Afflitto nel corpo dalla sindrome di Down, ma lucidissima la mente, Beniamino osserva le vicende tutt'altro che correnti della sua famiglia e il modo in cui i suoi parenti affrontano la vita: il padre, la madre e il nonno consci delle miserie del mondo ma ben decisi, ognuno a suo modo, a opporvisi, e sull'altro versante, più o meno ipocriticamente, la zia e il marito di lei. Il "Villaggio vacanze" nel quale il padre, del tutto ignaro di ciò che lo aspettava, ha trascorso una settimana, diventa il paradigma a volte ilare e a volte tragico di una società triviale e di un sistema corrotto, che esige, per mantenere intatti i valori etici e la coerenza, un impegno immenso e la disponibilità a pagare prezzi altrettanto alti.
Io sono nato con la sindrome di Down, più nota come mongolismo, ma con caratteristiche la cui ironia non sfuggirebbe al meno intelligente dei semiologi. La prima consiste nel fatto che, nel mio caso, la sindrome ha colpito nel modo più benevolo (la mia mente è praticamente intatta, e anzi oserei dire piuttosto buona) ma anche nel modo più evidente: il mio viso e il mio corpo hanno tratti così marcati di mongolismo che tutta la mia intelligenza non è mai bastata a farmi superare la vergogna. So che questo è sbagliato ma è così, e fin da bambino aspetto con impazienza di invecchiare perché gli anni portano a qualsiasi faccia una certa bellezza che nulla ha a che fare col bello, e che perciò non potrà essermi negata. Nell'attesa, che si prospetta lunga (ho appena compiuto vent'anni), ho studiato molte mimetizzazioni senza trovarne di veramente risolutive, neppure il naso di cuoio che adottai dopo aver visto alla televisione il film con Jean Marais. Ma in questa ricerca ho scoperto che anche la mia faccia, come le facce normali, ha un lato migliore (o meno peggiore), e quindi ho elaborato il seguente stratagemma: con la mia borsa sottobraccio, inclino fortemente il capo verso la spalla destra così da offrire alla gente solo la vista del mio lato migliore, e corro tra la folla chiedendo - Permesso, permesso! - a voce alta. Prese di sorpresa, le persone hanno appena il tempo di scansarsi e di lanciarmi un'occhiata veloce, che il lato sinistro della mia faccia dovrebbe in qualche misura attutire. Questo modo di procedere mi era ormai divenuto così consueto, così automatico, che strada facendo avevo il tempo di pensare, e mi chiedevo quale fosse stata la frase d'inizio di quella storia di famiglia grazie alla quale lo zio sperava d'infliggere finalmente a suo fratello un colpo basso. Perché ormai lo zio, certo di essere ancora una volta sconfitto dalla serena indifferenza che la statura alta e slanciata di mio padre riservava a quel parente basso e diverso, non cercava neppure più di combattere lealmente. Per esempio, una volta lo zio stava spiegando a suo fratello - acquistando via via sicurezza e aguzzando il suo lungo labbro superiore - perché non potesse distogliere dalla sua florida azienda (di mio zio, ma anche di mio nonno) l'ingente somma che mio padre voleva impiegare nell'acquisto dei quadri di un giovane francese pittore di nudi raffinatissimi. Lo zio era al culmine del conteggio e la sua sicurezza era quasi divenuta sicumera quando mio padre, dopo averlo fissato per un istante, disse: - Peter Ustinov è l'unica persona intelligente che io conosca col labbro superiore a punta e più lungo di quello inferiore. - Lo zio si spense. Ma la zia, da come io la ricordavo, a parte qualche isteria molto accesa non era stata mai: che cosa, in lei, poteva avere infiammato mio padre? Mentre fendevo la calca ( - Permesso, permesso! - ) mi colse un'illuminazione: forse era stata proprio quella piccola borghesità che, guarda caso, di nuovo lo aveva travolto, sia pure sotto altra forma, quando era finito nell'inferno del Villaggio Vacanze. E almeno questa seconda folgorazione era tanto vera, e ancora tanto viva, che mio padre, nonostante la presenza della sua ex innamorata (era questo un fatto ricorrente: di solito, in verità, la zia cacciava di casa il marito, che poi nella notte, in cerca di aiuto, ci telefonava dall'ufficio; ma talvolta il nulla in cui viveva stancava persino lei, e con scarso piacere di tutti noi veniva a raccogliere nuovi motivi di idiosincrasia per ritemprarsi alla sua rancorosa esistenza), mio padre riprese a allungare i tempi del caffè per parlarne, mentre mia madre chiudeva gli occhi, la zia scioglieva in bocca pilloline e fiale omeopatiche e lo zio si collocava in poltrona a stenografare nel dossier della vendetta ogni parola di plausibile utilizzazione, ogni frase passibile di ritorsione. Solo il nonno si alzava e se ne andava, perché più nulla della famiglia lo stupiva e invece proprio di stupore, o almeno di sorprese, era sempre a caccia. - Però, - assicurava mia madre in uno dei suoi sorrisi azzurri, - non c'è uomo al mondo che possa stupirlo. Solo qualche donna, di tanto in tanto. - - E poi, - diceva mio padre, - la gente. Io credevo di conoscerla, che la conoscessimo, ma vi dico che non è così: voi non potete sapere, non potete credere che cosa sia la gente, se non andate al Villaggio Vacanze. - - Io vengo dalla