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Autore: Francesca E. Bianchi
Veronica, il musicista e l'introvabile nota
Narrativa
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Veronica, il musicista e l'introvabile nota
Mi resi ben presto conto che non avesse davvero niente da insegnarmi, e a volte mi capitava di domandarmi se non me la fossi inventata quella cosa che chiamavo - la sua nota - . Ma, un giorno molto caldo, le chiesi se avesse voglia di uscire a fare una passeggiata prima della lezione di pianoforte e lei acconsentì. Percorremmo tutta la via fino ad arrivare al fiume e lo costeggiammo per quasi un chilometro. Sapevo che prima o poi, da qualche parte, quel fiume si sarebbe immesso in un lago, ma non c'ero mai andato e non desideravo andarci.
Spesso mi è capitato di avere questo tipo di atteggiamento: di sapere che ci sono cose da vedere, da provare, da gustare, ma non aver voglia di farlo. Non avere il minimo interesse al riguardo. Non so dire se io abbia un carattere abitudinario o semplicemente se la mia mente per certi versi sia da considerarsi chiusa, intestardita su quello che si è prefissata e carente nel domandarsi se ci sia dell'altro.
Veronica camminava lentamente, calpestando l'erba con i suoi sandali di corda. Portava una gonna bianca, lunga e leggera, che la faceva sembrare uscita da una nuvola e la vestiva così bene da farmi immaginare che ci fosse nata in quella gonna. Il suo bacino ondeggiava con un ritmo tale da diventare quasi ipnotico. Era dimagrita molto rispetto a come me la ricordavo, il viso era più scarno e in vita non aveva più un minimo di pancia.
- Non è facile dover lasciare la persona che ami - disse rompendo un silenzio che durava da più di mezz'ora. - È la vita che è crudele. Tu vivi di sogni, di sogni e di speranze. Ma poi, non è come prendere in giro se stessi? Quando vedi che tutto non funziona e che non funzionerà, continuare non è come prendere in giro se stessi? Le cose non possono andare come si vuole, bisogna volerle come già sono. È stato così difficile dirgli addio, e ancora oggi lo sogno, ci penso tutti i giorni, tutti i momenti. Ancora oggi è dentro di me e lo desidero e non lo posso avere. Mi mancano i suoi abbracci, la sua voce, il suo sorriso, il suo modo di fare, ogni piccola cosa. E lo ammetto, mi capita ancora di vederlo e di passare la notte con lui, perché per me è una calamita. E la mattina dopo mi sveglio con la paura di averlo e la paura di perderlo. Mi sveglio e non so che fare, e lascio perdere, lascio andare. Capisci cosa voglio dire? Noi eravamo due anime che dovevano stare insieme. La vita ci ha preso in giro. Se non ci avesse fatto conoscere non saprei cosa vuol dire amare, ma non saprei nemmeno cosa vuol dire perdere una parte che ormai consideri tua, non come un oggetto o come un essere esterno, tua come qualcosa che hai dentro, a cui hai permesso di creare un nido, tutto per lui, solo per lui, un posto privato, e anche se ora lui è lontano, quel nido c'è ancora, e nessun altro ci potrà mai entrare. Fa così male, non sai quanto fa male doversi separare da chi si ama come io amavo lui - .
Il tono era neutro. Respirava, camminava, ma in quel momento era come se fosse morta. Non osavo dirle niente, né provare niente. Neppure invidia o gelosia verso questo Marco che si era rubato un cuore che era mio di diritto. Semplicemente la osservavo e aspettavo.
Arrivati al ponte, ci voltammo e ripercorremmo tutto a ritroso verso casa, entrammo in automatico dal suo cancello fino alla porta e, una volta dentro, lei si sedette al pianoforte e iniziò a suonare, e lì la sentii, finalmente, sentii la mia nota, la nota che non riuscivo a trovare, e vidi, in fondo ai suoi occhi, delle lacrime che non avevano neanche più la forza di cadere.

