Un grido soffocato. Il buio. Mi alzo di scatto e mi metto seduto sul letto, poi sento le mani calde di mia moglie che mi accarezza la testa. - Ancora quegli incubi? - Sospiro. La rassicuro dicendole che sto meglio e che può tornare a dormire. Aspetto che si riaddormenti, poi mi alzo per prendere un bicchiere d'acqua. Ho ancora il petto che mi pulsa e il respiro troncato, ma il peggio è passato, almeno per questa notte. Mi accascio su una sedia in cucina e bevo, mandando giù ogni sorso con riluttanza, come se fosse veleno. Il mio stomaco chiuso ha deciso che non posso neanche dissetarmi. Questa è una di quelle tante notti in cui il ricordo si fa vivo, in cui il macigno che mi porto sulle spalle da una vita mi cade addosso e mi schiaccia. Cerco di pensare alla melodia che mia madre mi cantava da piccolo per farmi dormire, quella che sussurrava alla mia anima che potevo dormire sonni tranquilli, che tutto sarebbe andato bene. Inizio a cantarla tra me e me poi mi fermo: non me la ricordo. Il terrore mi assale: non voglio dimenticare. Non posso farlo. Mi alzo di scatto, meritandomi un forte giramento di testa, ma proseguo verso il mio studio. Apro il primo cassetto della scrivania, alzo il sottofondo e tasto il legno per cercarlo. Tiro un sospiro di sollievo: è lì. La mia ancora per il passato è rimasta dove l'ho lasciata. Sembra stupido pensare che qualcosa possa scomparire da un momento all'altro, ma per me non sarebbe la prima volta che accade. Tengo tra le mani quel piccolo carillon, lo accarezzo prima di abbandonarmi alle note che mi rassicurano. Lascio che le lacrime scendano, seguendo quella melodia così dolce e straziante allo stesso tempo. Ho quasi sessant'anni ma mi sembra di aver vissuto più di un secolo. Dentro di me porto il ricordo e la sofferenza di vite lontane che mi hanno sfiorato, ma soprattutto possiedo un dolore di cui non posso parlare a nessuno. La canzone finisce e le ultime parole mi muoiono in bocca. Il silenzio più assoluto mi avvolge e la solitudine torna a farmi compagnia. Vedo la luce della luna che entra dalla finestra riflettere sulla scrivania e accarezzarmi gli occhi, dolcemente. Sorrido e mi asciugo le lacrime: da qualche parte esisti ancora e me lo stai urlando forte.
Ogni vita che vivrò
Ultimamente ho pensato molto alla morte, al fatto che possa raggiungerci in qualsiasi momento, inaspettatamente. Ragionandoci non ho troppa paura del momento in sé, quanto più di ciò che potrebbe succedere dopo: se avessi la certezza che non ci sia nulla, o che ci sia un'altra realtà in cui continuare a vivere, probabilmente sarei più tranquillo. Ma se ci fosse un'altra vita, una nuova esistenza da ricominciare? Non credo ne avrei il coraggio. Tutto ciò che ho vissuto, tutto il dolore che ho sofferto, voglio che siano gli ultimi che proverò sulla mia pelle. Sento che una vita è già abbastanza per me: mi spaventa credere che ci sia la possibilità di dover rivivere tutto ancora, e ancora, e ancora, senza nessuna coscienza di ciò che sono stato, milioni e milioni di volte. E se nascessi stupido? O arrogante? O debole, o solo? Che cosa mi succederebbe nei momenti di difficoltà se non ci dovesse essere alcuno che sappia dirmi che cosa fare? Sarei di certo una persona diversa e non voglio che succeda. Quando mi perdo in questi ragionamenti mi torna sempre in mente il suo racconto, le sue infinite vite che poteva scegliersi rimanendo sempre sé stesso, cambiando all'occorrenza ma avendo sempre coscienza di chi fosse e da dove provenisse. Il suo epilogo mi distoglie dal voler provare a vivere come lui, torno sui miei passi e mi riassesto sui binari che ho percorso per quasi venti anni. Oggi il paese è incredibilmente spento, c'è un sole forte ma è come se riflettesse sul ghiaccio: una luce accecante ma immobile, fredda, persa nel vuoto del silenzio. Prima mi piaceva passare del tempo da solo, adesso invece mi mette inquietudine. C'è un'ombra che cammina sempre al mio fianco, che osserva tutto ciò che faccio, che quando vado a dormire si insinua nei miei sogni e mi tormenta. Un'ombra di cui non posso parlare a nessuno perché per nessuno esiste, ma che ogni giorno mi graffia il cuore ed erode lentamente la mia stabilità, un pezzo alla volta, mangiandola coi denti del passato.
