Storia di un terremoto.
Nunzia.
Sento una voce d'uomo. Giovane, attaccata a due braccia nascoste nel buio. Sento puzza di distruzione, sento la gamba destra morta. Forse sono morta tutta, penso. E invece no. Le orecchie, almeno quelle, sono vive. - Signora, mi chiamo Fausto... Signora, per favore, mi risponda! - Rispondere non posso. Sbarro gli occhi, si riempiono di polvere. Bruciano, li sigillo con lo scatto rapido delle galline. Pure il pianto improvviso avvampa, scorre e non so come fermarlo. Non me lo ricordavo più come sono fatte le lacrime. Le anime buone ne spargono tante in giro, le mie se l'è bevute tutte la malvagità. Ho sete, paura, freddo. Ho tutto, ma non glielo posso raccontare a Fausto. Apro la bocca e quella non alita parola. - La tiro fuori di qui, va bene? - . Come se fossi una munella me lo dice. Sorride mentre parla, posso vederlo pure a occhi chiusi. Sono vecchia e stanca, figlio mio. Sono cattiva. Lasciami qui. Lasciami qui, non te la prendere tutta questa pena. Non mi concede lo spazio dei pensieri. Non può sentirli, poi. Anche se fosse, non li ascolterebbe. Sposta con cura la trave che mi intrappola. Sono incastrata in un buco che odora già di morte, solo per caso non è diventato la mia tomba. Lo osservo dallo spiraglio delle ciglia mentre si calca l'elmetto sulla testa. Ha una mascherina sulla bocca, capisco appena se ha una faccia oppure no. Mi prende in braccio, ci mette un soffio. Leggera leggera mi sono fatta, come se gli anni non avessero più peso. Fausto sfila fuori dal disastro me e la mia gamba morta. Questa cambia idea, resuscita di colpo. Chiama a raccolta il dolore da martello, picchia come quello della notte che mi ha fatto madre. Sono sopravvissuta pure questa volta, mica lo so se è tutto ‘sto vantaggio. Dicono che ti ci abitui. Succede, dicono, quando la terra tua ti tradisce fin da piccola. Intrappolata nelle fasce, senza gambe vive o morte per scappare via. Dicono. Ma io non mi ci sono mai abituata all'ululato cattivo che precede il guasto, alle viscere del demonio che si spaccano di colpo e dietro a loro pure casa tua. Succede nell'Appennino umbro-marchigiano, capita da sempre in paesini sconosciuti come il mio. Certi, se ti metti a controllare, non meritano nome sulla carta. Scorri il dito su montagne e fiumi. Cerchi, ma il posto dove vivi tu mica lo trovi. Poi arriva la televisione e diventiamo tutti famosi. Quelli che fanno sì con la capoccia quando il giornalista chiede se hanno patito lo spavento. Sì senza parole, fanno, trattenendo tutti i santi e pure le madonne. Qui dalle parti nostre abbiamo lingua adatta, pochi freni in bocca, però sta brutto in TV. Più dignitoso muovere il capo senza l'accompagno di chiacchiere, più signorile di un cretino col microfono che ti fa domande sceme con la risposta già infilata dentro. E' il dovere suo, poveraccio pure lui. La telecamera si accende e parte la recita di frasi belle, quelle che servono per commuovere la gente. Siamo tutti santi, eroi o mezzi matti, dipende da chi ti guarda in quel momento al calduccio sul divano. È come avere l'inferno sotto ai piedi e i bombardamenti sulla testa. Una bestemmia sempre incastrata fra palato e lingua, tiri avanti. Mentre ti arrangi con le briciole scampate alla sua furia, te lo chiedi. Se lo domandano pure quelli tutti religiosi, perfino i preti. Anche se ricacci la bestemmia, e alla fine ti scappa una preghiera, te lo chiedi eccome che peccato avrai commesso mai per farlo incazzare così tanto. Quel nemico rintanato dietro alle tue spalle, maledetto a lui. Mai puoi sapere quando partono gli attacchi di un vigliacco che, a vedere dove sta, la organizzi pure la tua resistenza. Ma a chi spari, se non sai dove mirare? La luce è appostata fuori dalla mia quasi tomba, ci investe con la cattiveria delle cose belle. La gente applaude forte, pare un teatro. Lì per lì non raccapezzo la ragione. Il motivo è un eroe senza faccia: Fausto, me lo raccontano le voci tutte attorno. La divisa gialla e nera, quella per un lampo mi pare di vederla. Sembra un'ape, penso. Mi scappa da ridere. Le api fanno il miele, mica soccorrono i terremotati. Appena ritrovo la voce voglio ringraziarlo come posso. Con una torta, per esempio, riesco ancora a farle