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Autore: Isabel Giustiniani
Il sigillo di Anubis
Storico
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Il sigillo di Anubis
Il segreto del faraone dimenticato.

I pirati di Alashiya

Con l'aria frizzante del primo mattino che mi carezzava il viso, mi trovavo seduta con le ginocchia strette al petto sul ponte di un'agile kebenti[4] di proprietà di un mercante di Tyr, diretta alla foce del Grande Fiume.
Trovare un passaggio si era rivelato tutto sommato semplice, anche se rocambolesco.
Quando, la sera prima nella Casa della Birra, avevo chiesto all'oste se ricordasse un uomo corrispondente alla descrizione di Pinejat, questi mi aveva chiesto il motivo per cui lo stessi cercando. Durante il lungo tragitto da Uaset, mi ero preparata un po' di storie per giustificare la mia ricerca di Hani, ma il cambio di obiettivo mi aveva trovata impreparata, così avevo detto la prima cosa che mi era passata per la mente, ossia che quell'uomo aveva messo incinta mia sorella e lo stavo cercando perché si assumesse le proprie responsabilità prima che nostro padre si accorgesse della gravidanza e cacciasse di casa la svergognata.
L'oste era scoppiato a ridere fragorosamente, cosa che gli aveva fatto sobbalzare il ventre enorme. Si era poi rivolto ai suoi avventori, indicandomi, e chiedendo a gran voce se ci fosse qualcuno che volesse - dare una mano al ragazzino a suicidarsi - .
Le risate erano proseguite per un po', dopo la spiegazione dell'oste, mortificandomi. Più di qualcuno era venuto ad assestarmi una sonora manata sulla schiena in segno di stima, sia per il mio coraggio sia per il lodevole desiderio di proteggere l'onore di una sorella sgualdrina.
Ciò che conta è che alla fine ottenni l'informazione che mi serviva. Arrivò da una cameriera che serviva ai tavoli, ma che non disdegnava di arrotondare le mance dei clienti sdraiata sulla schiena. La ragazza si dimostrò molto triste perché Pinejat, dopo essersi tolto tutti gli sfizi, le aveva promesso che sarebbe tornato da lei per portarla via con sé. Non immaginava che quel giovane potesse essere - un tale mascalzone da prendersi gioco dell'ingenuità delle ragazze - . Avevo ascoltato con pazienza e aria afflitta il suo sfogo fino a ottenere un nome: Ugarit.
A quella rivelazione, ero sbiancata: Ugarit era l'ultima città sotto l'influenza del Kemet, nell'estremo nord del regno. Poco oltre i suoi confini iniziava l'impero Hittita, l'acerrimo nemico del nostro popolo, il che accresceva i pericoli che Hani e Thutmosis stavano correndo. Tuttavia, dopo la prima reazione di sconcerto, mi ero fatta coraggio e avevo cercato un passaggio per quella destinazione tra i capitani che erano lì a gozzovigliare, trovandolo fortunatamente in Lahdo, un mercante nerboruto e dalla faccia gentile proveniente dalla città di Tyr.
Annusai l'aria profumata del fiume godendomi il paesaggio che mutava man mano che avanzavamo lungo il delta. La vegetazione, di un verde rigoglioso e intenso come non l'avevo mai visto prima, m'incantava con la sua varietà di specie. Placidi bovini pascolavano tra l'erba alta nelle zone di terreno affioranti dall'acqua e che spuntavano come isole in mezzo alla fitta rete di canali dai quali, al passaggio delle barche, si alzavano in volo stormi di ibis sacri e di fenicotteri rosa. Gruppi di cormorani e anatre nuotavano tra le canoe dei pescatori in cerca di cibo e qualche martin pescatore si librava tra le foglie dei palmizi, ravvivandole con l'esplosione dei colori del suo piumaggio. Perfino le coltivazioni a me familiari sembravano più floride in questo luogo.
- Prima volta che vedi la foce del Grande Fiume? - sentii chiedere la voce di Lahdo, alle mie spalle. L'uomo mi affiancò e si sedette. Diede un morso alla striscia di carne secca che teneva in mano.
- Sì - risposi, accettando con un sorriso e un cenno di ringraziamento il pezzo di cibo che aveva staccato e che mi offriva. Mi piaceva lo strano accento ruvido con il quale parlava la mia lingua.
