Fuga dall'Uomo.
WANDERLUST Dal tedesco: Wandern (vagabondare) – lust (ossessione, desiderio). Meglio conosciuta come - malattia del viaggiatore - , la sindrome di Wanderlust consiste in un irrefrenabile desiderio di esplorare il mondo. Necessità viscerale di viaggiare, conoscere posti e gente nuova, fare esperienze inconsuete. Curiosità per tutto ciò che è diverso, nuovo, contraddittorio. Studi scientifici ipotizzano che l'origine di questa - malattia - risieda nel nostro DNA, in un unico, minuscolo gene: il gene DRD4 - 7R. Rinominato - gene della Wanderlust - , il DRD4 - 7R non è presente in tutti: solamente il 20% della popolazione è affetto da questa mutazione genetica. Tali persone sono più predisposte al rischio, a esplorare nuovi posti, cibi, idee, relazioni, droghe o opportunità sessuali. Tutto è concesso, fintantoché sia nuovo. L'unica cura per queste persone è non stare mai fermi. Unico rimedio: viaggiare. Unica passione: il mondo.
- Un gene - pensò accigliato, mentre infilava la rivista, ormai sgualcita, nella tasca posteriore del sedile di fronte a lui. Chiuse gli occhi ripassando nella mente ogni parola dell'articolo appena letto, riassaporandone l'inchiostro. C'era dunque una spiegazione scientifica alla sua ossessione, a quell'irrequietezza d'animo che lo spingeva a viaggiare, a prendere e partire, a percepire come una condanna l'idea di legare l'esistenza ad un unico posto. Un gene. Era a causa di un gene che aveva cercato di fuggire dalla sua vita ed eclissarsi nella Natura; nascondersi al mondo rimanendo nel mondo. Quello stesso gene lo aveva spinto verso il pericolo, verso l'ignoto. - DRD4 - 7R - ripeté nella sua testa. Questo il nome del gene che, dieci anni prima, lo aveva spinto verso la sua odissea. Si perse nei ricordi mentre guardava fuori dal finestrino dello scomodo aereo low cost che lo stava riportando a casa. Non aveva mai perso quell'abitudine negli anni: amava guardare il mondo sfilare via da un finestrino, e poco importava su che mezzo stesse viaggiando, a lui piaceva osservare il mondo, fantasticare sulla Natura, le persone e i paesaggi che saettavano veloci fuori dal suo campo visivo. Solo così riusciva a pensare, a rilassarsi, a placare la sua irrequietezza. Solo così era in grado di sognare. Le immagini ormai sbiadite della sua grande avventura vorticavano veloci nella sua testa, in un tornado di emozioni indistinte e corrose dal tempo. Potenti, ma allo stesso tempo indistinguibili. L'urto dell'aereo che toccava terra lo scosse dal suo vagabondare riportandolo alla realtà del presente. Era tornato a casa. Quella che considerava ancora casa sua. Era il posto in cui era cresciuto e aveva vissuto i primi ventisei anni della sua vita, quella casa in un piccolo paesino dimenticato della provincia barese. Ancora non riusciva a spiegarsi perché, nonostante avesse passato tutta la sua adolescenza a considerarsi forestiero in casa sua – - casa mia è il mondo - si era sempre ripetuto – in quel momento, a trentasei anni e con una villa nell'immensa Madrid, considerasse l'abitazione da cui aveva cercato di fuggire per oltre dieci anni casa sua. - Colpa della sindrome di Wanderlust - sentenziò fra sé mentre estraeva il bagaglio a mano dalla cappelliera. Ricordi sbiaditi, messi da parte da troppo tempo, ora facevano capolino nella mente di Safar per poi sparire, rapidi, prima che lui potesse afferrarli. Avrebbe voluto prenderli con entrambe le mani, spremerne l'essenza ed abbeverarsi con il loro dolce nettare, come un viandante assetato disperso nel deserto della vita. Aveva deciso che la prima cosa che avrebbe fatto, appena avesse messo piede nella sua vecchia casa, sarebbe stata ritrovare il suo quaderno. Il quaderno in cui aveva annotato ogni dettaglio del suo Cammino di Santiago con tutte le avventure, le peripezie e i dolori da esso scaturiti. Un lampo lo lasciò senza fiato costringendolo ad affrontare la realtà da cui stava tentando di scappare. Una saetta di dolorosi ricordi colpì prima la sua mente, poi la sua anima. Sara. Passati i noiosi controlli aeroportuali si fiondò a prendere la navetta per raggiungere il centro città dove avrebbe preso il solito, sgangherato autobus che lo avrebbe riportato nel ridente paesino collinare in cui era cresciuto. Quell'autobus lo avrebbe riportato dai suoi genitori, che non vedeva da tre anni, che in quel paesino si erano incontrati, si erano amati, si erano detti - per sempre - . Il lunedì successivo avrebbe dovuto essere in ufficio alle nove in punto, giacca e cravatta, per poi prendere un nuovo aereo che lo avrebbe portato in Norvegia a discutere pratiche importanti con un cliente. Non gli piaceva il suo lavoro. Odiava gli insulsi obblighi che gli erano imposti: vestire sempre eleganti, rispettare assurde convenzioni sociali e sguazzare tra la freddezza dei rapporti umani. Non gli piaceva affatto, ma almeno una volta al mese Safar era su un aereo a dissetare il suo animo con preziose gocce di avventura. E poco importava che non fosse il lavoro dei suoi sogni, dato che gli