Presi l'abitudine di invitarla per delle passeggiate ogni volta che ne avevo l'occasione. Sapevo che il discorso sarebbe tornato su Marco e sul loro disgraziato amore, ma era proprio lì che volevo arrivare. Se fosse per malato masochismo o solo per cogliere l'occasione di sapere qualcosa di più di lei non so dire, ma so di certo che la pena che provavo nell'ascoltare le sue parole non riusciva a distogliermi dalla convinzione di essere io l'uomo della sua vita, e Marco solo uno sfortunato errore che si era intromesso tra noi. Mi rendo conto solo ora che davanti a lei perdevo totalmente lucidità: sentivo e capivo solo ciò che volevo e continuavo imperterrito con le mie convinzioni, cancellando completamente tutto quello che potesse essere considerato avverso al mio pensiero.
Percorrevamo sempre lo stesso tratto, lungo il fiume fino al ponte e poi a ritroso. A volte iniziava lunghi monologhi dove sembrava che stesse parlando più con se stessa che con me, e anzi, la mia presenza diventava un qualcosa di superfluo. Altre invece sembrava sapesse molto bene che mi trovavo con lei e che avrei sentito ogni sua parola. In quei casi camminava in silenzio, alludendo sporadicamente a situazioni di cui non sapevo nulla o soffermandosi su insignificanti dettagli della loro vita insieme. Condivideva con me i suoi ricordi senza preoccuparsi di ferirmi, alcuni vissuti proprio in quella stessa strada sterrata, lungo lo stesso fiume in cui stavamo passeggiando noi. Poi si girava e mi regalava un sorriso triste, come per chiedermi scusa, e io l'amavo, nonostante sentissi un sottile dolore al cuore ogni volta che pronunciava una frase che mi riportava a lui, ma presto mi accorsi, con mio stesso stupore, che era un dolore che mi regalava anche un inaspettato piacere che non volevo perdere.
Calpestavo l'erba cercando di convincermi che lui ormai era il passato e che i miei piedi avevano preso il posto dei suoi piedi, ma mi illudevo. Era diverso. Nessun passo mi avvicinava. Lei mi teneva sempre alla stessa distanza, oltre quella barriera che aveva alzato, e nonostante perseverassi nelle mie convinzioni non potevo non domandarmi cosa fosse stata per lei quella notte di capodanno e se non la ritenesse solo un errore da cancellare dalla sua memoria.

Vissi in quel modo i mesi di giugno e luglio. Passavo la mattina sul dondolo, il pomeriggio con lei e la notte impazzivo davanti al pianoforte cercando di riprodurre quella nota che ben conoscevo e che risentivo durante le nostre lezioni, ma niente, non la trovavo e più il tempo passava più tutto diventava difficile e i suoi discorsi, invece che schiarirmi le idee, diventavano sempre più confusi.
I suoi pensieri sembravano pezzi di un puzzle caduto da un tavolo di cui non riuscivo a capire la figura.
- La felicità è contagiosa - mi disse un giorno, - Basta trovare una persona felice e si attacca. Il problema è che la gioia non è considerata un sentimento nobile e profondo come la malinconia. È un sentimento associato ai bambini, alla superficialità. Non è strano? Si cerca una persona felice perché si spera di poter essere contagiati dal suo sorriso e poi ci si lamenta di non essere capiti quando si parla della propria tristezza. Ma la pianta della felicità è una pianta fragile e dallo stelo sottile, se la soffochiamo piano piano muore. Ho paura delle persone felici perché credo che non mi prenderebbero mai sul serio, che non possano capire la mia tristezza e magari addirittura riderne. Per noi esseri malinconici la nostra malinconia è essenziale. Ci fa sentire speciali, fuori dal mondo, profondi di spirito. Anche avendone la possibilità non potremmo essere davvero felici, le anime in pena come la mia devono
avere sempre un fondo di malinconia nel cuore - .
Tornando a casa riflettevo sulle sue parole. Mi chiedevo che anima fossi io e perché volessi così ardentemente la sua. Ogni pensiero stringeva ancora di più il laccio che mi legava a lei: più capivo quanto stava male, più non riuscivo ad allontanarla, anzi, l'apprezzavo e la avvicinavo sempre di più al mio cuore. Il suo amore per questo Marco era l'amore che avrebbe dovuto dare a me e mi commuoveva la purezza con cui ne parlava. Non provavo gelosia, più di quanto se ne possa provare per un morto, un'ombra del passato, qualcosa che davo per scontato non potesse più tornare, e mi convincevo ancora di più che una persona come lei meritasse tutta la pazienza che avevo avuto e tutta quella che volevo ancora darle.

Ogni tanto spariva per un paio di giorni. Bussavo alla porta e non rispondeva nessuno. Mi mettevo
allora sul dondolo e aspettavo finché non la vedevo rincasare vestita con degli abiti inusuali: gonne troppo corte, maglie troppo scollate, scarpe troppo alte. Un giorno mi avvicinai preso da una sorta di curiosità e le chiesi dove fosse stata:
- Mi stai spiando? -
Mi rispose con una rabbia che non conoscevo.
- No - e mi riempii di imbarazzo.
C'erano evidentemente delle cose di Veronica che Veronica non voleva far sapere. Non ci sarebbe
voluto molto per capire di cosa si trattasse, se non fossi stato così cieco, stupido e innamorato.
- Agli amori eterni è difficile dire di no. Non ci riesci. Quando sai di poterli rivedere tu corri, sperando in un incontro, sperando di poter rivivere per un istante quel qualcosa che avevi vissuto prima e che non è stato dimenticato. La mattina dopo tutto è identico, si torna a casa, si riparte da capo e ci si maledice perché non si riesce a chiudere la porta. Quando la tua anima e la sua anima si rincontrano tutto si blocca, tutto è cancellato e allo stesso tempo così presente da far impazzire. La paura blocca ancora la possibile felicità, le cicatrici non sono rimarginate per poter ricominciare da capo e se un domani lo saranno allora forse le due anime non potranno più toccarsi nel profondo, avranno smesso di penetrarsi. Capisci cosa voglio dire? È difficile dire di no. È difficile rinunciare a un momento tra le sue braccia. Al desiderio di rivivere ancora anche solo
un piccolissimo momento - .
Io non volevo capire quello che era chiarissimo, ma chi avrebbe voluto farlo? E continuavo a vivere
sotto l'effetto di un incantesimo, sentendomi privilegiato nell'ascoltare le sue confessioni, credendo
di essere ai suoi occhi qualcosa di speciale, senza rendermi conto che quelle parole erano il suo modo per accomiatarmi, per uccidere ogni mia speranza. Ma quella viveva, forte di una convinzione di anni.