Caleb si mise a guardare il cielo, come faceva sempre mentre tornava a casa da scuola. Era il primo pomeriggio di un giorno primaverile, assolato e fresco. Le poche nuvole, che si muovevano lente, erano di un bianco candido e luminoso; era il giorno perfetto per sdraiarsi su un prato e sognare. - Ehi Caleb! - Si girò: era il suo migliore amico Mark, che gli corse incontro. - Ciao Mark - rispose lui, alzando una mano. - Come mai così di corsa? - gli chiese, vedendolo affannato. - Devo... assolutamente... dirti una cosa - rispose Mark, ansimando. Caleb sospirò. - Che cosa è successo? - - Hai presente la villa? - - Intendi... - quella - villa? - - Si! Ecco... Prima passando di fronte al fioraio ho sentito il proprietario che stava raccontando a un gruppo di bambini di aver visto, quando era piccolo, una luce rossa dalle finestre! - La villa era un'antica costruzione a cui nessuno nel paese sapeva dare un'età precisa. C'era chi parlava di decenni, chi di un intero secolo, e chi addirittura sosteneva fosse lì da sempre. Da ormai trent'anni era disabitata, posta in cima ad una piccola collina e collegata alla strada principale da un viottolo di breccia. Lo stile architettonico non era riconducibile a nessuno di quelli conosciuti: sembrava piuttosto che chi l'aveva costruita avesse un forte gusto per l'unione di fantasie diverse. Lungo tutto il perimetro murario erano presenti delle decorazioni dorate, mentre le grosse finestre ai lati mostravano dei vetri colorati che formavano un mosaico, ricordando molto quelli delle alte e maestose chiese gotiche. L'altezza della villa non era però eccessiva, anzi: aveva soltanto due piani. Un maestoso giardino le faceva compagnia, con grandi cespugli scuri posti in cerchio proprio davanti all'ingresso principale. In mezzo ad essi vi era un pozzo di pietra sul quale erano nati dei bellissimi fiori gialli e rossi, l'unica tocco colorato della villa. L'ultima volta che qualcuno vi aveva messo piede per trasferirvisi vi era rimasto solo qualche mese per poi andarsene in fretta e furia, visibilmente impaurito e provato e con tutta l'intenzione di allontanarsi da quel paesino per sempre. Da quel momento era iniziata a girare la voce che la villa fosse infestata: c'era chi diceva che fossero gli spiriti della famiglia che l'aveva costruita, che dopo anni e anni erano tornati per riprendersela e scacciare chiunque vi entrasse; altri sostenevano che il diavolo in persona vi avesse preso dimora e alcuni giovani del paese, considerati da tutti dei poco di buono, erano stati accusati di praticarvi messe nere. C'era poi chi diceva che nulla di tutto ciò era vero e che probabilmente la causa per cui quella famiglia se ne era andata non era affare delle chiacchiere. Nonostante ciò per diversi anni la villa era stata oggetto dei discorsi e della fervida immaginazione di tutti, per poi tornare ad essere ignorata come tutte le cose di cui si parla per troppo tempo. Erano quindi ormai più di venti anni che nessuno pensava più a quello che era accaduto, né più se ne era parlato, cosicché la villa era finita per diventare soltanto una casa abbandonata di cui nessuno si voleva prendere cura, lasciata lì a marcire in mezzo alle erbacce che avevano preso il sopravvento su quell'anima solitaria. Fino a quel momento. Caleb scosse la testa. - E tu ci credi? - - Perché non dovrei? Anche mia madre mi ha sempre parlato delle storie che si raccontavano anni fa, fin da quando ero piccolo! - - Mark, quel vecchio fioraio inventa sempre stupidaggini, sui suoi viaggi all'estero che non ha mai fatto, sulle avventure che non ha mai vissuto. Lo sai che cerca solamente attenzioni, è solo un'altra delle sue bugie. - - E le storie che mi raccontava mia madre? Che mi dici? - - Le conosco anche io, ma sono leggende, cose che si raccontavano ormai parecchi anni fa, quando la gente credeva quasi a tutto... - - Ma dovevi vedere la sua faccia quando stamattina lo ha raccontato! Il solo ricordo lo sconvolgeva! - Caleb alzò gli occhi al cielo, poi scrollò le spalle. - Mi dispiace, non credo a queste cose, e lo sai - . L'amico lo guardò torvo e un po' deluso, ma un momento dopo riprese il suo entusiasmo. - Beh, comunque sia, volevo proporti di venire con me oggi pomeriggio per andare a controllare! - Caleb spalancò gli occhi, incredulo. "Scordatelo" rispose secco. - Bell'amico che sei! - - Non sprecherò un pomeriggio della mia vita dietro a delle stupide storie - . - Hai paura? - - Io? Ma che stai dicendo? - - Tu non vieni perché hai paura! - - Oh smettila, ti prego! - - Allora dimostra che non hai paura e vieni con me. Oggi. Se non c'è nulla di strano, giuro che non tirerò più fuori l'argomento. - - Mio dio... - - Dai, non ti costa nulla! - Caleb sospirò. L'amico era un osso duro, e non si sarebbe arreso facilmente. - Va bene - disse infine. - Ma non oggi, devo sistemare alcune cose in casa. Domani. Ok? - - Grazie! Va bene! Ora scappo a casa. Ci vediamo domani! - - A domani. - Il ragazzo guardò l'amico allontanarsi soddisfatto e tornò sui suoi passi. - Ma tu guarda se deve ancora credere a queste cose - pensò, sbuffando. La strada che faceva tutti i giorni gli imponeva di passare proprio davanti alla via che conduceva verso la villa, e mentre era lì davanti si fermò a guardarla. Per la prima volta in tutta la sua vita si accorse di quanto sinistro fosse il suo aspetto e un brivido freddo gli attraversò la schiena da cima a fondo. Distolse lo sguardo e proseguì, cercando di ridere di se stesso per quella stupida reazione. Non ci riuscì.
