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Autore: Paolo Gullì
Niente di nuovo sotto il sole
Narrativa Moderna
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Niente di nuovo sotto il sole
Introduzione
Questo libro non è letteratura, ma neanche cinema. Non è teatro, né poesia.
Ti porta a credere d'essere Pirandello, poi vira, veloce, e muta nel sogno di Proust di parlare del vuoto. Questo libro è tutto e niente, e soprattutto del niente fa la sua forza, senza scadere in banali ossimori o luoghi comuni. In queste pagine ci sono io, c'è lui, ci siete voi e c'è anche l'altro; e proprio per questo nessuno di noi può ritrovarvisi veramente, come quando ci si guarda allo specchio e ci riconosce, ma solo a metà.
Va letto come si guarderebbe un bel film, oppure guardato come si leggerebbe un buon libro. E sa di vino, di pugni, di Dio e degli uomini. Guarda al cielo timidamente, sbircia oltre le nuvole, e scaraventa una pioggia infuocata sulla Terra e tutti coloro che la abitano.
Forse dovrei augurarvi buona lettura, ma reputo più sensato un amichevole in bocca al lupo.
Gian Luigi Antonione

Sono solo, sto vagando in un luogo deserto e buio, cosparso di fioche luci arancioni di origine ignota. Avanzando mi accorgo che la mia andatura è strana, sembra piuttosto che sia sospeso nell'aria. Non ricordo come e né da dove io sia arrivato, indirizzo i miei pensieri al passato scoprendo di non riuscire a raggiungerlo, non ricordo nulla.
Provo allora a fermarmi ma non riesco, tento poi di accelerare, inutilmente; quel che vedo dinnanzi a me non cambia, non riesco a scorgere nuovi particolari: niente alberi, niente palazzi, niente mura, niente lampioni, soltanto buio tappezzato di bagliori arancioni. Perché io sappia che cosa siano queste cose che ho ricercato nei miei dintorni non lo so, una voce sommessa nella mente ne evoca i nomi e il presentimento di un'immagine si associa a ciascuno di essi. Con un gesto istintivo provo a guardare l'orologio al mio polso, ma non ho nessun orologio, non ho nessun polso, non ho un corpo. Volgo il mio sguardo verso l'alto e... - Questa roba fa schifo! - sbotta T. interrompendo la lettura nella quale ero assorto - È una scemenza! - .
Io, placidamente di rimando: - Sai perlomeno che cosa stia leggendo? -
- Un'altra delle tue porcate, cosa sennò? - . Come può un uomo elargire giudizi così aspri, come può sedersi metaforicamente a scranno se invece è letteralmente seduto sul water, mentre fissa il suo interlocutore dalla porta socchiusa del cesso che sta utilizzando? Forse ho frainteso il suo tono truce con l'intento di attuare la manovra di Valsalva.
- Di quella cosa che hai letto non si capisce niente, non ha né capo né coda... - .
Mentre T. mi espone il suo indesiderato punto di vista, faccio un favore a me stesso chiudendogli la porta del bagno.
Detesto le contese, ma odio anche procurare imbarazzi inutili. Già, perché in realtà quello stralcio che stavo provando a leggere con grande sentimento e che ha mandato T. sulle furie viene proprio dal suo libro, quello che ha distrattamente appoggiato sulle poltroncine della sala caffè prima di correre in bagno. Avendolo notato spesso, gli chiesi una volta come mai non si portasse le sue letture in bagno, tra l'altro luogo perfetto per poter leggere in santa pace. Mi rispose che rispettava troppo quell'arte per poterne usufruire mentre defecava.
Mancò pochissimo perché non gli scoppiassi a ridere in faccia.
Intanto il monologo di T. continua a mie spese. Sta eseguendo col suo ano un duetto ritmato di idiozie e flatulenze così simili tra loro, come tonalità intendo, che fatico a distinguere il pertugio col quale mi sta insultando. Va fatto notare comunque che non c'è molta differenza tra i due principali e rumorosi orifizi di T., e non spiegherò il motivo.
