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Autore: Dina Ravaglia
L'isola degli internati
Romanzo Storico
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L'isola degli internati
Il sole.
Il sole, oggi, ha deciso di non tramontare.
Neppure un indizio. Neppure un'ombra che si allunga più dell'altra.
Eppure, dovrebbe essere sera. Le scarpe sono rotte già da molti chilometri. Un passo davanti all'altro, un altro e un altro ancora ed ecco, la suola si è staccata per metà dalla tomaia. La scarpa destra, che aveva aperto la bocca da secoli, adesso è spalancata tutta fino al tallone. Inservibile.
Fosco, chinandosi appena, si libera di ciò che resta delle scarpe e lo lascia lì, dietro a un cespuglio.
Sono successe troppe cose. Troppe e per troppo tempo, e lui non lo sa più chi è, ricorda a malapena il proprio nome. Un nome buio, impreciso e vago come i suoi occhi che non vedono. Un nome nebbioso e indistinto come la nebbia bianca dell'inverno, come l'afa caliginosa dell'estate sopra la pianura. Fosco.
Il resto è meglio non saperlo, non ricordarlo. Del resto, lui non sa che farsene. Non gli appartiene più. Neppure lui appartiene più a se stesso. Forse appartiene alla vita, ecco, forse si potrebbe dire di sì, dal momento che oggi è ancora vivo. O forse al mondo, dato che solo questo oggi vorrebbe essere, solo materia, aria ossa muscoli e occhi che vedono poco, solo questo, materia fatta della stessa materia di cui è fatto il mondo, solo questo e nient'altro.
Il pioppeto lo attraversa con lo sguardo. È una forma geometrica contro il cielo chiaro. Un tronco sottile e un altro e poi un altro, un'infinità di tronchi si stagliano contro la luce, uguali e ad uguale distanza.
La terra assomiglia sempre di più a sabbia, sottilissima e bianca. La sente tra le dita doloranti dei piedi. Calda. Sottile. Sotto qualche passo più dura, simile a una crosta che si spezza.
Cerca di non essere niente. Guarda ad occhi chiusi verso il sole che tramonta, e la luce attraverso le palpebre arricciate si trasforma in buio rosso. Cerca di non essere niente, altrimenti deve ascoltare tutto quello che ha dentro prima che intorno, e deve grattarsi la pelle delle gambe, che il gabardine ormai lustro e liso dei pantaloni ha reso lustra e lisa a furia di camminare. Eppure, non è che una carezza al confronto con la fibra d'ortica. Velluto, se paragonato alla divisa a righe. Ma va avanti calmo, e cerca di non essere niente, non vuole trovare nulla dentro di sé. La divisa a righe scompare giù in fondo, mentre Fosco apre e chiude gli occhi facendo entrare e uscire i raggi del sole, buio rosso e luce bianca accecante attraverso i filari di pioppi.
I piedi fanno male. Se li tira dietro uno dopo l'altro, stupito di non trovare nessuno lungo una strada così lunga, così dritta. Ha camminato troppo. Vorrebbe fermarsi come ha già fatto infinite volte, sdraiandosi di colpo a lato della strada. Eppure non lo fa. Stavolta no: stavolta il viaggio è finito, e non gli resta che arrivare.
Man mano che avanza, l'odore del fiume dentro il suo respiro diventa sempre più forte. È l'odore dentro il quale gli sembra di essere nato, sa di anguille e pesci gatto, sa di muschio e d'erba marcia. È dentro un odore così che lui, Fosco, è caduto dal cielo nel mondo ed è proprio lì, dentro quell'odore di mare dolce che ha imparato, molti secoli prima, a respirare.
Apre e chiude gli occhi, allarga le narici e respira sempre più forte, avido come un neonato che annusa il collo di sua madre. Se le aspetta e le sente, le lacrime che salgono alle ciglia, si impennano e cadono scavandosi un solco irregolare tra la sporcizia e la barba sulle guance.
Fosco piange troppo. Quando è finita, quando hanno aperto i cancelli, lui non sapeva piangere. Infatti era rimasto ad occhi asciutti, immobile, seduto a terra. Si era preso la testa fra le mani, gomiti sulle ginocchia, e aveva cominciato a cullare se stesso avanti e indietro, avanti e indietro, incapace di capire cosa gli veniva chiesto, incapace di sapere cosa fare. Poi si era alzato in piedi, e aveva cominciato a camminare.
