Il segreto di Moran
Moran vestiva il lenzuolo all'inguine lascianfola nuda, osservandola accostar la fiamma alla sigaretta ( - Perché voi donne fumate sempre, do¬po? - ) e il gesto era anche quello di Vienna quando ancora era solo amore e non la paura che l'aveva portato al Capo della Felicità, lasciando lei penduta fuori dal dancing bar. In chiesa il vec¬chio si era alzato accettando l'invito alla battaglia, e poi il farmacista e il droghiere, e il maniscalco e il barbiere, però le maniche tirate dalle donne li riportarono alle panche uno a uno la¬sciando Moran solo sulla porta. Ma il vecchio no, scrollò la mano grigia dal braccio ( - Oh, tu, mi hai stremato per anni, ora vado - ) e uscì sulla soglia al sole, carabina già pronta al fianco di Moran per Vienna contro i banditi, morto di lì a poco contento e lei pendente e lui in triste stridente fuga solitaria, Moran il cavaliere, il seduttore, il conquistatore, più forte di lei ma non della sua storia, lasciandola appesa tra risate all'olmo ombreggiante il dancing bar. Errore, errore, vecchio, sorvegliare la destra dei mancini, e il giovane di galoppo lontano dalla storia per l'ennesima volta più forte di lui, e osservava Haidée che accendeva la sigaretta. - Perché voi donne fumate sempre, dopo? - Molto meglio qui. Tanta pace, a Capo della Felicità, nascosto e dimenticato tra Yemen e Oman, minuscolo contorno di montagne catturatrici di vento e umidità, verde distesa strappata agli avidi tentacoli del Quarto Vuoto. Oblio e riposo, e un altro dancing bar ove Haidée alitava appoggiata allo strumento splendente ( - Ricordi - cantavo in un caffè di Casablanca - cantavo - laggiù dove l'amore è un'avventura - ) mentre l'ozio le prestava languida attenzione dai bianchi sparati e candide dishdasha, lampi d'argento di falliche daghe omanite riposanti in grembo, liquidi strappati all'indulgenza del profeta e piattini colmi di verde, lampi d'oro dei cucchiaini ( - Cantava, - pensava Moran ricordandola oscillare nel vuoto lasciato dal cavallo sferzato, - cantava ‘Son fili d'oro', con la sua voce dolce e soave come il fruscio di un biglietto da mille - ). Dal piccolo albergo dai muri di fango, torrette a imprigionare il vento, Moran usciva la sera accettando una sosta dal vecchio Dajani grasso e immobile, scuotendo tre volte la tazzina svuotata di shaay, scambiando impressioni al passaggio e ai saluti che il vecchio restituiva ( - E pace anche con te - ) ai ricchi e meno che si avviavano al dancing bar, prima di rialzarsi dalla stuoia e incamminarsi anch'egli al bianco locale ( - Tutti vanno da Nick - ), pareti imbiancate e candide tovaglie, e mentre il tempo della sera passava, le note dello strumento splendente seguivano Haidée ( - Chissà - perché il destino mi condusse laggiù - perché i tuoi baci non dimentico più - ) che onorava il suo contratto giorno e notte, scesa dal piroscafo di qualunque bandiera sul quale si era fatta impacchettare dopo chiuso sul Titano il Charlie Brown nudo integrale, e Moran godeva del canto e del resto e del resto degli altri, concedendo alla pari sé e la sua storia sopravvissuta a quella ormai strozzata di Vienna e alle altre da narrarsi via via che il vento spinto giù dalla torre asciugava il sudore e lasciava spossati al discorso, magnaccia e puttana impa¬vidi e innamorati come il primo giorno. Dajani li accoglieva immobile sulla stuoia, offrendo shaay con un battito leggero di palpebra al garzone e un bisbiglio ( - Sabaah alkhayr yaa sayyed Moran - ) e perfino ridendo un po' al bonjour e goodmorning ( - Laa atakallam lughatak jayyidan - ), e magari aggiungendo please speak slowly ma accogliendo ogni parola nell'alcova del pasciuto cervello, distributore di strumenti letali oltre i versanti delle montagne per garantire la vita a Ras al Sahada e ricchezza allo stomaco insonne, spilluzzicante e divorante mentre il garzone recava shaay a Moran e Haidée. O al bravo capitano Josif Cunardowski tanto spesso lontano dalle rotte redditizie dopo aver sentito quel canto ( - Mi hai visto - tra il fumo e i marinai danzare stanca - ), e al magro ministro Babal che veniva a far risplendere nella penombra il suo unico occhio vedente, ardente di una febbre che appesantiva di cautela le palpebre di Dajani, mentre su di loro si stendeva la saggezza dell'emiro, l'illuminato sceicco Ahmed bin Sultan Nahar, e su tutti il re¬spiro di Allah, il Pietoso, il Misericordioso.