È vero dopotutto, io scrivo porcate ma perché mi ostino a farlo pur non essendone capace? Non avevo nessun hobby e presumevo che la scrittura fosse quello meno dispendioso e più facile da intraprendere. Dopo un po' di tempo però me ne sono reso conto, la mia espressione artistico-compositiva si potrebbe rappresentare con un maldestro groviglio di parole che non va mai a parare da nessuna parte, un divagare fine a sé stesso. Ciò tuttavia non mi disturba affatto perché in realtà non ci tengo molto, la scrittura è solo un passatempo. Ricomponendosi e con sguardo spigoloso T. esce dal bagno borbottante. Immagino sempre che il rumore dello scarico sia la voce del water che invoca maledizioni nei confronti di T. ogni qualvolta ne abusi eccessivamente. Sì, riconosco l'imbecillità di certi pensieri che ogni tanto sgusciano fuori dal mio subconscio. - Non dici niente?! - Prorompe sorpreso.
- Che dovrei dire? - Falsamente afflitto.
- Ma, mi hai sentito poco fa? - Continua spazientito dalla mia passività.
Io, con il volto più serio che potessi indossare, rispondo: - Con l'udito, ma soprattutto con l'olfatto - .
Lo stralcio che avevo appena letto stava quasi alla fine del suo libro, ho quindi puntato sull'umana, ergo imperfetta, memoria di T. il quale non era arrivato a leggere nemmeno un quinto del tomo. Aveva riposto il suo magnifico segnalibro tra quelle pagine sottili e malinconiche: una foglia dorata abbastanza resistente di forma allungata e curvilinea. Il mio collega, avendo già perso interesse per la discussione, devia lo sguardo verso il libro che avevo repentinamente riappoggiato lì dov'era prima – reo di non piacere al suo inconsapevole padrone – per poi prenderselo sottobraccio. Sono il solito distratto, non ho nemmeno letto quale fosse il titolo, peccato, sembrava interessante.
Esponendomi quindi le sue calvizie se ne va, probabilmente per raggiungere la postazione di lavoro.
Pare che prima di essere assunto in questo call- center fosse un insegnante ma di cosa non l'ho mai capito, colpa della mia incuria nell'ascoltare le storie altrui.
Il flebile tanfo proveniente dal bagno appena martoriato dà anche a me la giusta motivazione per ritornare a lavorare.
Mi alzo dalle poltroncine della sala caffè e mi avvio verso l'uscio della stanza. Mi fermo un momento: - Sala caffè - , ma io non ho preso il caffè!
Grazie mille T.!
Con un motivo in più per odiare questo mondo e chi lo abita, torno alla mia cella privo della caffeina necessaria per lavorare decorosamente la mia ultima ora settimanale.
Grazie al mio saper vivere per inerzia in balìa del tempo ho concluso la giornata senza intoppi rilevanti.
Quanti volti fusi e confusi davanti all'ascensore (ultima tappa da superare prima dell'aria) che si mettono alla prova vicendevolmente, che si torcono e si distendono a seconda della forma più opportuna per la singolare circostanza che ognuna di quelle temporanee relazioni comporta. Di proposito infilo le cuffie nelle orecchie col volume al massimo perché, non capendo i contenuti dei discorsi fatti da quell'amalgamo d'anime, posso godere maggiormente di tale spettacolo composito di smorfie ed espressioni. Dopotutto, le parole raramente sono attendibili perché, se ne viene espressa una, in realtà molte di più in quel momento vengono pensate; l'unica che viene pronunciata non è sufficiente per definire nel mondo scibile ciò che viene inteso, ma le altre non dette evadono comunque, di forza, attraversando e deformando il nostro viso. Quando si è stanchi e stressati, come me e i miei colleghi, questo fenomeno si accentua di più.