buone come un tempo. Quella coi pinoli e la crema, quella piace a tutti. Cucinare è stata la mia vita, per qualcuno la sua morte. Se ce l'ho ancora le mie pentole, questo non lo so. Più tardi magari qualcuno me lo dice. Voglio fare una carezza all'ape coraggiosa, la mano non risponde. Forse me l'ha mangiata via il terrore insieme ai bocconi della gamba. Chissà se perdo sangue e quel poco di vita che è rimasta, sarebbe pure ora. Mi lamento, muta. La voce non esce. Il dolore parte dal cuore, la gamba fracassata vince. Caccia fuori un male prepotente, vince tutto lei. Smarrisco il cervello nella confusione, vallo a sape' se adesso mòro oppure no. Fausto mi regala un sorriso con la mascherina ancora addosso. Allora mi accorgo del cielo nel suo sguardo, lo stesso che c'aveva pure lui. Non capiva che poche parole d'italiano, però capiva tutta me. Quelli che vedo adesso sembrano i suoi occhi, pure la voce gli assomiglia tanto. - Meine liebe... - sussurro prima di svenire. Fausto penserà che sono matta. 2. Clara
La mattina del 26 settembre, prima che la notte si trasformasse in incubo per molti e morte per qualcuno, Clara si era svegliata alzando di scatto la testa dal cuscino. La notifica di tre SMS; i primi due avevano incrinato il sonno già leggero, il terzo le aveva strappato un'imprecazione. Sapeva già di chi erano quei messaggi, senza ulteriore conferma dal display. Conosce a memoria il contenuto delle preghiere di un uomo che la chiama amore, eppure è stata molto chiara con lui: a letto sei bravissimo, mi piace la bellezza che ci regaliamo ogni tanto, oltre io non vado. Non voglio catene, non voglio legami, il carcere non fa per me. Già dato, grazie. Lui non ha aspettato un orario decente per tartassarla di messaggi, certe urgenze non conoscono orologio. Clara li ha letti senza attenzione dopo aver messo i piedi scalzi a terra e la moka sul fuoco. L'orologio segnava le sette scarse del mattino, la campagna che lambisce i fianchi della casa era ancora lucida di rugiada. Io scappo di nuovo. Io qui non resisto più. Io questa falsa pace non la reggo. Io voglio altro. Pensieri confessati alla tazzina di caffè fumante, alle brioche disposte sul tavolo dove la sera prima si era messa a riordinare libri e vecchi documenti. Se qualcuno le avesse chiesto di disegnare la sua vita, in quel momento, avrebbe riconsegnato un foglio piegato a metà. Scarabocchi neri di un vecchio incubo sulla prima parte mentre l'altra sarebbe rimasta vergine, di un bianco immacolato da riempire con qualcosa. Con cosa, Clara non avrebbe saputo definirlo con certezza. Il ronzio del vecchio frigorifero riempiva la casa vuota, un tempo c'era stato il pendolo a fare da controcanto a quel lamento da insetto mezzo morto. Fu la prima cosa che staccò dal muro una volta rientrata a Camerino, non voleva nulla che scandisse i tempi della sua ritrovata solitudine. Aveva intenzione di godersela in piena libertà, dopo tutti gli anni trascorsi in prigione a Roma se lo meritava. Avrebbe dovuto riempire il frigo con qualcosa, quel mattino. Fare un salto in macelleria e dal fornaio, le pagnotte che solo qui hanno quel sapore sciapo sotto la crosta l'avevano riconquistata presto. Comprare fiori freschi per il vaso di ceramica blu, non ha tempo per curare il giardino come sua madre. Non aveva mai saputo come coltivare una figlia, ma le sue dalie erano le più grandi e invidiate della cittadina. Avrebbe fatto un salto in centro storico due ore più avanti, passeggiato con tranquillità fra i viottoli medievali, preso un cappuccino in piazza, a due passi dall'Orto Botanico e poco distante dal Duomo. Pranzato in quella locanda con i glicini sul pergolato e i tavolini in radica di noce dove la ricetta dei vincisgrassi è la stessa da cent'anni. Avrebbe fatto tante cose prima di iniziare il turno delle 19:00 in ospedale, pensato anche di fare un salto all'agricola a prendere un po' di concime e sassi ornamentali per il suo verde troppo trascurato. Clara avrebbe fatto e pensato molto, quel pomeriggio del 26 settembre, ma non di ritrovarsi - poche ore dopo - a scappare dall'inferno, morire di paura e rianimare un infartato. Tutto nello stesso tempo.
Luana Troncanetti
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