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Autore: Gaia Valeria Patierno
Solo Cinque
Noir italiano
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Solo Cinque
Nel cucinino, su una poltrona, il mostro russava sguaiatamente, semi svestito, con i piedi scalzi e in testa un cappellino nero da baseball. Era sudato e sgradevole, il volto coperto da una barba disordinata, nera e untuosa. Irene lo guardava con odio, reprimendo a forza l'istinto di colpirlo immediatamente e scappar via.

Non poteva. Prima doveva vedere la madre.

Gli voltò le spalle ed entrò nella camera dove dormivano tutti gli altri. Sapeva bene che in casa, quella notte, erano in cinque: due adulti e tre bambini molto piccoli, due femmine e un maschio, che non sarebbe sopravvissuto.

I bimbi stavano riposando, dividendosi un vecchio letto a castello dai tubolari scrostati in ferro rosso. Addossata all'altra parete stipata di scatole e masserizie, stesa su una brandina, c'era la loro madre, la camicia da notte di flanella a fiori tesa sul pancione sporgente.

Irene le si avvicinò, attenta a non sfiorarla e le sussurrò piano:

- Svegliati, Mirjana! -

La donna sussultò e aprì gli occhi, sentendo pronunciare il proprio nome. Si voltò di scatto nel buio, ma non vide nessuno.

- E' inutile, non puoi vedermi, ma non stai sognando. Sono reale. Non agitarti e non urlare, altrimenti lo sveglierai e sai bene che non conviene farlo - .

Lei rimase immobile, come una bestia in trappola. Irene ne fiutava la paura.

- Chi sei? - Sussurrò in un italiano stentato, dal pesante accento slavo.

- Sono una madre come te. Ascoltami bene, non c'è molto tempo, sta per scatenarsi il solito inferno ma stanotte sarà peggio del solito. Fra poco aprirà gli occhi e vorrà solo colpire e colpire. Non si fermerà finché non avrà ucciso. -

La donna soffocò un gemito coprendosi la bocca con le mani. - Oddio, no! Chi ammazzerà? Me? I bambini? O quello piccolo nella pancia? -

Era una ragazzina di poco più di vent'anni, con un naso affilato, troppo grande per il suo viso e labbra pallide e sottili, che continuava a mordersi in preda all'angoscia. Snocciolava quei sussurri come epitaffi, mentre piangeva piano, per non farsi sentire: un'abitudine che aveva dovuto imparare presto, per risparmiarsi un po' di botte ogni giorno.

- Ucciderà il maschio, quello che chiama - L'idiota - perché ancora non parla. Lo solleverà di peso e lo riempirà di pugni, come un sacco imbottito di paglia. Ma non si limiterà a questo: prima, si divertirà a fare delle cose, che ho visto e che non riesco a dimenticare. Ti impedirà di chiamare aiuto, frustandoti sulla pancia con il filo del telefono e tuo figlio morirà tra le tue braccia, sotto gli occhi delle bambine. -

Raccontarglielo le liberava la mente da quelle immagini orrende ma, intanto, un fiume di dolore denso le fluiva dalle labbra fino giù in gola, mozzandole il fiato. Irene si passò una mano sulla bocca e la ritrasse, umida di sangue.

Mirjana schiacciava il viso nel cuscino e singhiozzava. I bambini dormivano ancora. Le sorelline erano nel lettino di sotto, due angeli scuri abbracciati, con folti capelli ricci e guance paffute, in quello sopra c'era il piccolo Mitar. Chissà cosa sognava, con il naso puntato al cielo e con addosso la maglia della sua squadra del cuore, pensò Irene, con amarezza.

- Tu li ami questi bambini, Mirjana? - Le domandò, senza pensarci troppo - O li costringi a stare in questo inferno perché, in fondo, non ti importa nulla di loro? -

La donna scosse la testa dolente e parlò a lungo, in uno sfogo disperato e sorprendentemente lucido.