Esco dalla struttura e mi immergo nel tramonto cittadino che questa limpida giornata di novembre ha saputo disegnare. Una fresca brezza mi scompiglia i capelli e mi coccola il cuore, dev'essere per il temporale di ieri notte se oggi tutto è più limpido e colorato. Delegando alle gambe il compito di portarmi a casa, durante il tragitto riesco a non farmi distrarre da nulla, nemmeno dai miei stessi pensieri; ognuno di loro dice la sua e se ne va, desistendo subito dall'attrarmi.
Imbocco la viuzza che conduce verso casa mia. Questa stradina rasenta un terreno abbandonato molto grande, logorato dagli agenti atmosferici che a turno hanno imperversato nel tempo.
La palazzina in cui vivo, adiacente al terreno in rovina, non sarebbe per niente male se non dovessi condividerla con una ventina di persone molto poco gradevoli. Il vedovo del secondo piano più di tutti è quello che vorrei davvero evitare, cosa impossibile purtroppo. Mi osserva incessantemente, sia che lasci il piccolo edificio o che ci ritorni: il vespro, la mattina, la notte fonda, non mi perde d'occhio nemmeno la mezzanotte di Capodanno, ogni mio ritorno e ogni mia partenza vengono timbrati dal suo glaciale sguardo, attento e malevolo. Quando sono di malumore, fantastico di fare un tributo al famoso Masterpiece di Poe.
Io abito al quarto piano, il penultimo.
Entro in casa e getto il borsello, la giacca e la sciarpa sull'attaccapanni a forma di sedia, poi mi siluro goffamente verso il frigo per dissetarmi dopo la lunga camminata. Peccato che il frigo sia quasi completamente vuoto, l'unica bevanda di cui dispongo è un po' di latte, onestamente fatico a ricordare da quanto sia lì.
So che, nel caso non sia scaduto, mi appesantirebbe e mi impasterebbe maggiormente la bocca, quindi non lo berrò. Per l'acqua del rubinetto nutro un profondo disgusto poiché il primo getto che sgorga è sempre torbido e terroso. Una situazione tanto stupida quanto angosciante, avere sete, ma non aver nulla da bere. Chissà come fanno in Africa.
Lo stimolo incipiente della minzione mi distrae dall'immotivato sentore di panico causato dalla sete insoddisfatta. Vado al bagno con passo frenetico trascinato dal mio primario bisogno e senza troppe cerimonie mi svuoto del superfluo. Lavandomi poi le mani non perdo l'occasione di rinfrescarmi il viso, più l'acqua è fredda e meglio è, sempre. Mentre guardo allo specchio il mio viso asciugarsi provo a decidermi su cosa fare, non posso stare tutta la notte senza bere nulla.
Decido a malincuore di rimandare il mio meritato ozio sul divano, l'urgente commissione va fatta subito prima che il negozietto di Mauro chiuda. Rivestendomi e uscendo di casa prometto a me stesso di usare quei pochi soldi che ho solo per comprare la cassa d'acqua naturale e il pane che a malapena potrò permettermi.
Il cielo è in abito da notte, è così seducente durante queste ore della sera! Imbocco la via che riconduce alla parte civilizzata del mio pezzo di città. Un'opprimente sensazione mi coglie alle spalle, mi volto e capisco: il vedovo del secondo piano sta di nuovo violentando la mia privacy.
Dopo aver rifatto la conta degli spicci, mi imbambolo davanti al terreno abbandonato perché proprio lì scorgo una macchina con dentro un ragazzo e una ragazza che fanno platealmente i piccioncini, anche se sarebbe più appropriato dire sesso. Temendo di essere colto a guardare e quindi di cadere vittima di un'imbarazzante malinteso, mi involo velocemente nella direzione opposta.