- È un posto meraviglioso - continuò. - Non ci si stanca mai di guardarlo, anche perché cambia ogni anno, dopo le piene. Almeno la parte che sfocia nel mare. -
Guardai davanti a me e vidi in lontananza gli isolotti farsi sempre più piccoli, lasciando spazio alla distesa d'acqua che ormai dominava il paesaggio. Un odore salmastro, e per me nuovo, mi riempiva le narici.
- Il Wdy Wr.[5] È davvero bellissimo - mormorai.
- Già - concordò il capitano, mettendo in bocca un altro pezzo di carne. - Il tempo è buono: potremo puntare direttamente a Tyr, anziché navigare a vista della costa. In questo modo arriveremo a destinazione in soli tre giorni, invece dei quattro previsti. -
- Sarebbe magnifico - esclamai, girandomi a guardarlo, entusiasta.
Recuperare un giorno sarebbe stata una benedizione. A Tyr avrei cercato subito d'imbarcarmi per Ugarit.
Lahdo mi sorrise e il suo volto di marinaio, scurito dal sole e incorniciato da capelli arruffati dalla salsedine, sembrò spaccarsi in un reticolo di rughe. Poi si alzò per andare a lanciare ordini ai suoi uomini.
Mi sorpresi a sentirmi a mio agio, sia per la semplicità e genuinità dei cuori di quelle persone, sia, dal lato pratico, per la varietà dell'abbigliamento che indossavano: vestiti di brache, da sole o in abbinamento con tuniche lunghe fino al ginocchio come quella che portavo io, facevano apparire il mio travestimento più comune e insospettabile che non sulle imbarcazioni egizie dove gli uomini portavano quasi sempre soltanto il gonnellino.
Quando le due vele quadrate schioccarono al vento del mare aperto, mi sentii invadere da un senso di libertà ed euforia incontenibili che mi fecero correre alla parte anteriore della barca e afferrarmi all'alta prua ricurva. La chiglia solcava le onde sollevando alti spruzzi e facendomi ridere all'eccitazione dell'ebbrezza del vento.
All'improvviso, alcuni grossi pesci si affiancarono all'imbarcazione, nuotando alla medesima spedita velocità. Qualcuno iniziò a saltare fuori dall'acqua, proprio davanti alla prua, come se la sfidasse a raggiungerlo.
- Cosa sono? - urlai, voltandomi verso gli uomini intenti a manovrare le vele.
Questi si guardarono l'un l'altro, scoppiando poi a ridere.
- Delfini. Si chiamano delfini. -
- Delfini... - ripetei, tornando ad ammirare gli animali che parevano danzare sulle onde. - Sono bellissimi! -
Per la prima volta, dopo tanto tempo, mi sentii il cuore leggero, come se volasse assieme a loro.

Il tempo sulla kebenti di Lahdo, passò in fretta.
Nessuno mi aveva fatto domande indiscrete e la maggior parte del tempo ero rimasta ad ascoltare le conversazioni dei marinai, infarcite di spacconate delle quali ridevamo tutti assieme, mentre i più esuberanti facevano a gara a chi conoscesse storie più assurde e improbabili.
La mattina del terzo giorno, quello previsto per l'arrivo, il mare si presentò piatto. La totale assenza di vento faceva pendere flosce le vele sugli alberi e Lahdo diede ordine agli uomini di mettersi ai remi. La mia offerta di aiuto venne gentilmente declinata con la motivazione che, anche qualora le mie sottili braccia avessero resistito più di un paio di pagaiate, l'inesperienza mi avrebbe fatto incrociare il remo con i loro, causando solo problemi. Non mi sentivo di dar loro torto.
Me ne stetti quindi tranquilla a scrutare l'orizzonte a prua finché vidi comparire in lontananza la linea della costa.
- Terra! - urlai eccitata, girandomi verso Lahdo, ma lui non mi prestò attenzione. Con una mano portata a proteggersi gli occhi dal riverbero del sole, stava scrutando con attenzione la distesa d'acqua verso nord.
- Cosa c'è? - gli chiesi, raggiungendolo.
- Un'altra nave. Grossa. -
- Starà andando a Tyr, come noi - replicai, aguzzando la vista per distinguere il puntino all'orizzonte che il capitano mi aveva indicato.
