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Autore: Stefano Zampieri
Prigionieri della libertà
Romanzo distopico critico
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Prigionieri della libertà
Mi rendo conto che questa situazione deve aver fine. Deve per forza. Per la forza stessa del destino che mi ha trascinato, un giorno, fra le mura di questa prigione. Ma io non posso accettare di restare chiuso qui dentro. Uscirò, me ne andrò. Libero o morto. Tertium non datur. Ho cominciato, fin dal primo momento, a valutare le azioni che avrebbero potuto portarmi fuori di qui. Fin dal primo momento. È così. So che posso agire, e qualcosa dentro di me dice che devo farlo. Non avrò mai la forza di accettare la mia condanna. Non è attraverso di essa che si manifesta la mia ragione, non in essa potrò ottenere, socraticamente, la mia vittoria. Per questo non l'accetterò. E non berrò così serenamente la loro cicuta. Cosa farò, allora? Questo è ancora da stabilire. Ma il dettaglio si fisserà poco per volta. Non avrò mai il coraggio, la certezza, la grazia di essere un Cristo in croce. Non ho la vocazione del martire, né l'illuminazione del santo. Quel che sono è quel che faccio. E la mia umanità è qui con me tutta intera. Con tutta la forza possibile, e tutta la debolezza. Certo è paradossale che prima ancora di spiegare la mia situazione, io sia qui intento a disfarla. Ma, d'altra parte, nulla più che un desiderio, un'intenzione, un'ipotesi. Non mi è concesso altro in questa situazione. Non sono esattamente io quello che può decidere. Eppure, il sentimento è chiaro. Il mio rifiuto, intimamente dentro di me (anche perché non ho e non avrò molte occasioni per esternare i miei sentimenti), resta chiuso e solido come una roccia. Se qualcuno condannandomi a questa pena sperava di cambiarmi, di farmi mutare, di farmi accettare qual che rifiuto, ebbene si è sbagliato. Posso dirlo già ora e a voce ben ferma. Non cambierò idea, non cambierò io stesso. E se ne avrò l'occasione fuggirò di qui, senza guardare in faccia nessuno. Non mi avrete. Si dice così, vero? Bene, molto bene. Per iniziare era necessario dare una prova adeguata di presunzione. Una pagina che si doveva scrivere. Poi si torna ad essere quelli di sempre. Ma l'onore è salvo. *** Sono prigioniero. Come soffro nel momento in cui dico queste parole, solo semplicemente dicendole. Basta dirle, cioè, per replicare infinitamente quella sofferenza e renderla eterna. Eppure è così, sono prigioniero. Tutto il resto dipende dalla storia, dagli eventi, dai conflitti, dagli uomini e dai difetti degli uomini, o dai loro pregi. Dalle mie ostinazioni, dalle mie ragioni (dai miei torti). Dai torti (dalle ragioni) degli altri. Tutto bene, ma non è questo. Sono prigioniero: è sufficiente questa affermazione per dire qualcosa di definitivo che non posso mutare facilmente (che non posso mutare tout court?). Affermazione che è anche, insieme, descrizione di una realtà. Realtà che ricorda quella di un monumento che si mantiene immobile nel tempo, sotto la pioggia e sotto il sole, mentre il mondo tutt'intorno cambia. Tu sei qui e fuori impazza la vita, uomini e donne e bambini e giovani e vecchi vivono il loro tempo, incrociano le loro fatiche, confondono le loro gioie, seguono reciprocamente i loro movimenti, diventano ognuno la propria vita e tutti insieme una Storia, e perfino una civiltà. Mentre io, qui dentro, tengo salde le pareti della mia cella con lo sguardo attonito del prigioniero, perché non mi crollino addosso. E sconto tutta intera la mia pena.