Che cosa non ho visto succedere su quel lembo di terra! Non a caso evito di attraversarlo. Ha una certa affinità con sventure della più strampalata natura. Tempo fa, e non esagero, vidi scontrarsi in una rissa davvero violenta un gruppo di animalisti contro dei pagliacci di un circo che all'epoca era in città. Come la lite, verosimilmente esordita in un normale diverbio, fosse mutata in una rissa non saprei dirlo e nemmeno potrei immaginare come la lotta fosse potuta poi giungere nelle vicinanze del mio condominio. Nelle urla, negli insulti e nelle percosse potei sentire perfettamente i suoni comici dei dispositivi scenici che i clown avevano addosso, confusamente attivati dai cazzotti e dai calci presi dagli avversari. A discapito della mia moralità e del mio senso civico – già parecchio labili – l'unica cosa che seppi fare, essendo durante la tragicomica battaglia a pochi metri dal punto in cui mi trovo ora, fu ridere senza riuscire a smettere, finché non intervenne la polizia.
Arrivando nel minimarket scorgo, con la coda dell'occhio, una signora che vedo spesso ciondolare per questa via, intenta ora a raccogliere da terra qualcosa. Potrei offrirmi per aiutarla ma lungi da me il voler sembrare invadente e malintenzionato. Non stava cercando niente alla fine, si era solo chinata per sistemarsi i collant da vecchia. Gironzolo un po' per il negozio fingendo di avere una vasta gamma di scelta su quello che potrei permettermi. Una volta preso il necessario mi reco alla cassa presieduta da Mauro, un anziano e grezzo signore con uno stranissimo accento che non definirei proprio nordico, un po' rimbambito, il quale indossa sempre uno strano copricapo. Sembra che sia stato fatto a mano. - Buonasera Mauro! -
- Ciao Nihil -
Mi risponde bofonchiando mentre tortura un giornale con le sue mani ruvide e brute. - Buone notizie dai piani alti? - .
Azzardo a chiedergli. Lui, col fare e con l'espressione accesa, ma stanca, di chi riprende un argomento mai interrotto, mi delucida: - L'unica buona notizia che arriva dai piani alti è che siamo andati incontro a un tale degrado negli ultimi anni, economicamente, culturalmente, tecnologicamente, moralmente – soprattutto – e ancora altro; grazie al cielo, essendo una causa persa, gli altri paesi hanno smesso di interessarsi a noi. Almeno adesso la finiscono di smembrarci! - .
Solitamente gli faccio queste domande perché so che tale argomento è l'unico di cui s'interessi veramente. Parla soltanto di politica e della sua vita passata – parole sue – a servire il paese. A testimoniare ciò ci sono le sue medagliette tutte sporche e ammaccate che tiene in bella vista sul bancone racchiuse in una cornicetta sudicia e con qualche frammento di vetro ancora attaccato qua e là, sul quale si può intravedere, inciso alla base ,‘'A Mortara''. Questa volta però non ho proprio voglia di sostenere una discussione su quell'abbozzo di notizia che mi ha appena esposto.
- Ma sì, dai, che te ne frega! Tanto si sa che i politici sono tutti ladri, tolti loro ne arrivano altri uguali, se non peggiori. Non ci pensare a queste cose che ti fanno salir la bile. Piuttosto trovati una cavolo di distrazione, qualcosa con cui svagarti! Bello mio non hai più l'età per queste cose, dovremmo provare ad arraffare anche noi quel che rimane! -
- Senti, pagami ‘sta roba' e vattene che io certe minchionerie non le sopporto! Vedere la mia vita sprecata per sentirmi dire queste cose mi fa venir voglia di uccidere ancora. Un tempo lo facevo perché eravamo in guerra, perché ero obbligato a farlo per il mio paese... che ci ha tradito, che mi ha tradito! Adesso ammazzerei, ma per vendicarmi anche di gente come te! - Ho pagato e sono scappato salutando e nascondendo il ghigno caratteristico di chi sa d'aver esagerato. Sapevo che si sarebbe infuriato, ma era l'unico modo che avevo per slegarmi da quella noiosa discussione che stava per avvilupparmi. Mauro quando inizia a scaldarsi con le sue farneticazioni non mi lascia andare più. Mentre parla, cosa che detesto, mi strattona il braccio finché non capisce che ho capito.