gente, - diceva la mamma per fermarlo, ma nessuno raccoglieva l'intervento e mio padre meno di tutti, perché l'idea che la mamma venisse dalla gente era assai meno credibile dell'ipotesi più accreditata, che venisse dalla luna. - È colpa mia, - ammetteva mio padre. - Io avevo dimenticato (e qui lanciava alla zia uno sguardo colpevole: perché sulla zia nessuno della famiglia aveva dubbi: lei veniva dalla gente, ne era anzi l'esatta rappresentazione in tutto ciò che la gente offre di peggio: il rifiuto di una propria responsabilità per le cose del mondo, di una qualche necessità di coerenza tra il comportamento e le idee professate. L'avete capito, io la odiavo, e era perché mia madre la odiava perché mio padre l'aveva amata (mia zia) senza che lei (mia zia) meritasse quell'amore, sicché anche l'amore di mia madre per mio padre e viceversa ne era uscito sminuito e questo era ciò che mia madre e io non potevamo perdonarle), avevo dimenticato la gente, - diceva mio padre. Si alzava, andava alla porta a vetri che si incominciava a tenere aperta sulla primavera (queste immagini rinfrancano la mia attesa di vecchiaia) e volgendoci le spalle, a voce alta per non poter fingere di non essersi sentito, diceva: - Dove sono stato, in questi anni? Come ho fatto a dimenticare tutto ciò? - Mio nonno a quel punto era già sparito e mio zio era nascosto dallo schienale della poltrona, e la zia fumava nervosamente perché aveva ripreso da poco dopo aver smesso da poco, ma a me non poteva sfuggire un luccicore sospetto tra le ciglia socchiuse di mia madre, all'angolo degli occhi, vicino alla radice del suo naso sottile con una leggera gobba ar¬rogante. Scesa dalla luna, mia madre aveva fatto la poetessa (pubblicata cum laude) e l'indossatrice insieme (top model, per intenderci oggi) e poi aveva sposato mio padre perché era stato l'unico a capire da dove lei venisse e a proporle di riportarcela. Tutto ciò era accaduto quando lei, giovanissima, era già ricca e famosa in libreria e sulla passerella, sicché non posso fare a meno di notare - l'ho imparato frequentando lo zio - che papà fece un vero affare. Ma al di là di questo va detta la seconda caratteristica ironica della mia condizione: quella di essere figlio di una donna bellissima e di un uomo che nessuna donna che gli interessasse si era mai preoccupata di definire bello, perché ne era già innamorata. Lascio da parte il nonno per un altro momento e passo in¬vece alla terza caratteristica ironica, che è quella di avere in mio zio (acquisito: figlio di primo letto della prima moglie del nonno) l'unica persona della famiglia con la quale mi si potrebbe trovare una qualche rassomiglianza fisica, e anche se al mio aspetto sono ormai abituato, nel suo continua a colpirmi l'incongruità dei colletti tondi e un po' infantili su cui poggia direttamente la testa grassa, immiserita dall'indecisione di una semicalvizie; dei polsini grandi con i gemelli, dai quali spuntano, annunciate da un grosso orologio d'oro e da un grosso braccialetto d'oro, le mani paffute, le dita strizzate qua e là da grossi anelli d'oro. Lo zio ama ciò che io odio e viceversa, con l'unica eccezione del sentimento che nutriva per mio padre, così complesso da non poter essere definito ma che stava certamente dalla parte dell'amore. Ecco perché preferisco lo zio alla zia, anche se lei è davvero parente di mia madre e se (come disse una volta il nonno), - lei sì che viene dalla gente; lui invece (lo zio), per fortuna viene dalla gentaglia. - Poiché parlava con cognizione di causa non posso dubitarne, ma la spiegazione sta in quello che mio padre, le mani intrecciate dietro la schiena e gli occhi persi nella primavera, diceva a se stesso forte, per sentirsi: - Eppure, - diceva, - i peggiori non sono loro, quelli appena arrivati: ma gli altri, che già apparecchiano la tavola con due forchette e hanno lo studio professionale o la cattedra: i falsi eruditi e i commercianti del nulla, i fruitori del sabbatico inutile... - Ma chi lo ascoltava più? Tanto, contro un indicativo im¬proprio o ancor più per un congiuntivo ben collocato, avrebbe capovolto il suo giudizio. Il suo amore per il congiuntivo, infatti, era superiore a quello per il passato remoto, che pure era grande, e se c'era un paradosso al quale non era mai venuto meno era proprio che il mondo si divide in chi usa e in chi non usa (in chi usi e in chi non usi) quel modo bene¬merito. - Che non fossero belli, - ammetteva dal suo isolamento alla finestra, - in qualche modo lo ricordavo. Ma così! Povera, povera gente! - - Spesso, - diceva allora la mamma, - vedo bruttezze di cui ritengo in qualche modo responsabili i portatori. - - Ma queste sono le bruttezze morali, - diceva la zia, che aveva il complesso di essere senza seno ( - Io gliel'ho sempre detto, - raccontava la mamma, - fin da quando era adolescente: è la tua avarizia di sentimenti, le dicevo, la tua mancanza di disponibilità, - e questo per la mamma era un discorso lunghissimo). In quell'occasione però mia madre disse: - Macché bruttezze morali: acqua, sapone e un buon deodorante. -
Franco Mimmi
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