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Autore: Catia Simone
Nove Mesi
Narrativa
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Nove Mesi
Uno

Piove. Sulla terra di solito brulla e secca della riva settentrionale, cubi di pietra, perfettamente conservati, sembrano seminati tra le sterpaglie e il fango. Sono le case dei gitani, i primi abitanti della piccola città di Canovés: qualche traccia rimasta solo nei libri di storia e in qualche quadro appeso negli uffici del governo. Il resto è ormai dimenticato sotto il cemento delle nuove abitazioni e calpestato dagli invasori provenienti da ogni parte d'Europa.
Rey tempesta di telefonate suo fratello, pregandolo di fare il possibile per arrivare al bar nel primo pomeriggio. La macchina del caffè installata da Pío prima dell'inaugurazione del locale non emette più alcun sibilo, né emana più nessuna luce dalle spie.
- Pío, qui non va più niente, sembra morta! -
- Strano, Rey... prova a staccare la spina per qualche minuto e poi riattaccala alla corrente. -
- E io che ho fatto finora?! Se ti dico che non va, non va! -
- Va bene, va bene! Sarò là appena potrò, eh? Tempo e clienti permettendo.... -
Ogni volta che piove con quell'intensità, la strada secondaria che Pío imbocca per evitare il traffico della tangenziale diventa una grande pozzanghera dentro cui il suo Ford Bronco nero sembra immergersi come un biscotto nel caffellatte. Del resto, è una via soggetta alle esondazioni del Vés e alla negligenza politica e amministrativa del Ministerio de Obras Públicas. La città, vista dall'alto, sembra essersi sviluppata su un grande molo. La lunga striscia di case racchiusa all'interno del rione antico si estende fino alle colline coltivate a uva rosada; la parte moderna è circoscritta nel quartiere residenziale composto da ville bianche che fanno un po' stile Miami, affacciate, però, su una vista mozzafiato proprio nel punto in cui il fiume si riversa nell'immensità dell'Oceano. Proprio qui, sul porto turistico, Rey ha aperto un bar, con l'aiuto di Pío, dopo anni trascorsi vendendo chili di caffè in chicchi e in polvere in altri bar, pasticcerie e locali della sua città.
Man mano che Pío si avvicina al porto, la pioggia concede, in alcuni tratti, una piccola tregua che permette di ammirare, tra il movimento più lento dei tergicristalli, l'inquietante e spettacolare gioco di colori innescato dalle correnti e dalla furiosa comunione tra acque di fiume e di mare: onde, vortici, e poi girandole di schiuma grigia e melmosa. Sotto le improvvise schiarite del cielo, il mare apre chiazze verdi e turchesi subito inghiottite dal peso oscuro di altri nuvoloni carichi di pioggia e di elettricità.


