Villerose, 2017 Scendo dalla macchina ferma sul bordo della strada alberata, la frescura ombrosa mi procura un brivido. Non sono ancora arrivata a destinazione ma sento il bisogno di camminare. Raggiungo la targa blu sbiadita e un po' sghemba, proprio come la ricordavo. Comunica agli sporadici viaggiatori di trovarsi a Villerose, un nucleo di anime posto al centro dell'Italia. Da ragazzina, il nome della località mi faceva immaginare dimore antiche cintate da muretti resi ormai invisibili dall'edera, giardini colmi di varietà di fiori dai colori vellutati. Non è così, il borgo non ha mai posseduto ville di prestigio. Villerose è soltanto un'appendice del più conosciuto Borgorose dal quale dista appena un paio di chilometri. Sorrido. Quella delle rose sembra essere proprio una mania in questo lembo di terra. La casa bianca ed erosa dal tempo mi appare subito dopo la prima curva. Rallento il passo ma non mi avvicino; con un primordiale timore tessuto nella pelle, osservo da lontano: il gorgoglio dell'acqua che dal tubo ricade all'interno del trogolo è l'unico suono che si dilata intorno. Per il resto, tutto attorno è silenzio. Verde, blu vivido del cielo e silenzio. Sospinta da un'imprevista brezza, qualcosa si affaccia dalla finestra sul terrazzino al primo piano. É solo un lembo di tenda, rimasta ancorata come una piovra, che rivendica il suo diritto di appartenere a quella casa. Rimango lì, sull'altro lato della strada, mentre il telo di stoffa continua a sventolare come una bandiera di resa. Inforco gli occhiali con le lenti scure. Lo sguardo ha un infinitesimale black out e, in quell'esiguo lasso temporale, la mente scorge immagini disciolte. Il tessuto lacerato dal tempo pare l'abito di una sposa: un braccio teso lancia confetti di sotto, dove una donna, con un canestro appoggiato sulla testa, osserva un soldato che imbraccia un fucile. Ma è solo un flash, gli occhi protetti dai raggi del sole non vedono più i contorni distorti di quel tempo lontano. Lontano ma tramandato.
Villerose, 1943 Giovanna aveva deciso di concedersi una pausa dal lavoro. Era appena tornata dal lavatoio e stava appoggiata con gli avambracci sul davanzale della finestra, cercando di alleviare il dolore alle reni che si faceva sentire a intermittenza. Era inizio autunno ma quel giorno la temperatura era mite e la stagione s'intuiva soltanto dai colori delle foglie, almeno quelle che erano rimaste attaccate ai rami degli alberi. Giovanna stava proprio contemplando il rosso, il giallo e l'ocra di quelle superstiti, quando fu distratta dal calcetto nel ventre che il suo ospite decise di regalarle. Sorrise e con la mano screpolata a causa del bucato, accarezzò a lungo il grembiule di cotone tessuto al telaio da sua madre. Mancavano pochi mesi ormai. La scintilla di luce che si era accesa nei suoi occhi scomparve quando il pensiero di Salvo, suo marito, si sovrappose a quello dell'evento imminente. Non aveva sue notizie da più di un mese, da quando era partito per recarsi nelle campagne intorno a Spoleto per la raccolta stagionale delle olive. Qualche soldo in più non faceva certo male. Erano tempi difficili, anche se fino ad allora in quelle zone la guerra non aveva allungato la sua mano devastante. I contadini continuavano a vivere del loro lavoro faticoso: ciò che la terra offriva dava loro sostentamento. Le stalle, odorose di paglia e sterco, custodivano quanto c'era di più prezioso: mucche che producevano latte, maiali che davano carni, galline che facevano uova. La fame era una sconosciuta. - Livia, Vera, Adriano! Forza, venite. - Gridò Giovanna con tutto il fiato che aveva. I tre vivaci marmocchi andavano spesso a giocare nel boschetto, proprio sotto la carreggiata che si allungava di fronte alla loro abitazione. Oltre i prati, dove gli alberi di castagno la facevano da padroni, poco più in basso un ruscello scorreva tra sassi seminascosti da muschio. Lì, per i tre fratelli, fate, gnomi e maghi trovavano dimora nei tronchi degli alberi più vecchi, e le battaglie con fionde e ghiande erano all'ordine del giorno. Giovanna li vide risalire il dosso. Per caso, fecero la loro comparsa seguendo l'ordine di anzianità: il cappellino rosso