Ecco, è adesso che la strada finisce. Davanti il fiume scorre liscio, placidamente, disegnando volute appena percettibili sotto la superficie. A destra il sentiero continua, assottigliandosi. A sinistra, una barca a remi apparentemente abbandonata, una striscia d'acqua, poi di nuovo la terra. Prendi la barca, è questo che gli hanno detto, prendi la barca e vai dall'altra parte.
Scende dal sentiero sabbioso e bianco e sale sulla barca che prende a oscillare sotto il suo peso. Si mette a sedere e afferra i remi. Il sole forse si decide a tramontare, tingendo la foschia di un arancione indeciso.
Fosco scioglie la cima dal molo e prende a remare. Non è lontano. In breve si trova dall'altra parte. Scende a terra. I piedi nudi affondano nell'acqua limacciosa. Lega la barca all'ormeggio come gli hanno detto di fare, affinché la corrente non se la porti via.
Si guarda intorno. Mare dolce, fiori selvatici, Fosco allarga le narici e respira. Il fango sotto i piedi sembra vivo, abitato di presenze. In tre passi si trova sulla sabbia di quella che è una spiaggia bianca e sottile, una striscia appena davanti a una macchia indistinta e fitta di vegetazione.
Nessuno. Non si vede nessuno, ma questo non gli dispiace. Eppure, gli avevano detto che c'erano altri uomini, sull'isola. Eppure ha fame, ha sete. Ma alla fame e alla sete c'è abituato, in fondo a mezzogiorno un pezzo di pane l'ha mangiato. E poi la vita l'ha abituato a ben altra fame, a ben altra sete.
È stanco. Ha camminato abbastanza, non farà un solo passo in più. La sera cade, ma la sabbia chiara e asciutta si prepara a restituire intero il calore della giornata. Decide di coricarsi a terra. Decide di dormire. Non deve nemmeno fare lo sforzo di togliersi le scarpe, perché le ha abbandonate dall'altra parte, dietro un cespuglio. Ha con sé soltanto una piccola sacca di stoffa semivuota, la porta sempre a tracolla. In quel momento la sfila dalla spalla e si appresta a usarla come cuscino, dopo aver tirato fuori una coperta sporca e bucata. Si corica lì dove sta, sulla sabbia calda, mentre una stella comincia a farsi largo nel cielo non ancora limpido, non ancora scuro. Sospira e rabbrividisce. Non vuole ascoltare niente dentro di sé. Non vuole essere niente. Chiude gli occhi.


L'ebreo, Elia Levi è il suo nome, si accende una sigaretta. È il momento che preferisce, quando la notte lascia il posto al giorno e anche gli animali e i pesci smettono, tutto in un colpo, di far rumore.
Aspira una boccata guardando l'acqua e come scorre, e all'orecchio gli arriva un colpo di tosse.
Avrò capito male, si dice alzando le spalle, all'alba vengo sempre da questa parte perché non c'è nessuno. Avrò sentito male, pensa, ma mentre lo pensa arretra con lo sguardo dall'acqua alla sabbia, e lo vede.
C'è un uomo lungo e disteso sulla sabbia. Sembra che dorma, ma non si sa mai. Ha la testa posata su una bisaccia vuota. Ha il corpo a malapena coperto da un vecchio straccio grigio, che lascia fuori i piedi. Sembra disarmato; ma non si sa mai. Potrebbe anche nascondere qualcosa, sotto quella coperta. Dentro quella bisaccia.
Elia Levi per istinto si acquatta dietro un cespuglio e resta lì a guardare, indeciso sul da farsi. Poi si stanca. La luce ormai ha preso la via del giorno. Gli animali hanno ripreso a far rumore. Si alza, e imprecando (la sigaretta gli è caduta e lui non sopporta la sabbia fra i denti) si avvicina alla sagoma addormentata. Ha tirato fuori il coltello, eppure gli viene da fidarsi. Non avverte, nell'uomo disteso a terra, nessuna minaccia. Gli si inginocchia accanto e lo guarda. Non l'aveva mai visto, prima.