- Forse - rispose, rivolgendosi poi ai rematori e incitandoli ad aumentare il ritmo. Poco dopo richiamò un paio di uomini per sciogliere le vele al vento che aveva finalmente iniziato ad alzarsi.
I minuti trascorsero tesi, nel silenzio interrotto solo dal rumore cadenzato dei remi nell'acqua e dalla voce del capo vogatore che dava il ritmo. Il più giovane del gruppo, con l'agilità di una scimmia, era salito su uno degli alberi e guardava in direzione della barca sconosciuta.
- Non hanno insegne, ma forma delle vele è quella di Alashiya e hanno la prua rivolta verso di noi! - gridò, allarmato, quando la visuale dell'imbarcazione in avvicinamento gli fu sufficiente per distinguerla.
- Merda, pirati di Alashiya - sputò il capitano, sbiancando in volto. - Presto, dobbiamo raggiungere la costa. Sbrigatevi! -
La conferma che si trattasse di pirati gettò tutti nel panico, dando un ulteriore impulso ad aumentare la velocità della kebenti.
Guardai in direzione della riva ma questa mi apparve d'un tratto troppo lontana, mentre l'imbarcazione di Alashiya si avvicinava a vista d'occhio.
- Forza, forza, forza! - urlava Lahdo, messosi a vogare al fianco di uno dei suoi uomini.
Le vele si gonfiarono all'improvviso, animate da una sferzata di vento e ringraziai gli dei ma, allo stesso modo, anche la nave pirata avanzò con più vigore. Nel giro di poco ne distinsi le figure assiepate sul ponte. Munite di archi.
- Attenti: frecce! - urlai un attimo prima che una salva venisse scagliata nella nostra direzione.
La maggior parte dei dardi finì sibilando nell'acqua, ma un paio raggiunsero la poppa, conficcandosi nel legno con un sordo suono vibrato. Non appena i pirati si fossero avvicinati maggiormente, sarebbero riusciti a colpire i rematori.
- Uomini, tutti dentro. Presto! - ordinò Lahdo, che doveva aver avuto il mio stesso pensiero.
I marinai abbandonarono i remi e si gettarono all'interno della protezione centrale della barca, per fortuna anch'essa in solido legno di cedro. Li seguii, stringendomi con loro nello stretto spazio ricolmo di merci. Il cuore mi batteva in gola mentre udivo nuove frecce conficcarsi nelle assi della protezione.
- Ci sono addosso e presto ci speroneranno: non ci resta che combattere e confidare negli dei - annunciò Lahdo, greve.
Gettò a terra il coperchio di una grossa cassa e cominciò a distribuire delle spade. Gli uomini se le passarono di mano in mano e quando me ne venne data una, cercai di rifiutare.
- Io... io... non l'ho mai usata - balbettai, scuotendo la testa.
- Questo è il momento di cominciare, Mehu: combatteremo tutti per salvare la pelle - ribatté l'uomo, mettendomela in mano.
- Ma se ci arrendiamo senza opporre resistenza e gli lasciamo prendere il carico, ci lasceranno andare - provai a insistere, consapevole della presenza nella stiva di casse piene di manufatti e oggetti d'arte, assieme a giare del più pregiato vino di Iunu.
L'uomo sbuffò. - I pirati di Alashiya non lasciano mai sopravvissuti: depredano le barche e vi appiccano il fuoco dopo aver ucciso tutti gli occupanti. -
Iniziai ad ansimare, non riuscendo a controllare il tremito che si andava impossessando del mio corpo.
Io non potevo, non ero in grado...
Un violento colpo allo scafo ci sbalzò tutti di lato, poi un urlare di voci rabbiose irruppe sul ponte.
- Andiamo, fratelli - esortò Lahdo, con foce ferma, andando all'apertura. - Insieme fino all'ultimo. Fino ai Campi degli Dei. -
Urlò e si gettò fuori brandendo la spada, imitato dal resto dell'equipaggio.
Gli uomini mi oltrepassarono, spintonandomi, e rimasi sola all'interno del riparo, impietrita dal terrore.
Sul ponte si scatenò una battaglia furiosa che assunse ben presto l'aspetto di una carneficina: i grossi uomini barbuti che stavano assaltando la barca di Lahdo, non solo indossavano una spessa cotta di cuoio che faceva loro da protezione ai colpi del nemico, ma combattevano anche con due armi. Con la spada tenevano impegnato l'avversario e approfittavano di qualunque minima scopertura per piantargli addosso l'accetta che stringevano nell'altra mano.