Allora, lo sai perché sei qui? Lo sai, ma non vorresti parlarne. In fondo, da un punto di vista molto generale, non è necessario parlarne. Si può partire anche dalla semplice constatazione: mi trovo qui e di qui non posso uscire. Certo qualcuno potrebbe volerci mettere una valutazione morale: c'è un reale motivo? C'è una colpa precisa? Ma a voler seguire questo sentiero, ci si troverebbe in un labirinto di ragioni e di punti di vista e di interessi, nulla che ora ci possa aiutare, nulla, soprattutto, che ci possa portare fuori di qui. Allora tanto vale non prenderla affatto una simile direzione. In fondo, sono qui perché non posso stare fuori. Non posso più condividere la stessa aria, lo stesso spazio, la stessa leggerissima libertà con gli altri. Con tutti quelli che si adattano a questa situazione, con tutti quelli che la accettano, e con quelli che l'avversano, ma con tanto sano buon senso, con la giusta dose di ragioni e di torti, con posatezza e misura. Soprattutto con misura. Ho perso il senso della misura? È questa forse la mia colpa? Soltanto metafore. Letteratura. Non è certo quella fissata dal tribunale. Ma io so che non posso condividere lo stesso spazio e lo stesso tempo con quanti osservano quel che accade lì fuori, come se osservassi la pioggia al di là del vetro. E anche se so bene che questa non è una scelta, so anche che non c'è scelta. E non voglio, non posso, disfare la contraddizione. Sono qui perché non potrei mai restare lì fuori. E ciò basti, per ora. Con questo ho di nuovo saziato la mia coscienza e il mio onore. Ora, è chiaro che se mi trovo qui, in questa prigione non è esattamente per una mia lucida consapevole scelta. Non si rinuncia così facilmente alla libertà. Te la devono piuttosto strappare dalle mani. E così, infatti, è successo a me. Se ne avevo una briciola me l'hanno portata via di forza, e non ho potuto impedirglielo. La mia libertà, qualcuno l'ha presa e l'ha gettata via. Ho un documento firmato da Vittorio Umberto III, lui in persona, il quale ha letto approvato e sottoscritto la sentenza che mi ha portato qui. Lui che non mi ha mai visto in faccia e non sa nemmeno che esisto. Per lui sono e sarò sempre e soltanto un foglio che qualcuno gli ha fatto firmare una mattina, insieme ad altri cento, mentre un servo gli lucidava gli stivali. Ma la sua firma è quella che conta. La sua forza è lì, ed è quella che mi ha tolto quella poca libertà che avevo in me. Ora sono prigioniero. Chiuso qui dentro. Mentre fuori c'è il mondo che io ricordo e quello che posso soltanto immaginare.


***
Devo considerarmi un uomo fortunato perché la mia sofferenza non è tortura? Strana forma di fortuna. Certo nessuno ha tentato di strapparmi le unghie, nessuno mi ha ficcato un ferro rovente nella carne, nessuno mi ha colpito sul volto o sui genitali coi pugni o con la punta di uno stivale. Ma per questo, forse, la mia sofferenza deve considerarsi poco percepibile? Come faccio a spiegare tutto il dolore che provo dentro questo spazio e questo tempo ristretti, costretti, deformati, sottratti al mio controllo? E non è dolore metafisico, né sensazione che ristagna in qualche palude dell'immaginario. È dolore del corpo, è sofferenza della carne. Non si può facilmente spiegare a chi non l'ha provato, cosa significa questo annientamento delle possibilità, questa cancellazione del mio potere di uomo, questa dolorosa mancanza d'orizzonte che sottrae al prigioniero lo sguardo sul mondo, che cancella il mondo stesso. E il prigioniero così ristretto non è più l'uomo che era, è un uomo strappato da un dolore infinito che lo affligge nella carne, nelle ossa. Una ferita gli si è aperta, che soltanto ritornando nel mondo potrebbe richiudersi. E non è certo. Perché ci sono ferite che una volta aperte non possono più rimarginarsi. E se anche ora potessi andarmene da qui, il dolore patito resterebbe nel mio corpo per sempre, una cicatrice, ogni volta che la sfiori tutta la sofferenza torna fuori, viva e dolente come il primo momento. Il prigioniero sa che il suo destino è segnato. È segnato per sempre, indipendentemente dalla fine (o meno) della sua prigionia. Ora non sono più quello che ero, il marchio d'infamia mi pesa addosso e non si cancellerebbe nemmeno se uscissi di qui con tutti gli onori (ipotesi che non si realizzerà). È questa la mia tortura. Non solo il dolore fisico dell'isolamento, non semplicemente la forza della costrizione, il veleno del rancio, l'odore dei guardiani, l'ossessione della silenziosa ora d'aria, non soltanto l'incubo delle urla lontane o l'angoscia per il tempo che non passa mai e sembra fermo e immobile, sospeso a mezz'aria qui di fronte a me, mentre un altro tempo passa là fuori e mi sfugge. Io non posso usarne nemmeno una briciola, di quel tempo che mi appartiene. Tutto questo è ancor più il segno che d'ora in avanti dovrò portarmi addosso, non scritto, non marchiato, eppure ancora più evidente e definitivo. Il segno del prigioniero. La traccia incancellabile della sua condizione. Chi è stato prigioniero, non tornerà mai più, veramente, uomo libero. La condanna, anche se breve, è definitiva. In questo senso, almeno, è per sempre.