È un uomo sui trent'anni. Ha uno strano viso, zigomi larghi, guance scavate. Immagina che il viso avesse un'altra forma, prima. Ma prima quando? Prima che tutto accadesse, quando l'uomo era più giovane. Perché qualcosa dev'essergli successo, questo è l'unico dato certo, se adesso si trova sull'isola. Non è un posto dove si viene per caso. L'uomo ha le gambe lunghe, e anche i piedi spuntano interi dalla coperta, calli ed escoriazioni, sono piedi che prima hanno sanguinato, piedi usati per chilometri e chilometri, eppure adesso puntano dritti verso il cielo come due frecce.
La sabbia è umida. Di notte l'acqua risale in superficie. Chissà che mal di ossa, quando si sveglia, pensa. E lo guarda. L'uomo ha mani grandi. Una è abbandonata sulla sabbia come se non gli appartenesse. L'altra stringe senza forza il bordo della coperta. La camicia che porta addosso conserva una memoria color avorio, eppure adesso ha assunto una tonalità indefinita, tra il giallastro e il grigio. È aperta fino al petto. Le clavicole sporgono, eppure non è poi così magro (quelli magri davvero, lui, li ha visti). L'uomo ha capelli strani, non troppo lunghi e non troppo corti, non troppo chiari e non troppo scuri, scomposti, fitti e pieni di polvere.
Elia si avvicina. Gli mette una mano sulla spalla. Lo sveglia.
L'uomo con un salto si mette a sedere allargando su di lui un paio d'occhi enormi, troppo per un uomo, dell'esatto colore tra il marrone e il verde che hanno le foglie nell'attimo prima di cadere.
- Calma, calma, - gli dice, - vuoi una sigaretta? -
In quel momento l'uomo scopre un dolore diverso in ogni giuntura, fa una smorfia e si accorge di avere i vestiti bagnati. Anche i capelli sono bagnati, e anche l'anima dev'essersi bagnata, da qualche parte, giù in fondo. Rabbrividisce. Afferra la coperta e si chiude nelle braccia. Scuote la testa e guarda lontano. Fa segno di no. No che non la vuole, la sigaretta. Elia gli guarda i capelli e pensa to', che strano, crescono in orizzontale, senza subire più di tanto la forza di gravità. E sì che gli fanno male, le ossa; fatica perfino a muoversi.
- Ma sei matto? - gli dice. - Qui la notte se non hai un riparo scende giù un umido che ti spacca in due. L'acqua cade dal cielo e sale dalla terra, e tu sei preso in mezzo. -
Ecco, è proprio così che si sente: preso in mezzo. Fruga nella bisaccia e trova un foglio stropicciato. Lo porge a Levi e intanto si accorge che fatica perfino a sbadigliare.
- Me l'hanno dato in municipio, - gli spiega con una voce rauca e fonda, - c'è scritto che posso stare qua. -
Levi prende il foglio. - Be', mica ti ho detto che devi andare via. Come ti chiami? -
- ...Fosco. Fosco Guarini, - risponde subito, e l'altro allarga per un attimo gli occhi che sono piccoli e neri, torna a guardare lui, poi di nuovo il foglio.
- ...No, perché qui c'è scritto Giovanni. Giovanni Casati. -
Fosco trasale e si morde la lingua. Sono proprio negato, pensa, è un fatto straordinario che io sia riuscito a riportare a casa le ossa.
- Ti prego, non dirlo a nessuno, - dice mentre riprende il foglio stropicciato e lo rimette via, - è una storia troppo lunga da raccontare. Adesso non ce la faccio, a raccontarla. La voce mi fa male. -
- Vuoi dire la gola. -
- No, voglio dire la voce. Se parlo mi manca la voce. Mi fa male. -
- Secondo me hai bisogno di mangiare qualcosa. Se eri più furbo venivi subito dall'altra parte, dove abbiamo fatto su le baracche. Io ti ospitavo nella mia, e a quest'ora non eri messo così. Ma facciamo ancora in tempo. Lo sai che non me l'aspettavo, che arrivasse ancora qualcuno? Ce ne hai messo del tempo, a tornare. -
Eh sì, pensa Fosco, ce n'è voluto. I piedi mi portavano da una parte e la testa dall'altra. L'anima, poi, restava ferma. Sarà stato per questo, che la strada si faceva sempre più tortuosa.