Tornato a casa buttò lo zaino per terra e si sdraiò sul letto, con lo sguardo fisso verso il soffitto. Era davvero stanco e quando pensò alle cose che aveva da fare nel pomeriggio si sentì ancor peggio. Chiuse gli occhi, cercando di dormire, ma non appena le palpebre si toccarono rivide davanti a sé la villa e di nuovo quella sensazione di paura lo attanagliò. Riaprì velocemente gli occhi e vide sua madre sulla porta della sua camera. - Tutto bene tesoro? - gli chiese. - Sì, è tutto a posto, sono solo un po' stanco. - - Beh, mi dispiace ma ormai avevi promesso che mi avresti aiutata a mettere in ordine le cose in soffitta. Se iniziamo subito poi avrai tutto il tempo per riposare! - Caleb si alzò con fatica dal letto e raggiunse sua madre che era già salita al piano superiore. Iniziarono a sbarazzarsi di vecchi quaderni e libri delle scuole elementari e medie, poi rimisero in ordine gli album di foto e i vestiti invernali che ormai non servivano più. C'erano scatoloni pieni di vecchi giochi che con malinconia il ragazzo sigillò con dello scotch, e altre scatole con borse e vecchi cappelli che sua madre era solita mettere quando era più giovane. In un alto scaffale stavano decine e decine di libri che ormai nessuno leggeva più, di molti dei quali Celeb non conosceva nemmeno l'esistenza. Incuriosito, volendo cercarne uno che sembrasse interessante da leggere, iniziò a scorrere con lo sguardo i dorsi finché non incappò in uno nel quale non vi era scritto alcun titolo. Lo tirò fuori e neanche davanti c'era scritto nulla. La copertina era rigida, di color verde scuro. Guardandolo meglio Caleb si accorse che non era affatto un libro. - Mamma! Che cos'è questo? - Un sorriso malinconico attraversò le labbra della donna. - È il diario di mia nonna. Non credevo ci fosse ancora. - - Lo hai mai letto? - - No, anche se avrei tanto voluto farlo. La tua bisnonna è morta poco prima che nascessi tu e quando siamo andati a svuotare la vecchia casa della sua famiglia per metterla in vendita mi è capitato tra le mani. Tutti credevano che fosse un quaderno di suo padre, ma scorrendo velocemente le pagine ho capito che era di Agnes. L'ho portato qui in casa ma leggerlo era l'ultima cosa che avrei pensato di fare in quel periodo. Poi gli anni sono passati, e me ne sono dimenticata. - Caleb se lo rigirò tra le mani e scorse velocemente le pagine. - Posso? - chiese, rivolto a suo madre. - Certo, ma trattalo bene. Lo considero un cimelio di famiglia. - - Tranquilla, mamma. - Il ragazzo era sempre stato affascinato dai ricordi e dal passato. Credeva che ci fosse qualcosa di magico in quello che non avevamo vissuto, perché si poteva anche credere che non fosse vero e inventare il finale delle storie. C'era quel senso di indefinito, di distante, che lo faceva sentire leggero e gli permetteva di andarsene dal presente ogni volta che voleva. E così, anche se le giudicava prive di fondamento, in realtà rimaneva spesso ad ascoltare le storie del fioraio che aveva preso in giro. Che male c'era nell'usare un po' di fantasia? In qualche modo quell'aura di finzione riusciva a farlo stare bene, a portarlo in posti che non aveva mai visto e che probabilmente mai avrebbe visitato. Ora, con quel diario, avrebbe potuto ricominciare un viaggio verso nuovi luoghi.
Marina Londei
Biblioteca
|
Acquista
|
Preferenze
|
Contatto
|
|