Gli uomini di Tyr combattevano con disperazione una lotta impari che li portava inesorabilmente a soccombere davanti alla schiacciante e brutale forza nemica, arrossando il ponte di sangue e interiora. Urla di dolore si mischiavano al rumore delle lame e ai versi gutturali degli assalitori.
Quando vidi la testa di Lahdo, spiccata dal corpo, rotolare fino all'ingresso dove mi trovavo, lasciai cadere la spada, balzando indietro con uno strillo. Poco dopo un gigante dalla barba rossa incrostata e il volto schizzato di materia grigia, apparve sulla soglia stringendo la sua coppia d'armi che grondava sangue. Il ghigno feroce ne mostrava i denti gialli e limati fino a essere stati appuntiti come quelli di un animale predatore.
Feci un passo indietro, terrorizzata, inciampando su qualcosa e cadendo di schiena. L'uomo ghignò, avanzando con l'accetta sollevata.
In un istante mi sembrò di essere tornata inerme ai piedi di Pinejat, mentre l'uomo rideva di me e del mio disperato tentativo di sfuggire alla sua violenza.
Il ricordo mi scatenò un flusso di rabbia che mi attraversò l'anima, bruciando la paura.
No.
Non sarebbe mai più stato così. Non mi sarei mai più arresa a qualcuno senza combattere fino alla morte.
L'accetta calò su di me, ma si conficcò nell'assito perché ero rotolata di lato. L'uomo la sollevò per tentare nuovamente di colpirmi ma io, ancora, rotolai via, nel verso opposto.
Mentre la staccava dal pavimento sgusciai più lontano. Con un grugnito irato, il bestione mi si scagliò contro, distruggendo, questa volta, una cassa di suppellettili. Diverse statuine degli dei del Kemet si sparsero attorno.
Coraggio, Nimaat! È grosso ma è lento. Devi solo buttarlo giù!
Mi rialzai in piedi, ansimando. Con le spalle alla parete, non potevo indietreggiare oltre. L'uomo ruggì e allargò le braccia, poi mi si gettò addosso per assestarmi un colpo incrociato con entrambe le lame. Mi abbassai di scatto, evitando la trappola, e con tutta la forza che avevo gli assestai un pugno in mezzo alle gambe. Poi mi gettai di lato per allontanarmi da lui.
Il barbuto cadde in ginocchio con un lamento soffocato, portandosi le mani all'inguine.
Non dovevo lasciargli il tempo di riprendersi.
Le statuette degli dei giacevano sparse davanti a me. Alcune, di terracotta smaltata, si erano infrante, ma ne individuai una di bronzo e l'afferrai. Riconobbi subito la dea dalla testa leonina, Signora del Terrore e della Strage. Chi meglio di lei poteva essermi di aiuto in quel momento?
L'impugnai e colpii con violenza la testa dell'uomo, recitando le parole della dea: - Io sono Colei che percuote. -
Colpii di nuovo, sentendomi pervadere da una sensazione di forza.
L'uomo crollò a terra.
- Io sono Colei davanti a Cui perfino il Male trema. -
Un altro colpo e smise di muoversi, ma non mi bastava. Avvertivo un bruciante desiderio di sangue.
- Sangue è la mia veste... -
Ancora.
La sua testa si ruppe e un fiotto vermiglio m'investì, arrossandomi la tunica.
- ...e potente è la mia ira. Io sono la Rossa Signora e il mio nome è Sekhmet. -
Lasciai la leonessa ingorda di morte conficcata nel suo cranio e mi alzai in piedi, tremando. Mi guardai con orrore le mani lorde di sangue, mentre avvertivo un ronzio alla testa. Mi sembrò che tutta la forza che mi aveva pervaso, fosse fluita via non appena avevo lasciato la statuetta.
Che cosa mi era successo? Avevo più che ucciso un uomo: l'avevo macellato.
Il rumore di passi alle mie spalle mi fece voltare.
Feci appena in tempo a vedere l'espressione di rabbia nel volto di un altro pirata che questo mi colpì con la sua spada, dilaniandomi un fianco.