Al tempo della dominazione portoghese e per secoli dopo, la città di Ras al Sahada, oasi profumata d'incenso che chiedeva all'altezza delle palme la testimonianza della sua antichità, non era mai stata nulla di più importante di un porto di passaggio per un piccolo commercio di caffè e grani d'ambra, semipovertà illuminata dalla felicità che nascendo dal fiore di canapa era finita nel cuore dolce degli abitanti e nel languore delle loro membra e nel nome stesso della loro casa. Come un grande e scabro portone, diecimila anni prima le montagne si erano alzate e chiuse a un tratto in un mattino ridente che sbriciolò il fango delle case, lasciando di qua e di là gli uomini fieri dall'occhio vivace che guerreggiavano con le pietre e col bronzo e col ferro. In un lampo di cento rivoluzioni la vita riebbe il suo regno, più bello e sicuro e solo cedente sorridente di tanto in tanto a un approccio dal mare, che era anche via per la fuga quando i sogni cadevano né più vi era, spossata da sole e lontananza, la volontà per rammendarli. Così, gli ultimi uomini di Albuquerque l'avevano lasciata con dolore, per seguire i compagni che abbandonavano l'Oman sornione e i castelli nei quali avevano asserragliato il loro ruolo di conquistatori lasciandoli a raccontare di come i conquistati fossero stati i più forti, consegnando al ricordo delle loro corazze lusitane, che si struggevano nel sole e nel timore dell'attacco, il compito di inchinarsi all'ironia dell'omanita in cui il mercante conviveva col guerriero. Alcuni di quei prodi vollero restare, ammettendo il colore del sole nella propria pelle, cambiando le vesti di ferro con la lana morbida e candida e l'elmo con il cencio attorcigliato al capo, via lo spadone dall'elsa preziosa e ecco risplendere sul grembo i morbidi raggi dell'argento ricurvo di una daga. Mescolando gli anni e le parole e la statura all'indigena indole drogata, vivevano ancora a secoli di lontananza in accenti inconsueti che però tutti concorrevano al canto dolce venuto da lontano con la pianta felice
Abbiamo bevuto il soma, siamo divenuti immortali Ci siamo avvicinati alla luce, abbiamo conosciuto gli Dei Che può contro di noi il nemico?
Nelle decadi, le svelte navi che ancoravano per le ricche inusitate sorgenti o i chicchi di caffè, giungendo dal sole bellicoso dei Mediterraneo o dalle brume tragiche del Nord, confrontavano quel canto coi segni della propria civiltà, con le parole del proprio mondo cui il pensiero tornava
Guardò e vide il petto dei miseri, un oceano sconvolto, senza pace.
Ma non giungevano gli strazi dei pescatori di perle del golfo, né le incursioni dei nomadi pa¬stori di cammelli, lo sparo secco e infallibile del beduino indifferente alla sete. Non passò le montagne la tregua dei pirati, le cui navi, affacciandosi cortesemente, avevano rispettato la pace delle preziose sorgenti, e i cingoli di Aden non valicarono col loro stridore la catena di sassi provvidenziali scagliati cento secoli prima dal Compassionevole, l'Onnipotente. - Io vi approdai, - disse il capitano Josif Cunardowski (accarezzava i bei baffi allisciati dalla lingua inglese che non tradiva le origini più segrete, dentro il ventre generoso e bestiale della vecchia madre di nazioni, e osservando le luci sul Tamigi snebbiato vi cercava formazioni di stelle, l'orsa piccola e grande e il cane, e l'infallibile sagittario, e la pallida vergine, ma alzando gli occhi allo spicchio di luna doveva frenar la sorpresa nel trovarla così erta, diritta, e non coricata mollemente in una bandiera di cielo. Fumava e diceva) - dieci anni fa la prima volta, e tutto era come doveva. C'era un albergo, e se premevo il pulsante alla parete o in capo al letto si accendeva la luce, e nelle vie meno strette c'era, sempre immobile, qualche automobile per affermar la ricchezza di un principe o mercante. C'erano i caffè e non la tivù, e giornali seppur di qualche mese, negozi per la spesa e il lusso, il palazzo di un buon sultano e i suoi bravi soldati all'ingresso, e il largo basso edificio di Nick, dove il Corano restava alla porta. Tutto al suo posto, nell'oggi. Ma qualcosa... Ma non importa, perché ancora non so se potrò dimostrarlo. Non so quando arrivò Moran, ma quando la sentii cantare lui era già là, appoggiava al palmo la sua lunga faccia tranquilla e la guardava con la calma di chi ha diritto, una calma che mi rese feroce mentre lei cantava e lui la guardava e io lo guardai e lui mi guardò stupito. Aveva ragione, lo ammetto, il diritto era suo. - Forse, - disse il capitano Cunardowski, - se il destino fosse stato più benigno avrei trovato un motivo d'approdo quando ancora lei, appena giunta, cantava per nessuno. Ma ero passato e ripassato, su da Zanzibar e Socotra, o giù da Jed¬dah e Aden, per Muscat e Karachi o attraversando Hormutz alle due coste del golfo, e non mi ero fermato. Una volta dieci anni fa, il tempo di empire d'acqua i barili per la stiva del mio veliero velo¬ce come un gabbiano e meno di un motore e meno costoso; il tempo di incontrare Dajani e scuotere la tazzina, e comprargli chicchi d'ambra e caffè ignorando le lunghe casse che non tentò di vendermi, e poi via per Karachi o attraverso Hormutz, a Kuwait o Abadan, e un anno dopo il tempo di riempir d'acqua i barili e inchinarmi al sul¬tano e ingollare lo shaay di Dajani, una bracciata di collane d'ambra scappando veloce per cogliere il vento della sera, afflitto dall'avidità che ac-colse i sacchi polverosi del prezioso cemento esigendo posto ai barili, e allora ecco una sosta, un lungo sorso alla fonte in mezzo alla piazza, un cenno col capo al nervoso Babal, un gesto a Pierre e Jojo, un saluto per Jacques, un sorriso a Dajani, già pronto lo shaay da ingollare, e poi come tutti da Nick a scoprirmi in ritardo, perduto per sempre. -
Franco Mimmi
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