Grandi gocce strisciano, si accumulano sul vetro della porta d'entrata sul cartello con la scritta - Está Cerrado - . All'esterno, le sedie, piegate con le spalliere sui tavolini, sembrano corpi accasciati dopo una solenne sbronza che neanche la pioggia potrebbe scuotere. La radio restituisce la voce metallica dei CoRa(p)Zon, da un paio d'anni a questa parte il tormentone sonoro trap-latino che ha sostituito i tormentoni estivi amore-cuore-mare- tramonto. Del resto, la rabbia, oggi, seduce più della leggerezza, meglio se sporcata dal rumore graffiante della lavastoviglie in funzione. Altre stoviglie sporche occupano, silenziosamente, il piccolo lavandino d'acciaio.
L'Apollo 11 è lì, davanti a lui, e la spia d'accensione emana la stessa luce gialla intermittente dei semafori notturni posti agli incroci della città. Pío la accarezza, sa che ripartirà nuovamente. E, infatti, dopo un paio di prove, staccando e riattaccando la presa nella corrente, il giallo si muta in verde. Urla: - Rey, sono qui, era solo un calo di tensione! Rey?! -
Dalla radio risponde solo il refrain campionato dei CoRa(p)Zon e poi un tuono che annuncia un altro scroscio d'acqua.
- Rey, ma dove sei? Qua è tutto a posto!... Ma sei in bagno? -
Pío lascia colare nella sua tazzina una densa e profumata miscela di arabica cento per cento. La beve assaporando lentamente per gustare al meglio l'amaro e corposo aroma. La prova che l'Apollo 11 c'è, gagliardo, e funziona perfettamente.
- Rey?! - Pío spegne la radio. La lavastoviglie, intanto, ha finito il ciclo di lavaggio. Nel silenzio, dei piccoli rumori, qualche lamento. Forse un gatto – pensa – uno dei grossi gatti neri che popolano il porto e che l'estate vanno e tornano a loro piacimento da chissà dove. Minuscole sfingi che occupano le pietre dell'arenile fino a quando le loro immobili pose vengono disturbate dalle onde che s'infrangono sul bagnasciuga, sollevate dai traghetti e dalle barche di passaggio. Esseri furtivi nascosti nelle aiuole che abbelliscono la piazza del porto, quella di fronte al bar Dos Gardenias, il loro bar, da cui scorgi i loro occhi color topazio brillare vaghi come le lucciole tra le foglie di lauro. Occhi felini, stelle di terra. Pío è così, ha l'abitudine di perdersi nei pensieri per dare un significato a ogni cosa. Per poi tornare alla realtà quasi di soprassalto, riprendendo l'azione da dove l'ha interrotta. Apre la porta del retrobottega per vedere se suo fratello è là. Magari è nascosto tra la dispensa e il congelatore o tra il bidone dell'immondizia e una torre di sedie di scorta e tavolini con cui supera, di continuo, il perimetro del suolo in concessione e per il quale ha già ricevuto un paio di contravvenzioni piuttosto salate. O, forse, è dietro la pesante tenda di cotone marrone scuro che divide la stanza a metà.
Come lo sono lui e Rey – pensa. Come lo è la loro società - Los Hermanos - : quarantanove per cento di proprietà di Rey, quarantanove per cento di proprietà di Pío. E un due percento che risponde al nome di Celeste Ramirez.


Due

Pío ama le forme dei modelli retrò di quelle macchine da caffè. Spessore e solidità con cui lui identifica il proprio ideale femminile. L'acciaio inossidabile su cui si riflette, invece, una fragile apparenza: un tacco, una mano o una bocca che lascia la sua forma su una tazza. Frammenti di una femminilità che lo mettono a disagio.
Donne, donne, donne. Alle sue clienti Pío concede sempre poca confidenza, nonostante le provocazioni. Che sia in piedi o inginocchiato mentre svita, svuota, riempie, o compie ogni altra azione manutentiva, c'è sempre una mano o una gamba che lo sfiora. Attira le donne come le sue macchine da caffè attirano gli scarafaggi che di quel buio elettrico fanno il loro nido, ignari del triste destino infilzato dal cacciavite di Pío.
Il corridoio che separa le quinte del bar dal palcoscenico del bancone, mette alla prova la sua indifferenza, per nulla scossa dallo struscio di bariste in minigonna o detentrici di importanti circonferenze pettorali. Pío è tutto il contrario di suo fratello Rey, la cui esuberanza sessuale lo mette costantemente in imbarazzo fin da quando erano ragazzini.
L'acciaio ricopre anche il bancone del bar, arredato con tavolini tondi a tre piedi di plastica grigia, come le sedie. Le pareti sono bianche e così il bancone dei gelati freschi. L'unica nota di colore in quella sobria e candida fisionomia del locale è il frigo dei gelati confezionati, blu e arancio, sul cui bordo compare l'insegna della marca di cui hanno l'esclusiva. Lo stesso frigo, l'estate, è traslocato all'esterno, posizionato su un carrello munito di due enormi ruote di legno gialle e coperto da un baldacchino color arancio.
In un giorno di metà settimana, Celeste e Uga entrano al Dos Gardenias. La fine di ottobre è vicina e quello è l'ultimo giorno di apertura prima che il bar chiuda per ferie un paio di settimane.
Intanto, l'influenza stagionale ha contagiato anche Rey, così come tanti abitanti di Canovés. Anche Pío è indebolito da qualche linea di febbre, ma, nonostante ciò, sostituisce suo fratello proprio quella mattina, servendo con la sua solita freddezza i clienti che entrano nel bar. A un avventore porge un tè caldo.

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