***
Perché mi trovo qui? Qualcuno avrebbe parlato solo di questo, articolando così una difesa appassionata, e una dimostrazione d'innocenza. Io mi limiterò a indicare una situazione, perché è giusto - sapere - . Anche se solo, diciamo così, a grandi linee e anche se per me non è una spiegazione facile. Tutto è scritto nella Storia. Ma quella dell'ultimo mezzo secolo tende a diventare leggenda ormai. A meno che la Leggenda non sia parte stessa della Storia e io sono propenso a crederlo. Già qualcuno la racconta arrotondando i fatti, ritoccando i contorni, mettendo in ordine i personaggi, anche quelli dai tratti più incerti. E la Storia a raccontarla diventa sempre meno attendibile, tanto più precisa e coerente quanto meno vicina alla realtà. D'altra parte se la Storia è il prototipo, qualsiasi racconto di essa deve essere considerato quale un modesto surrogato. E l'uno non è peggiore dell'altro. È chiaro che anch'io racconto la mia versione dei fatti. Quella che a me sembra la versione corretta, oggettiva, storica. So bene che non è del tutto così. Ma non ha importanza. Non potrei raccontarla diversamente, non potrei iniziare se non dall'inizio, ovvero dal momento in cui Vittorio Umberto I è salito al trono. Poi la Storia, e insieme a essa la Leggenda, si è consolidata, si è rafforzata, è diventata luogo comune, accettato, condiviso, a mano a mano che i re si sono succeduti sul trono. Oggi tutti conoscono questa vicenda. Le mamme la raccontano ai bimbi prima di dormire e le maestre la sillabano fin dai primi giorni di scuola. Qualcuno si chiede talvolta se è la Storia ad adattarsi alla Leggenda, o viceversa. Difficile dare una risposta. Ma la domanda in fondo è oziosa. Noi sappiamo che da Vittorio Umberto I al figlio Vittorio Umberto II, e poi al successore di questi, Umberto Vittorio Emanuele I e poi via via fino al settimo e attuale regnante, la Storia appare lucida e coerente come una scultura di bronzo. Come uno dei tanti monumenti che adornano oggi le nostre città. E questo è tutto. Da qui bisogna partire per dare una risposta alla domanda iniziale. Se io mi trovo qui è perché la Storia ha preso questa strada e non un'altra. Delle tante possibili, proprio questa. E in questa Storia il mio ruolo sfortunatamente è quello del prigioniero. Forse potremmo immaginare un'altra Storia, che fosse realizzazione di un'altra possibilità, ma sarebbe un esercizio accademico e abbastanza inutile, dal momento che si è realizzata proprio così. E per me, ora e per sempre, questa è la realtà: la mia condizione di prigioniero. Una condizione che si spiega appunto con questa Storia dei - sette Re - . A partire da Vittorio Umberto I che ha regnato parecchi anni prima che nascessi io, ed è stato il nostro primo sovrano, figlio di una condizione di benessere alla quale si doveva rispondere in qualche modo, con scelte fuori della norma, fuori della tradizione, secondo il principio che la ricchezza stimola la fantasia e induce il gusto per le cose eccentriche. La monarchia è stata la nostra stranezza di paese ricco e sazio. Una scelta avventata, forse, una di quelle scelte che si compiono per stanchezza, per una superficialità che viene dalla sicurezza di cadere sempre in piedi, dalla certezza di essere protetti, in fondo, dalla nostra stessa abbondanza. Anche se talvolta capita che le scelte si paghino oltre misura, oltre quel che ci si sarebbe ragionevolmente aspettati. Per questo, appunto, io sono qui. Io sono il segno che abbiamo pagato più del previsto, più di quel che potevamo aspettarci. Io che non ho mai scelto, che sono nato a cose fatte, quando già la serie dei sovrani era arrivata al numero quattro. Io ho pagato per qualcosa che non ho mai voluto. Ma è normale. È normale così. Ognuno di noi, individualmente, sconta un destino che solo in minima parte gli appartiene. Per il resto, la porzione più consistente, deve vedersela con il tempo e il luogo in cui si è trovato a vivere (gettato come un sasso tra gli alberi e le piante).

Stefano Zampieri

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