- Io mi chiamo Elia Levi, - gli dice l'uomo, e si stringono la mano.
L'uomo gli fa segno di alzarsi e seguirlo, e lui obbedisce, non vuole perdere il treno. Non senza fatica si alza, scuote la sabbia dai vestiti e dai capelli, infila la coperta nella bisaccia. Inspira quell'odore di alghe marce e mare dolce e lo stomaco si contorce, vuoto, la testa gira, vuota anche quella, ma lui non è abbastanza svelto non riesce a sfuggire ai ricordi, almeno non a quelli più recenti, che trovando tutto quel posto vuoto gli esplodono improvvisi dentro agli occhi. Non è stato veloce abbastanza, e mentre muove un passo incerto dietro l'altro ecco, ci pensa, era ieri.


Il sole, ieri, spaccava i ciottoli della strada.
La piazza era deserta, doveva essere il caldo. L'ha attraversata con gli occhi chiusi.
Dentro il palazzo ha trovato un buio fresco che odorava appena di muffa e di carte. C'erano delle persone, lo guardavano passare. Chi è, chi è, dicevano, ma nessuno lo riconosceva.
Ha preso la prima porta che ha trovato senza chiedere nulla a nessuno. Ha aperto gli occhi finalmente, e ha trovato una sedia per sedersi. Si è trovato davanti un'impiegata sui venticinque anni, robusta, fasciata in un vestito a fiori troppo stretto, i capelli raccolti in un nodo sulla testa. Gli ci è voluto un bel po' per riuscire a parlare, gli sembrava di non esser più capace.
- Buongiorno, - è riuscito a dire infine, - dicono in giro che chi torna ed è senza lavoro può andare a far legna sull'isola grande, - ha aggiunto tutto d'un fiato.
L'impiegata ha inforcato un paio d'occhiali d'osso che la facevano sembrare molto più vecchia.
- Chi torna da DOVE? - gli ha chiesto poi, come se volesse costringerlo a parlare, obbligarlo a dire ciò che non voleva.
- ...Dai campi. Dalla Polonia, - aveva risposto lui sottovoce, distogliendo lo sguardo. Altre due persone erano entrate nell'ufficio, e aspettavano il loro turno.
- E' comoda, - aveva detto la donna, - tutti son capaci, di dire che vengono dalla prigionia. -
A quel punto, Fosco l'aveva fatto. Sbottonato il polso della camicia. Mostrato alla donna il tatuaggio. Registrato la sua espressione ottusa, evidentemente non capiva, non sapeva, nessuno gliel'aveva detto. Nessuno gliel'aveva ancora fatto vedere, un tatuaggio così, composto da una A più una fila di numeri. Poi aveva chiuso gli occhi.
- Vai, vai, - aveva detto una voce, - faccio io. Lo conosco io. -
Occhi di nuovo aperti, fissavano un viso di uomo stavolta, qualcosa di familiare tra le rughe e il buio.
Il nuovo arrivato si era alzato in piedi e aveva guardato oltre le sue spalle.
- Aspettate fuori, per cortesia. E chiudete la porta. -
I due in attesa, un vecchio e una ragazza, avevano obbedito.
L'uomo gli aveva teso la mano: - Fosco? Ma sei davvero tu? No, non ci credo che sei tornato! Mi fai venire un colpo! -
- ...Domenico. Minghèt, - aveva detto Fosco, mettendo insieme frammenti di immagini lontanissime con le rughe dell'uomo, piazzandoli al posto giusto intorno a quel sorriso.
- Sì, sono Minghèt, l'amico di tuo padre! Mi fai venire un colpo, adesso te lo faccio vedere, perché! -
L'uomo si era alzato, gli aveva girato le spalle ed era sparito nel buio verso gli scaffali sullo sfondo. Subito era tornato con un libro grande, rivestito di pelle antica e sottile.
Aveva aperto il libro sulla scrivania, si era messo a sfogliarlo. A un tratto era arrivato alla pagina giusta. Aveva preso a scorrere le scritte con l'indice, aveva trovato la riga giusta. Aveva rivolto il libro verso di lui.
Fosco Guarini, c'era scritto. Nato a Gualtieri il 20 febbraio 1916. Deceduto in Polonia il 2 ottobre 1944.