della primogenita Livia, il berretto verde di Adriano e il fazzoletto a quadretti bianchi e gialli annodato intorno alla testa di Vera, dove la bambina aveva infilato alcuni ramoscelli. Ciò che li accomunava, oltre a un'ovvia somiglianza, era il colore delle guance che si erano arrossate a causa del gioco e dell'aria che andava raffreddandosi col calar della sera. Giovanna tirò un sospiro. Averli tutti e tre con lei la rassicurava. Li guardò, mentre ancora con il volto rosato, divoravano le tagliatelle impastate quello stesso mattino e condite col burro fuso. Il vapore caldo che saliva dai piatti riempiva l'aria, confortando come una carezza. Nico era il postino di Villerose. La natura non lo aveva graziato, donandogli un aspetto privo di qualsiasi attrattiva. I capelli rossicci e troppo radi per l'età, la pelle del volto rossastra e butterata a causa di una malattia, le spalle curve che rivelavano la gracilità del suo corpo. Tuttavia era instancabile: con la borsa a tracolla, recapitava ai più fortunati la corrispondenza che giungeva dal fronte. Conosceva di persona tutti i membri delle famiglie che vivevano nell'attesa di ricevere notizie dalle zone di combattimento. Nei pressi delle abitazioni cui non aveva niente da consegnare allungava il passo: non voleva leggere la delusione negli occhi di mogli, madri e padri di quei ragazzi che si trovavano a combattere una guerra che di sicuro non avevano cercato né, tantomeno, voluto. Fermo nella parte alta del paese, mentre sistemava le poche buste da consegnare, Nico venne distratto da un rumore inconsueto che sembrava provenire da dietro il curvone della strada sulla quale si affacciavano i primi fabbricati. Si fermò a osservare attento verso quella direzione, proteggendosi gli occhi dal sole con la mano tesa sulla fronte. Non vide niente. Fece per riprendere il suo lavoro ma il trambusto si fece più insistente, fino a quando lo udì in modo distinto: un calpestio ritmico accompagnato da rombo di motori. Le pareti sembravano sussultare all'unisono con l'incedere cadenzato. A mano a mano che si avvicinavano, diventava sempre più forte. Vera iniziò a piagnucolare mentre Livia e Adriano si presero per mano. Giovanna aveva capito. In quei giorni era giunta notizia di quanto già accaduto in alcuni paesi della Valle del Salto: gli ospiti che si stavano avvicinando non sarebbero stati graditi a nessuno. Restò immobile per un po', raggelata. Poi si fece coraggio e, accucciandosi sotto la finestra, spiò in strada attraverso le tende della cucina. Il contingente tedesco era avvolto da una nube: le motociclette e i camion sollevavano la polvere del terriccio arido della carreggiata. Erano circa una quarantina: le divise grigie, le armi e gli elmetti calati sulla testa, li facevano apparire ai suoi occhi possenti e minacciosi. Parlavano tra di loro con vocaboli incomprensibili, quando, appena oltrepassata l'abitazione di Giovanna, un comando urlato a squarciagola li fece arrestare. La donna sentì il cuore accelerare il ritmo, si voltò a guardare i figli: impauriti si erano rannicchiati sotto il tavolo. Col dito indice sulle labbra fece loro cenno di non parlare, poi sorrise per rassicurarli. Se Salvo fosse stato lì insieme a loro, lei non avrebbe provato così tanta paura. L'ufficiale che aveva fermato il convoglio si staccò dal gruppo e si avvicinò alle case, come se dovesse fare una scelta. Le mani unite dietro la schiena, le gambe allargate, le spalle ben erette: un dominatore, consapevole di quanto timore potesse incutere la sua presenza. Un gatto sgusciò da sotto una legnaia e attraversò la strada. La sua breve corsa fu arrestata da un colpo di pistola e, mentre la bestiola restava in una pozza di sangue senza nemmeno aver avuto il tempo di emettere un miagolio, l'ufficiale in comando ripose con calma l'arma ancora calda nella fondina. Poi si avvicinò a passi lunghi alla prima dimora del borgo. Ad appena un paio di metri dalla porta, il capitano latrò alcune parole: alcuni militari si staccarono dalla colonna e lo raggiunsero. Con tre falcate fu davanti all'uscio: colpì col pugno un paio di volte.
Isabella Nicora
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