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Autore: Chiara Menardo
La mareggiata in un barattolo
Romanzo Psicologico
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La mareggiata in un barattolo
Sabato, 3 agosto, ore 00:01

Sono sempre otto palmi, dal pavimento alla parte bianca del muro. Sempre, implacabilmente otto. Li conta spesso: cinque, sei, dieci volte al giorno.
Nemmeno si accorge più del gesto rituale: fare tre passi, accovacciarsi accanto alla porta, appoggiare il mignolo alla piastrella in graniglia, spalancare la mano, appoggiare il pollice al muro e andare su, come un bruco, misurando e contando, fino ad arrivare alla riga che delimita il passaggio dallo smalto grigio alla tempera bianca. Alzarsi, tornare a fare quello che stava facendo: dormire, leggere, scrivere, dipingere, mangiare, bere, andare in bagno, guardare fuori dalla finestra, parlare con la compagna della camera accanto cercando di sovrastare il rumore delle altre donne che tentano di parlare con le compagne delle camere accanto, gridare, sognare, ricordare, rimettere in fila gli stuzzicadenti, vestirsi, spogliarsi, spazzolarsi i capelli, lavarsi i denti.
Fa caldo, è un agosto stagnante. Durante il giorno l'aria vibra: è la fata Morgana, il miraggio del deserto che inganna i viandanti, li illude a spingersi sulla sabbia bollente per raggiungere una carovana di ombre, che fa loro credere che più in là, ancora più avanti, ci sia la salvezza. Ci sia dell'acqua.
Dove si trova lei, invece, non ci sono luoghi in cui perdersi: solo aria ferma che trema sotto il sole mentre il resto del mondo rimane immobile.
Si rigira sul cuscino scostando i capelli dal collo. Grandi gocce di sudore colano da dietro le orecchie e lentamente scendono a inzuppare la federa bianca.
Domattina mi toccherà stendere la biancheria in qualche modo per farla asciugare, pensa pulendosi la fronte con il braccio. Niente da fare, non riesco a dormire.
Le luci sono spente da un po' e si sentono i bisbigli di chi, come lei, fatica a prendere sonno. - Non mi abituerò mai a questi ritmi del cazzo! -
Stringe i pugni e contrae la mascella, succhiando all'interno la guancia fino a sentire la carne tra i denti, poi morde. Stringe, smette solo quando sente sulla lingua il sapore ferroso del sangue; solo in quel momento allenta la presa.
Deglutisce e si alza dal letto. Tre passi e arriva a toccare il muro. Si inginocchia accanto alla porta chiusa, apre la mano e la appoggia alla parete. - Uno... Due... Tre... Quattro... -
Lo sa benissimo che sono otto palmi dal pavimento alla fine della striscia di smalto grigio, prima che lasci il posto al muro bianco punteggiato di acquerelli banali presi chissà dove. Quadretti di scene campestri, laghetti e alberi storti, cieli azzurri e nuvolette grassocce con una pretesa di ovatta, pennellate di bianco banale venato di grigio.
Ancora, il grigio.
Anche la testiera della branda è grigia, così come l'armadio e la scrivania scarna. Un comodino, una sedia, il lavandino sormontato da uno specchietto quadrato ben fissato al muro, dentifricio e spazzolino in un bicchiere di plastica, una finestra alta e i quadretti. È tutta qui, la sua stanza.
Guarda la luna che illumina il cielo. Un tempo la sua vita non era una camera di tre metri per tre dalle pareti mezze bianche e mezze grigie, gli orari scanditi, le attività ricreative, il lavoro, la passeggiata in giardino. No. Qualcosa si è inceppato. Tutto sta a trovare il granello di sabbia che ha fatto saltare la perfezione, ma non ne viene a capo: ecco cosa la fa davvero impazzire.
Il nome. Il nome di battesimo diminutivo dovrebbe essere reato, cambiato d'ufficio all'anagrafe, è attentato, vilipendio, diffamazione. È un nome che non va bene oltre la pubertà, un nome bambino.
Avrebbe ucciso per essere una Lucrezia, una Lavinia, ma si sarebbe accontentata di Alessandra o Manuela; anche Maria sarebbe stato meglio, ma c'era già sua madre. Invece si chiama Simonetta e lo odia da quando ha compiuto più o meno nove anni. Odia così tanto il suo nome che per un certo periodo si è presentata senza il diminutivo: solo Simona. Che, poi, a dirla tutta, nemmeno quello è un nome da morirci dietro.