- Io devo essere morta o impazzita che ti rispondo ma nemmeno ti vedo. Penso che tu sei Dio o il diavolo, perché sai tutto di noi, cosa succede ogni giorno qui, dentro questo inferno. Però mi chiedi se io li amo, i miei bambini. Questo mica lo sai, vero? Beh, te lo dico io. Certo che li amo, con tutto la mia forza e il mio cuore. Pure se me li ha ficcati in pancia quel bastardo, con la forza e con le botte. Sono nati così i miei figli, ma io ci provo a dargli tutto. Da mangiare, da vestire, poi lui arriva e lo fa di nuovo. Mobili, piatti, bottiglie, butta tutto per terra. Nascondo i giocattoli, così non glieli spacca, che ce ne hanno così pochi. Non so nemmeno leggere nella vostra lingua, questo non è il mio Paese. Lui almeno ci dà da mangiare, io non so fare niente. Potrei solo andare per strada, ma chi li guarda i bambini? Nemmeno la puttana posso fare. E poi chi la vuole una puttana incinta? Così rimango qui dentro e mi ripeto: - domani va meglio, magari lui cambia - ma ogni giorno lui è più cattivo, soprattutto con Mitar - .

L'orco l'aveva convinta di non avere altra scelta, così lei affogava in quell'acquitrino di miseria e ignoranza, lasciandosi massacrare insieme ai propri figli.

- No, Mirjana, ti sbagli Non sei sola e tutti ti aiuteranno, se troverai la forza di andartene. Qualsiasi posto è meglio di questa galera e non dovrai ridurti a fare la puttana, come dici tu. Esistono strutture per donne che si trovano in situazioni come la tua. Posti puliti e protetti, dove tu e tuoi figli sarete al sicuro. Fallo per loro e per quest'altro che porti in grembo. Fuori c'è un mondo che vi tende la mano, ma dovete scappare in fretta, perché, stanotte, qui arriverà la morte - .

- E se lui mi insegue? Con questa pancia non posso correre e i bambini hanno gambe piccole ... -

- Non ti inseguirà, te lo assicuro. Non inseguirà mai più nessuno - .

Un filo di sangue colava dalla bocca di Irene, chiazzando il copriletto in piccole gocce rosa che nessun'altro poteva vedere. Ad ogni parola le si apriva una nuova piaga: era dolore allo stato puro, ma non poteva tacere. Doveva convincerla che c'era futuro per loro solo varcando la porta di quell'assurda prigione.

Lei sarebbe rimasta lì dentro a rendere giustizia.

La donna si alzò dal letto e andò dai figli, iniziò a svegliarli uno ad uno, partendo dalla bimba più grande.

- Oddio, come faccio, devo vestirli per bene: fuori fa freddo ... - Mormorò confusa, passandosi convulsamente le mani tra i capelli.

- Metti le scarpe e basta. Poi avvolgili nelle coperte, non c'è più tempo - .

Nell'altra stanza il mostro si stava svegliando e la chiamava.

- Mirjana! Mirjana! Dove cazzo sei? Svegliati puttana, preparami da mangiare! -

Aveva fame il porco, anche se era notte fonda, e lei doveva servirlo.

La ragazza sentì le urla e iniziò a piangere, terrorizzata. I bambini ora erano svegli e guardavano, inebetiti, la madre che metteva le scarpe sui loro piedi nudi, con mani tremanti. Irene avrebbe voluto aiutarla, ma non poteva sfiorarli: il suo tocco li avrebbe potuti ferire. Iniziava a sentirsi debole, anche la maglia bianca che indossava andava chiazzandosi di rosso.

- Puttana, vieni qui! Non mi fare alzare che te la buco quella pancia di merda! -

Il mostro urlava e i bimbi iniziarono a piangere. Mirjana li accarezzava febbrilmente, mentre li metteva in piedi avvolgendoli nelle coperte, come piccoli bozzoli.

- Dove andiamo, mamma? - Chiese la bimba più grande.

- Via, lontano, amore, qui non ci torniamo più - .

Lei la scrutò con occhi azzurri, chiari come laghi ghiacciati e sembrò soddisfatta della risposta.

- Allora prendo la mia bambola. - Disse e si strinse al petto una pupazza di pezza con grossi bottoni gialli al posto degli occhi: Tese una manina al fratello e una alla madre, che reggeva in braccio la sorellina: erano pronti. Irene aprì la porta della cameretta e fece loro strada.