permetteva di viaggiare. Il vivace paesaggio murgiano galoppava rapido attraverso i finestrini dell'autobus. Secolari alberi di ulivo puntellavano terreni brulli coperti da scura terra riarsa e dure rocce gagliarde. Il vecchio autobus si trascinava in evidente affanno fra stretti tornanti in ripida salita come un goffo gigante in debito d'ossigeno. Cigolando e sputacchiando, riuscì a superare quell'ardua scalata e riportare Safar nel suo paese natale. L'uomo si accorse con sollievo che tutto era rimasto uguale. Più che un paese, una fotografia. Una fotografia di ventisettemila anime destinata a permanere immutata negli anni. La piazza, il corso principale, la villa comunale: niente era cambiato. Qualche piccolo negozietto a conduzione familiare era stato chiuso per far posto all'ennesimo centro scommesse, ma oltre a quello, poco altro. Casa sua aveva seguito il testardo immobilismo del paese che la ospitava. Niente era cambiato. Il portone nero cigolante, il pomello cromato arrugginito, il marciapiede di cemento a buon mercato solcato in più punti dalle intemperie. Tutto uguale. Anche i suoi genitori erano rimasti uguali, per fortuna, apparentemente non erano stati intaccati dallo spietato incedere del tempo. Li trovò nelle stesse posizioni in cui era solito vederli quando, svariati anni prima, tornava da scuola. Li aveva lasciati in quella posizione anche prima di partire alla volta di Madrid, dopo aver ricevuto un'insperata offerta di lavoro da un'importante multinazionale locale. Era come se, dopo la sua partenza, fosse rimasto tutto congelato, in attesa del suo ritorno. Sua madre, in cucina, era sommersa da pentole stracolme che borbottavano sui quattro fuochi del piano cottura e, come al solito, era circondata dai magici odori che solamente lei sapeva tirar fuori da ingredienti apparentemente elementari. Odori familiari che solleticarono l'olfatto di Safar nel momento stesso in cui l'uomo aprì il portone, destando il suo appetito. Suo padre era seduto, la sigaretta perennemente accesa, a esaminare le quotazioni delle partite di calcio di quel weekend, imprecando a denti stretti contro la sfortuna, contro l'unica squadra che puntualmente gli faceva perdere la schedina, ogni volta ripromettendosi che non avrebbe più giocato, che tanto, si sa, - le partite sono tutte truccate - . E poi, una volta smaltita la delusione ci ritornava, su quelle quotazioni, a studiare complessi metodi per sconfiggere la sfortuna che lo perseguitava. Appena la donna si accorse della presenza di suo figlio, lasciò i fornelli e corse con agilità olimpionica ad abbracciarlo, a baciarlo, a riempirlo delle più disparate domande senza riprendere fiato e senza dare a lui il tempo di formulare una risposta. Non le interessavano le risposte. Non le importavano ora che il suo secondogenito era lì. Tuttavia aveva bisogno di farle, quelle domande perché le aveva tenute per sé per troppo tempo. Suo padre rimase seduto. Lo guardò. Gli fece un cenno col capo. - Oh - mugugnò simulando distacco, senza togliere gli occhi dalla sua preziosa schedina. Un sorriso balenò per una frazione di secondo sul suo volto dignitoso e grave. - Oh - rispose Safar con lo stesso cenno del capo e il medesimo apparente disinteresse. Era il loro modo di salutarsi; lo era stato per anni. Troppo - maschi - per mostrare affetto in maniera plateale. Dietro quell'unico monosillabo, dietro quell'impercettibile cenno del capo, però, c'era un mondo, un non detto che solo lui e suo padre conoscevano. - Mi sei mancato. - - Anche tu. - - Ti voglio bene. - - Anch'io. - Sua madre, da impeccabile donna del sud qual era, ogni volta che il figlio tornava a casa, la donna ripercorreva gli anni a ritroso cucinando ogni pietanza per la quale lui, nel corso della sua vita, avesse mostrato gradimento. Così, suo malgrado, Safar si trovava puntualmente a mangiare leccornie di cui non ricordava nemmeno l'esistenza solo perché magari - in quarta elementare ti piaceva - . Guai, poi, a lasciare il cibo nel piatto: un delitto punibile con la pena capitale nel Sud Italia. Terminato il pantagruelico banchetto, Safar si diresse appesantito verso quella che era stata la sua camera. Il suo magnifico lettone ad una piazza e mezzo, la sua panca per gli addominali comprata ed utilizzata per meno di un anno, la sua sterminata collezione di manga giapponesi. Tutto era lì, proprio come lo aveva lasciato anni prima. Si precipitò verso la sua libreria, un grande mobile di legno stracolmo di libri, ed iniziò a rovistare frenetico ed impaziente fra le centinaia di testi presenti, mettendo a soqquadro la camera. Dopo mezz'ora di estenuanti ricerche – nelle quali era sicuro di aver smaltito tutto il pranzo – riuscì a riemergere dalla catasta di libri sotto cui si era seppellito. In mano, il tanto bramato quaderno. In viso, un sorriso vittorioso. Lo aprì, e di colpo una violenta folata di vento gli sbatté in faccia. Vento di ricordi, vento di avventura: la sua grande avventura.
Giuseppe Natuzzi
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