Caddi a terra con un grido, il sangue che iniziava a defluire via. Il nuovo uomo barbuto alzò l'accetta per finirmi, ma venne distratto dalle pietre preziose cadute tintinnando al suolo attraverso lo strappo nella tunica. La lama, infatti, aveva aperto la fascia di stoffa che portavo stretta in vita e nella quale avevo nascosto i gioielli di Pinejat.
Il pirata s'inginocchiò per raccogliere i turchesi e i lapislazzuli e per sfilarmi la fascia, compiaciuto di ritrovarsi tra le mani anche il bracciale con gli inserti d'oro. Con l'intenzione di controllare se nascondessi altro, strappò ulteriormente il tessuto del vestito. Al suo movimento energico, la tunica si squarciò fino al collo, rivelando così i miei piccoli seni. L'espressione di sorpresa sul volto dell'uomo aumentò e, mentre stringevo i denti per resistere agli spasmi di dolore e cercando di tamponare la ferita con le mani, infilò la punta della spada nella stoffa del perizoma, tagliandola ed esponendomi così il sesso.
La certezza di aver davanti a sé una donna lo indusse in un fragoroso scoppio di risa. Si alzò in piedi mentre nel rifugio entravano altri uomini, forse incuriositi dalla risata o forse solo per cominciare il saccheggio, e tutti mi si assieparono attorno. Ormai non c'erano più dubbi su chi fosse uscito vincitore dallo scontro con l'equipaggio di Lahdo.
Ed era finita anche per me.
Chiusi gli occhi, sentendo la sofferenza martoriarmi le carni a ogni respiro, come uno stiletto. Avrebbero abusato anche di una moribonda? Almeno la mia pena sarebbe stata di breve durata perché la vita, al pari del sangue, mi stava lasciando.
Li sentii confabulare in un idioma incomprensibile e poi muoversi in altri passi attorno a me. Strinsi le palpebre. Non volevo vedere chi avrebbe cominciato.
Gemetti nel sentirmi togliere le mani dalla ferita e spalancai gli occhi in una fitta di dolore. Mi resi conto che l'uomo che mi aveva colpito si era inginocchiato e stava applicando un tampone per fermare l'emorragia. Qualcuno gli aveva passato una tunica immacolata, che lui prese a strappare in lunghe strisce da avvolgermi attorno al corpo.
Lo guardai stranita, boccheggiando, mentre mi fasciava, circondata dagli altri pirati intenti a portare via le casse con il bottino.
Quando ebbe finito, l'uomo mi prese i polsi e iniziò a legarli, avvolgendoli in un lungo giro con una striscia fatta della stessa stoffa.
- Cosa vuoi fare... - mormorai, pur sapendo che non avrebbe capito.
Con mia sorpresa, invece, si girò a guardarmi, terminando di stringere il nodo con i denti e poi aprendo un sorriso marcio all'interno della barba sudicia.
- Donna giovane merce buona per mercato schiavi. Tu sopravvivere due giorni, per me. Sì? - replicò, in un egizio stentato ma fin troppo chiaro.
- Mercato degli schiavi... - ripetei in un sussurro.
L'uomo mi sollevò da terra come se fossi stata una delle giare di vino che i suoi compari stavano portando via. Il movimento mi strappò un altro grido ma la gola mi si serrò quando, uscita sul ponte, vidi lo scempio che era stato fatto dell'equipaggio di Lahdo. Alcuni pirati stavano terminando di gettare in acqua gli ultimi cadaveri, ma il sangue che macchiava l'assito e il tanfo di morte toglievano il fiato, nonostante la brezza marina.
Venni portata sull'altra nave e calata in una sentina dal soffitto talmente basso che non avrei potuto stare seduta nemmeno se ne fossi stata in grado. Il mio rapitore gettò dentro anche una coperta e un piccolo otre d'acqua.
- Tu sopravvivere due giorni. Per me. - ripeté, e questa volta le sue parole avevano il tono del monito.
La botola venne richiusa sopra la mia testa, lasciandomi nel buio.

[4] Kebenti: ossia navi di Byblos, costruite con il legno di cedro proveniente da quella regione dell'attuale Libano. Potevano raggiungere i 56 metri di lunghezza. Le navi costruite con materiale egizio (acacia, sicomoro e papiro) venivano invece chiamate depet.

[5] Wdy Wr: il Grande Verde. Come gli antichi egizi chiamavano il mar Mediterraneo.

Isabel Giustiniani

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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