Tornando verso casa mi sono dissetato a dovere bevendo quasi un'intera bottiglia d'acqua nonostante fosse penosamente tiepida. Noto, con un'occhiata veloce, che la macchina scorta in precedenza non c'è più. La ragazza però è ancora lì da sola, piagnucolante, seduta sul tronco di un albero crollato da chissà quanto e per metà immerso nel pantano creatosi per il temporale. Potrei andar lì e palesare premura per la sua situazione, per capire come abbia intenzione di tornare a casa, potrei trovare il modo di aiutarla nei più svariati modi.
Già, potrei.
Nessuno l'ha obbligata a fare la zoccoletta.
Rincaso nuovamente sbirciando l'orologio a muro regalatomi con grande affetto dal mio vecchio amico Lucky, una delle poche persone con cui ho legato da quando ho furtivamente abbandonato il nido dei miei genitori. Affermava che quell'orologio fosse speciale perché capace di attirare gli sguardi al momento giusto, né troppo presto né troppo tardi. Povero Lucky, è morto per la rottura di un aneurisma cerebrale a seguito di uno starnuto. Le sue ultime parole pare siano state: - Non sono poi così fortunato! - . Morì dopo qualche settimana ma non disse più nulla perché diventò afasico.
Le 22:22, chissà se l'orario di quello schifo è almeno giusto. Non sono mai stato abbandonato dalla maliziosa convinzione che Lucky me l'avesse donato solo per potersene liberare. Diceva, mentre lui stesso lo appendeva smaniosamente al muro di casa mia, che mi sarebbe parso un po' grottesco ma solo per un breve periodo e che mi sarei abituato presto a quella speciale forma d'arte.
Già, l'arte. Non ho ancora le idee chiare su ciò che dovrebbe realmente essere l'arte dell'uomo, ho due opposte sensazioni però: la prima è che l'arte sia una creazione formata da un apparato autonomo e trascendente dell'uomo che tuttora egli stesso non comprende e non conosce, troppo in alto, eccelso e inaccessibile per qualsiasi argomentazione volta a identificarlo e catalogarlo, ergo relegarlo. La seconda che sia invece l'effetto tangibile e inesorabile di un abominio prodotto da malvagie, sconosciute forze soprannaturali nella malleabile mente umana, a causa di ciò ormai spaventosamente deforme; facendo un paragone molto grossolano se il male fosse una lama infetta che colpisse la nostra pelle, che sarebbe la mente, l'arte sarebbe allora il pus generato dall'infezione e in tal caso io ora posso vantarmi di avere una bella e artistica imbrattatura di pus sul muro.
Squilla il telefono ma stacco la spina, se fosse importante saprebbero dove trovarmi, per tutto il resto ho smesso di esistere circa quattro ore fa. Detesto stare al telefono, soprattutto quando sono stanco. Cena pietosa e poi sgraziatamente a letto.
Come sempre starò a contemplare la finestra nera prima di scalare la marcia circadiana in dormiveglia. Se sarò fortunato passerà qualche nuvola bizzarra a braccetto con la luna prima che mi addormenti. Nella speranzosa attesa mi ascolto respirare in sintonia con i battiti del cuore, al quale invidio l'esemplare costanza. Mi sfiora fievolmente la preoccupazione di poter sognare, non amo sognare. Sì, sto affondando nell'oceano notturno del sonno, del torpore, dell'oblio nero e temporaneo, nel quale sfocia il fiume dei miei pensieri in piena che, morbidamente e adagio, si prosciuga, suggellando così la veglia con il silenzio della coscienza.
T., testa di cazzo! Il libro era tuo! Ma poi che nome è T.?
Ma domani cosa devo fare?
Due giorni e poi di nuovo a lavorare...
Odio questa vita!
...
Dove sarà andata quella ragazza?
Mi servono soldi Mauro, Mauro... Chissà chi era al...

Paolo Gullì

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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