- Hai capito, adesso? Un infarto, mi fai venire, se ti guardo. Come vedere un fantasma. Ormai ho la mia età, cosa credi! Ma dài, scherzo, non fare quella faccia. Sono così contento che sei vivo, Fosco. Pensa tuo padre come sarebbe contento, se fosse ancora qua. - Se fosse ancora qua, ha pensato Fosco. Questo vuol dire che mio padre è morto, e io nemmeno lo sapevo. Del resto come potevo, se da più di un anno sono morto anch'io? Nove anni sono nove anni, aveva detto a se stesso, in tutto questo tempo chissà quante altre cose sono successe, e io mi sa che non le voglio sapere.
Ha sentito un freddo diverso nel cuore, un brivido fra le scapole che non se ne andava più, eppure gli sembrava niente, di non sentire niente. A suo padre non ci voleva pensare. Di più, non ce la faceva; dentro la testa aveva come un muro, nascondeva tutto. Minghèt si agitava e gesticolava, e Fosco aveva pensato: sta a vedere che gli dà un infarto per davvero.
- Ma quanti anni sono che non ti vedo? -
- Nove anni. -
- Quando te ne sei andato eri un ragazzino... -
- Ne avevo ventuno, quando me ne sono andato. -
- Eh, ne sono successe di cose, in tutto questo tempo... -
- Posso andarci lo stesso, sull'isola a fare legna? Io non ho niente. Non so più dove andare. -
- Vuoi andarci lo stesso, anche se sei morto? -
Fosco aveva abbassato lo sguardo e anche la voce:
- Allora, se non posso, me ne vado via. -
- Ma dove? Ci hai messo un anno e mezzo a tornare, e già sei pronto per andartene? Aspetta, -
Anche l'uomo aveva abbassato la voce, avvicinando il viso per guardare Fosco da sotto in su.
- Ma dì, pensavi di tornare da tua moglie? -
Ecco. Lui non voleva pensare. Non voleva sapere. Eppure, gli toccava. Non poteva farci niente. Non poteva tornare indietro di nove anni, fingere con un salto che non fossero passati.
- Ha pianto tanto, - gli stava dicendo l'uomo, - ci ha sofferto tanto. Da quando sei partito per la Spagna. Non aveva un soldo, si è rimessa a lavorare. È andata a vivere in una casa più piccola. Adesso sta bene, a quanto sembra. Risultavi morto. Il tuo nome era nell'elenco dei giustiziati. Ce l'hanno mandato da Roma quando è finita la guerra. -
Fosco aveva scosso la testa, aveva abbassato lo sguardo, occhi inutili a vedere, utili, questo sì, a riempirsi d'acqua, e l'acqua premeva per uscire. Prima non piangeva mai. Era tutto intero, prima, e adesso non era più niente.
- Non dirmelo. Non lo voglio sapere, - aveva solo detto, e mentre lo diceva la voce mancava, si spezzava, - non dirmi niente, che non voglio saper niente. -
- Ma perché, allora, sei tornato? -
Aveva scosso il capo. Si era sfregato gli occhi. Tirava su col naso.
- Non lo so. Io non lo so. Io non sapevo dove andare. Non avevo nessun altro posto. Dimmi solo se è ancora qui. Se vive ancora al paese. -
- Fosco, tua moglie vive con un altro. -
- Hai una sigaretta? -
- Fosco, l'hai capito o no quello che ti ho detto? -
- Sì, l'ho capito. Ce l'hai, una sigaretta? -
- Senti Fosco, è meglio che te lo dica subito, perché tanto in un modo o nell'altro lo verresti a sapere. È Vincenzo. Vincenzo Scotti, il geometra, sì. È con lui che sta, tua moglie. Tu eri morto, lo capisci? Eri morto. Lei si è disperata. Poi il tempo è passato, e si è risposata. Vive con lui, a casa sua. Lo capisci? Non te ne importa di saperlo? -
Non aveva risposto. Aveva aspirato una lunga boccata di fumo, gli occhi bassi, le dita che tremavano, incapaci persino di reggere una sigaretta.
- Allora dammi un altro nome, - aveva detto infine, - uno qualsiasi. Così me ne vado sull'isola, e non disturbo più. -
Minghèt era rimasto in silenzio per un lungo momento a pensare, fissandolo come se imparare a memoria i suoi lineamenti e il modo in cui il tempo li aveva trasformati potesse illuminarlo, suggerendogli quel nome, il nome vuoto che non apparteneva più a nessuno.