Così passò giugno, poi luglio, e infine arrivò agosto, e con agosto arrivò Sara. Scese da una macchina nera insieme a un signore grassottello e mal vestito, con un principio di calvizie. L'uomo tolse dal bagagliaio una valigia mentre lei abbracciò Veronica,
saltandole letteralmente in braccio, poi entrarono tutti in casa.
Li vidi arrivare mentre sedevo come abitudine sul dondolo del giardino. Alle due di pomeriggio, come ogni giorno, mi presentai a casa sua, bussai e mi venne ad aprire una Veronica completamente diversa da quella con cui ero stato fino al giorno prima. Era gioiosa come non l'avevo mai vista e quasi mi sembrò felice del mio arrivo quando mi
disse sulla soglia:
- Entra Tommaso, scusa mi sono dimenticata di avvisarti, oggi ho ospiti. Ti presento mio cognato e
Sara, la mia nipotina. Starà con me questo agosto - .
La vista di Sara mi lasciò sbigottito. Due occhietti maliziosi e birichini spuntavano da un viso
che era incredibilmente simile a quello della mia Veronica. Come lei aveva i capelli biondi, ma invece di cadere lisci sulle spalle erano tagliati corti e si perdevano ribelli nel loro disordine. Era un'ironica miniatura vestita da maschiaccio, con in testa degli
occhiali da sole con la montatura rossa. Mi fissò senza parlare, tenendo la bocca aperta in
uno strano ghigno, poi disse:
- Io ti ho già visto. Tu sei quel musicista che si vede sui giornali - .
Al cognato di Veronica si illuminarono gli occhi, come se la mia presenza potesse migliorare in
qualche strano modo la sua vita, o forse, pensai, e poi si dimostrò vero, voleva farsi fare un autografo e magari delle foto. La cosa più strana di tutte fu che nel vedere Veronica con quelle persone mi resi conto che non sapevo nulla della sua vita. Non avevo mai considerato che potesse avere un lavoro o una famiglia, lei era solo Veronica ai miei occhi, Veronica coi vestiti bianchi e coi sandali di corda, Veronica che dopo aver fatto l'amore mi aveva regalato
un rassegnato sorriso.
Mi offrirono un caffè. Il cognato di Veronica non stava nella pelle, mi chiese il permesso di farmi delle foto, da solo, con Sara e con Veronica. Il viso gli era diventato paonazzo e dalla fronte gli scendevano delle gocce di sudore che denotavano un'eccitazione che non riuscivo a collocare. Non tolleravo la sua persona e cercavo di digerirla solo per piacere verso Veronica. Mi infastidiva sia la sua figura sia le continue domande con cui mi assillava. Quando l'interrogatorio poté ritenersi concluso mi chiese di fargli ascoltare qualcosa.
- Sarebbe un onore - disse, e il suo essere così insignificante me lo fece odiare ancora di più.
Mi misi al pianoforte sentendomi gli occhi della bambina addosso. Suonai in modo strano per le mie orecchie, e qualcosa mi fece quasi credere che ero sulla strada giusta, che le lezioni mi stavano portando verso la mia nota, ma tutto era troppo labile e quella sensazione svanì in un soffio. Quando finii di suonare applaudì come un imbecille e mi ringraziò vivacemente. La bambina osservava.
- Stiamo cercando di insegnare a Sara a suonare uno strumento ma è inutile. Strimpella qualsiasi
cosa ma non ha passione per niente e non si impegna. Eppure dovrebbe essere portata - .
Di sbieco guardai quella bambina di forse sei anni. La temevo più di quanto avessi mai temuto
nulla in tutta la mia vita. Non riuscivo a inquadrarla. Se ne stava in silenzio studiando la situazione
e mostrando dagli occhi un carattere né timido né tranquillo. Sembrava nascondesse un demonio che non osavo affrontare. Non sapevo da dove nascesse il mio timore e cosa potessi aspettarmi da lei, l'unica certezza era che sarebbe entrata a far parte del mio piccolo mondo estivo.

Francesca E. Bianchi

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