Simonetta: che suono viziato! È un nome appiccicoso come il lenzuolo sudato su cui si sta rigirando senza riuscire a prendere sonno. Come nastro isolante attaccato alla pelle.
I capelli. I capelli, li porta di nuovo lunghi con la riga nel mezzo. Li ha sempre portati così, tranne una volta. Forse, ecco!, è stato il drastico taglio di capelli e quei ciuffi rossicci che il parrucchiere (come si chiamava? Armando? Ferdinando? Ma chissenefrega!) l'aveva convinta a provare ad aver combinato il patatrac. Può essere che i colpi di sole, rossi e sottili, siano stati il sassolino che ha fatto partire la frana; una spirale di storie e di eventi che dal suo ufficio in centro l'hanno portata fin qui a misurare con il palmo della mano (sempre la destra) l'altezza della striscia grigia sul muro. A questo punto, deve per forza essere stato il parrucchiere.
Dondola piano seduta sulla branda. Chiude gli occhi, e si sforza di ricordare i pomeriggi senza presente, al mare, da ragazzina, i suoi diciotto anni. I falò sulla spiaggia con gli amici quando sapeva che tutto sarebbe andato bene. Le corse in motorino e i bagni tra le onde alte, quel ragazzo bruno con i ricci lunghi e gli occhi profondi che l'aveva guardata in silenzio, di nascosto. Il ragazzo aveva un bel corpo a quel tempo, a ventitré anni; un bel corpo e la voce profonda.
C'era Cristina. Loro due erano sempre insieme: compagne di banco per tutto il liceo, la prima vacanza da sole al mare subito dopo la maturità, a casa dei suoi genitori rimasti in città. È stato in quel momento, la prima volta che lo ha avvicinato mentre facevano il bagno un pomeriggio di luglio, al tramonto, che è cominciato il complotto per farla finire così?
- Ciao, sono Simona. -
Gli si era piantata davanti, sulla traiettoria delle bracciate forti, larghe, sicure. Lui le aveva quasi dato una testata sul ventre, si era alzato e si era scostato i capelli bagnati dal viso.
Ma quanto è carino, aveva pensato voltandosi verso riva, dove Cristina la stava osservando ridendo.
Lo teneva d'occhio da giorni, da quando si era accorta che l'aveva guardata. Stava con una ragazza dai capelli rossi e le lentiggini, si baciavano, si toccavano, parlottavano e ridevano in continuazione, leccavano avidi lo stesso gelato, ma non era importante. - In amore e in guerra è tut-to permesso, no? - aveva detto ridendo a Cristina quando le aveva fatto notare il dettaglio.
Era così bellino, con gli occhi scuri e i capelli ricci, neri come il pelo del gatto di Poe, quell'aria svagata che aveva quando guardava l'orizzonte. Suo, aveva deciso. Aveva scommesso con l'amica che prima di Ferragosto se lo sarebbe almeno portato a letto, nonostante la rossa smorfiosa che gli stava attaccata come una lampreda.
Tanto la odiava, la rossa.
- Guarda dove ti metti, la prossima volta! Cazzo, il mare è ben grande, c'è posto per tutti. - Sorpreso, infastidito, le aveva voltato le spalle.
Che stronzo!, aveva pensato. - Scusami, oh, ti ho detto che mi chiamo Simonetta, volevo dirti... - Sperava che non se ne andasse, non si tuffasse di nuovo per nuotare lontano da lei.
Si era girato a guardarla, interrogativo. Inventa qualcosa, inventa qualcosa in fretta o questo qui scappa e non torna.
- Be', che vuoi? - Un'alzata di spalle e lo sguardo che corre alla riva a cercare la rossa, sicuramente a controllare che non li stia guardando. Sta prendendo il sole distesa sull'asciugamano, le cuffiette del walkman saldamente attaccate alle orecchie.
- Ecco, è che, sì, insomma, mi sono stirata una coscia nuotando e ora mi fa così male. Ti stavi avvicinando e ho pensato che potresti darmi una mano a tornare a riva, ecco. Mi chiamo Simonetta. Simona. -
- Ciao, sono Umberto. Mi spiace se ti fa male ma, se ti butti in acqua e nuoti anche senza usare i piedi, fino a riva ci arrivi lo stesso. Saranno 15 metri. - Stronzo, di nuovo. Devo sembrargli patetica, dovevo pensare a una scusa migliore.
- Va bene, allora faccio da sola, grazie comunque, piacere, ciao. -
Aveva alzato le spalle e si era tuffata. Tra il balzo e l'impatto con l'onda, il colpo di genio: aveva spalancato le labbra e inspirato una boccata profonda, riempiendosi il naso e la gola di acqua salmastra.

Chiara Menardo

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