- Ci sono, - aveva esclamato infine, ed aveva sfogliato il libro a ritroso dopo averlo girato di nuovo verso di sé, una pagina, un'altra, un'altra ancora. E ancora l'indice storto di Minghèt che scorreva quelle righe di calligrafia ordinata, quei nomi, ogni nome una faccia, ogni faccia una storia, e quasi tutte quelle storie Minghèt, un po' per l'età un po' per l'esperienza, le conosceva.
- Eccolo qua. Aspetta, -
Aveva preso un foglio, ci aveva messo un timbro, una firma. Ci aveva scritto un nome. Poi gliel'aveva messo tra le mani, quel foglio.
- Casati è morto, - gli aveva spiegato, - anche se qui, sul registro, c'è scritto disperso. -
- E se torna? - aveva chiesto Fosco, titubante ad occupare quello spazio libero, quel nome vuoto.
- Non torna. Era imbarcato sulla corazzata Roma. È stata affondata da un missile al largo della Maddalena, mentre andava a consegnarsi. Era la notte dell'otto settembre. Me l'ha raccontato uno di quelli che si sono salvati. Casati non era fra loro. -
Fosco Guarini continuava a fissare il foglio, occhi stretti, fronte corrugata.
- Fidati, è il nome che fa per te. Non farai mica il difficile! Fino all'otto settembre del '53 puoi stare tranquillo. Ci vogliono dieci anni, lo sai, per dichiarare morto un disperso. Per allora ne avrai trovato un altro, di nomi; magari il tuo. A meno che tu non voglia continuare a spacciarti per il povero Casati, magari anche con sua moglie...ci penseremo. Per ora possiamo prendercela comoda. -
Fosco aveva infilato il foglio nella bisaccia, e aveva fatto per alzarsi. L'altro l'aveva fermato con un gesto della mano.
- Dì, e tuo fratello? Ci vai, da tuo fratello? -
Fosco piangeva, sperando che l'altro non se ne accorgesse. Portava via le lacrime dalla faccia con un gesto breve e sempre uguale della mano.
- Abita ancora al podere? - era riuscito a chiedere senza che la voce si spezzasse.
- Sempre là. Al podere della Biscia. Ma la novità è che adesso è suo, l'ha comperato, il podere. Dopo che ci si è spaccato la schiena per trent'anni, è riuscito a comperarlo. Ha faticato un bel po', ha fatto dei debiti. Ha lavorato e basta, rinunciando a tutto il resto. Con il sudore l'aveva già pagato, e adesso non ha più padroni. Nessuno lo può più comandare. -
- E come sta? -
Il vecchio, a questa domanda, non voleva rispondere; Fosco l'aveva capito subito. Aveva sospirato. Aveva stretto le labbra. - ...Eh, nove anni sono nove anni, Fosco. Sono lunghi. Le cose cambiano, e anche le persone. Le cose succedono. Allora, ci vai? -
- Non lo so. Le gambe non mi portano più, Minghèt. -
- Se vuoi, prendi la mia bicicletta; è giù nel cortile. Prendila, e vai da tuo fratello. Poi basta che me la riporti giù, in cortile. Io, lo sai, abito qui dietro la piazza; la bici la uso solo per andare a fare le notifiche. Non sembra, ma questo comune è grande. -
Si era alzato davvero, aveva stretto la mano del vecchio, aveva già aperto la porta per uscire.
- ...Ah, Fosco, per tua moglie. Mi dispiace. Scusami se te l'ho detto, mi devi scusare; sono quasi vecchio, non sono più buono a niente, nemmeno a farmi gli affari miei. Ma tanto, in un modo o nell'altro, saresti venuto a saperlo. -
- Non fa niente, - aveva risposto lui senza girarsi a guardarlo, - sarei venuto a saperlo. -
E infine era uscito senza vedere nessuno.
Senza pensare si era trovato nel cortile e aveva inforcato la bici di Minghèt, l'unica disponibile. Era uscito sulla piazza e aveva cominciato a pedalare.



Dina Ravaglia

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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Lisa Ginzburg Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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