- Sbrigatevi, uscite. Teste nelle coperte e occhi bassi. Appena fuori, continuate a camminare senza fermarvi mai! -

- Ma tu chi sei, un angelo? - Le mormorò la bimba, abbozzando un sorriso che profumava di speranza. Irene le sorrise a sua volta, pur sapendo che la piccola non poteva vederla, poi sbatté con violenza la porta del tinello in faccia al mostro che stava per varcarla.

La tenne chiusa, appoggiandovisi contro con tutta la forza che aveva. Sentiva il legno vibrarle contro le scapole, squassato dai pugni, ma non arretrò di un millimetro. Piovvero schegge che le si conficcarono nel braccio mentre il montante cedeva.

Mirjana e i suoi figli erano già oltre la porta, sul ballatoio: lei e il mostro erano finalmente soli.

Irene si pulì la bocca col dorso della mano, schizzando gocce vermiglie sul pavimento; si scostò dalla porta un istante prima che lui la spaccasse con un calcio. Da vicino appariva più grosso, il faccione distorto da un ghigno feroce.

- Dove sei, troia? Ti nascondi? Ora vi faccio saltare i denti, a te e a quelle piccole merde! - Sogghignava, gli occhi porcini resi lucidi dalla droga che ancora aveva in circolo.

Entrò nella stanzetta e si stupì nel trovare i letti vuoti. Sbriciolò sotto i piedi, con cattiveria, una macchinina di plastica e proseguì la sua caccia.

- Dove sei povero idiota? Ti nascondi nel bagno con mammina, scimmia senza cervello? - Andò diretto verso il gabinetto, poco più grande di quelli dei treni, ma era anch'esso deserto. Una smorfia stupita gli si disegnò sul volto.

- Dove cazzo siete tutti quanti? Figli di puttana, ora vi faccio vedere io! - Con una manata sparecchiò tutti gli oggetti dalle mensole: piccole bottiglie di profumo si infransero a terra in un frastuono di cocci.

Richiuse la porta dietro le spalle con un calcio e tornò nel tinello. Vacillava come un orso ubriaco, mentre si grattava la testa, pensieroso, e misurava la stanzetta a grandi passi. Poi scosse la testa, sfilò di tasca un pacchetto di sigarette morbide e se ne infilò una all'angolo della bocca. Per accenderla si diresse in cucina, accese la fiamma del fornello e vi si chinò sopra.

Irene, in piedi accanto a lui, lo osservava. Le immagini dei notiziari le scorrevano davanti agli occhi, come fossero proiettate su uno schermo: lo rivedeva accendere il gas, con lo stesso ghigno crudele, poi piegarsi su Mitar e sollevarlo di peso, mentre scalciava. Lo rivedeva premere i piedini nudi del piccolo sulla fiamma viva e riderne di gusto, incurante delle sua urla strazianti, insensibile alle suppliche di sua moglie, in ginocchio di fronte a lui.

Le sferrava un calcio sui reni, sfiorandole la pancia, e continuava a torturare quel piccolo innocente. Le bambine piangevano, strette nell'angolo, pregando che dopo non toccasse anche a loro.

Irene riviveva quel film dell'orrore per l'ennesima volta. Allungò la mano sulla testa del mostro e lo afferrò al collo dal dietro, come si fa con gatti e serpenti, per immobilizzarli. Strinse forte e gli schiacciò quella maschera odiosa contro la fiamma: l'olezzo nauseante di carne bruciata saturò l'aria in un lampo.

L'essere ignobile urlava a squarciagola, si dibatteva con tutta la forza che aveva in corpo. Irene continuava a spingerlo giù, fino a sentire la fiamma scottarle il palmo della mano. Non lasciò la presa nemmeno allora e pigiò ancora sul fuoco quel che restava della faccia dell'uomo, col gesto di chi spegne una sigaretta. Come quelle che lui aveva spento addosso a Mitar mentre era in coma a furia di pugni.

Lo strinse e spinse ancora, forte, finché lui non smise di muoversi, poi lo guardò rotolare a terra. Il suo viso era un ammasso di rossa carne viva, senza più occhi.

Irene distolse lo sguardo e si affacciò alla finestra.

Nel buio, le sagome imbacuccate di Mirjana e dei suoi figli erano puntini neri all'orizzonte.

Gaia Valeria Patierno

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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