell'uomo appeso al gancio da macellaio.
Una faccia di tenebra biancheggia sopra le altre.
Gli occhi sono rossi e lacrimano sangue.
La bocca è aperta e i denti sono lamine d'acciaio.
Le lunghe e scheletriche braccia di quel corpo straziato e insanguinato si protendono e s'avviluppano attorno ai fianchi dell'uomo appeso al gancio da macellaio, mentre la biancheggiante faccia di tenebra s'approssima lenta al suo ventre.
In quel momento m'accorgo che l'uomo appeso al gancio da macellaio ha la mia faccia.
L'uomo appeso al gancio da macellaio sono io.
I denti che sono lamine d'acciaio sembrano baluginare di luce propria.
I denti che sono lamine d'acciaio si serrano sul mio cazzo.
E mordono e strappano e tagliano e squarciano e straziano e...
E poi mi sono svegliato di soprassalto e ho percepito me stesso seduto sul letto, tremante e grondante sudore, immerso in quel tenue chiarore appena albeggiante, incapace di connettere, incapace di respirare a fondo, incapace di urlare come avrei voluto urlare.
Loro adesso se ne sono andati.
Ma torneranno.
E torneranno.
E torneranno.
Finché torneranno per l'ultima volta.
Io aspetto.
Ho paura.
Mi fa male lo stomaco.
Ho paura.
[...]
Io li sento, sapete?
A volte, quando si spengono le luci, io li sento, li sento che cominciano la loro danza di morte, qui, proprio qui accanto a me, attorno a me.
E ballano e ballano e ballano.
E nel buio la loro danza è frenetica. Poi, se accendo la torcia, qualche volta si dissolvono, ma più tardi ritornano entrando nei miei sogni e li tramutano in incubi.
Ricompaiono danzando nel buio come ombre nell'ombra, come tenebre nelle tenebre più oscure.
Io non credo ai fantasmi, e non ho nemmeno rimorsi che possano alterare la mia mente e la mia coscienza razionale inducendomi a percepire la presenza di qualcosa di cui ho sempre negato l'esistenza.
Solo che io li sento, cazzo, solo che io li sento e a volte li vedo.
Sono loro. Io so che sono loro.
Sono solo ombre nell'ombra, nient'altro che tenebre nelle tenebre, però certe volte nel buio lumeggiano le sembianze dei loro volti supplicanti, io li vedo, e vedo i loro puberi corpi nudi e insanguinati e devastati e sento le loro urla lunghe e strazianti e le loro vane invocazioni di pietà che si perdono nel baratro della mia lussuria.
Non ho rimorsi. Non ho rimpianti. E i fantasmi non esistono.
Loro però adesso sono qui. Evitano il fascio di luce della torcia ma sono ancora qui, attorno a me, nel buio.
E ballano e ballano e ballano.

Luciano Dal Pont

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