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Autore: Sergio Costa
Apri gli occhi e porta le mani alla fronte
Autobiografia
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Apri gli occhi e porta le mani alla fronte
E' un bel pomeriggio di primavera inoltrata, il sole è alto e la luce che filtra dalle persiane è forte e illumina tutta la camera da letto. Guardo il soffitto bianco della stanza, lo fisso a lungo. Quanto avrò dormito? Non più di tre o quattro ore. Fare il turno di notte al lavoro mi devasta, ne ho già fatti tre consecutivi, ancora due e poi potrò smettere di essere un pipistrello per qualche giorno. Mi alzo, non ho voglia di mangiare, ho lo stomaco chiuso e non ho fame. Devo riprendermi, mi ci vuole una doccia. Mi guardo nello specchio del bagno, ho una faccia magra e tirata, anche se porto i capelli molto corti, rasati sui lati è un poco più lunghi sopra, il grigio ormai predomina sul castano: sto invecchiando velocemente. Tolgo gli occhiali, mi metto sotto il getto d'acqua, appoggio le mani sulle piastrelle davanti a me e rimango immobile per alcuni minuti, non riesco neppure a pensare. Un caffè e poi la mia adorata compagna quotidiana: la sigaretta. Dovrei ridurre, sono arrivato a fumarne un pacchetto e mezzo al giorno ma non riesco, non ce la faccio proprio. Il fatto è che fumo da tanto tempo e poi mi piace, mi rilassa, non solo sentire il fumo scendere nei polmoni, ma tutta la gestualità che l'accompagna è un vero e proprio rito per me anche se in questo periodo, a dire il vero, il fumo non riesce a darmi il piacere di un tempo, tutto non riesce più a darmi il piacere di un tempo. Saluto Rosy, è sul divano a sfogliare una rivista, c'è molto silenzio in casa. Dopo il caffè come mio solito mi piazzo davanti alla porta finestra della cucina aspirando grosse boccate di catrame e nicotina di cui sono piene le mie MS, guardo la roggia che passa affianco al cortile. Ci sono dei germani che starnazzano e litigano rumorosamente, una gallinella d'acqua nera con il becco arancione si intromette nella disputa me viene scacciata. Uno scoiattolo percorre la rete che divide il cortile dal canale, è davvero agile ed un grande equilibrista. In lontananza sento il gracchiare dei corvi e il canto delle gazze di cui sono popolati gli alberi circostanti. Eppure qualcosa non va, è tutto così buio e vuoto, niente di quello che guardo o sento sembra interessarmi, osservo quello che mi circonda ma non vedo niente, è tutto piatto e scuro. Sono giunto alla conclusione che il nero che mi circonda faccia parte di me, sia dentro di me. Devo decidermi a fare un salto dal mio medico, magari mi faccio dare una decina di giorni di malattia cosi da potermi riposare, mi sento molto stanco in questo periodo, anche Rosy dice di non vedermi affatto bene. Provo a distrarmi con la musica, non solo ascoltandola ma facendola. Mi è sempre piaciuto mixare e remixare le tracce che hanno fatto la storia della dance negli anni 80 e 90. Prendo il pc e preparo il tutto: Hard disk esterno, cuffie ed una pila di cd. Certo una volta quando avevo i piatti ed il mixer a casa di mamma mi divertivo molto di più: segnare le battute su ogni vinile dopo averle contate tenendo il tempo col piede, posizionare il disco sul piatto facendolo vibrare tra le mani per togliere l'elettricità statica, rallentarlo con le dita, regolare i pitch...era veramente bello, come del resto era bello avere vent'anni o poco più. Niente da fare! Non azzecco uno stacco o un'entrata oggi, sto sbagliando tutto. Meglio spegnere il pc. E' già pomeriggio inoltrato tanto che Silvia è tornata da scuola. Caspita come vola il tempo, è in seconda liceo, liceo scientifico con scienze applicate. Io non ci sono mai arrivato in seconda superiore, ho fatto una volta e mezzo la prima per poi ritirarmi ed andare a lavorare in negozio con papà. Un anno di ITIS più 5 mesi di geometra che non sono serviti assolutamente a nulla, se almeno i miei mi avessero lasciato provare a fare un istituto professionale come avrei voluto, invece niente, erano fissati. Ricordo ancora quando ho esposto l'intenzione di ritirarmi da scuola, le grida di mio padre. Ho smesso di frequentare di sabato e il lunedì già lavoravo in negozio con lui. Prendevo quattro mezzi per andare e quattro per tornare, un'ora e mezza per ogni viaggio, non avevo ancora 16 anni, li avrei compiuti a breve. I miei si erano separati da sei anni: abitavo con mia mamma e mio fratello maggiore e lavoravo con papà. Eppure nonostante tutto erano tempi bellissimi, felici, spensierati.
Provo a leggere un libro, vediamo se riesco a riprendermi. Una nuova avventura del detective Harry Bosh: - Lame di luce - . L'ho iniziato già da qualche giorno ma non ricordo nulla, assolutamente nulla. Niente da fare non riesco neppure a leggere, la mia concentrazione è uguale a zero, le parole e le frasi non hanno alcun senso, mi distraggo continuamente. Meglio uscire a fare quattro passi e magari mi sparo un altro caffè. Mi vesto lentamente, camicia, jeans e scarpe da ginnastica: la mia divisa quotidiana. Eccomi al solito bar: caffè e quattro pacchetti di MS morbide. Mentre cammino penso, torno indietro nel tempo, ricordo il servizio militare, a quell'anno passato in Friuli a più di trecento chilometri da casa a diciannove anni, come mi sentivo forte a quei tempi, potente...invincibile. Penso a quando mi sono congedato, ai pianti fatti con amici con cui ho condiviso giornalmente ogni cosa e che non avrei mai più rivisto. Penso alla mia prima macchina, una Giulietta 2000 TI rosso fuoco ed al soprannome che le avevano dato gli amici: - La macchina da rapina - . Anche lì mi sentivo forte, potente e...immortale. Quanto mi mancano quei tempi.
Torno a casa, non ho ancora fame, ma qualcosa devo pur mangiare, ho già perso abbastanza chili in quest'ultimo periodo e devo sforzarmi. Un piatto di pasta al sugo, l'ennesimo caffè e poi mi sdraio sul divano ad aspettare le 22.00 per uscire ed andare a lavorare. Ecco se penso al lavoro lo stomaco che già era chiuso si tappa ancora di più. Non mi è mai piaciuto molto ma ora faccio davvero fatica a svolgerlo. Sono arrivato all'alba dei cinquant'anni per fare il turnista in una multinazionale, mai avrei pensato di finire così: tuta da lavoro, scarpe antinfortunistiche, guanti, elmetto e colleghi particolari. Sono ormai due anni che quel cazzo di egiziano che mi hanno messo in turno si rivolge a me chiamandomi - capo - . Ma capo di che? Ormai sono più gli stranieri che gli Italiani nel mio turno ed ho anche la responsabilità su di loro essendo preposto aziendale.
Che vita vuota la mia, che futuro posso avere? Ho fatto troppi errori, ne ho inanellati uno dopo l'altro. Ma vale davvero la pena proseguire in questa maniera? Non ne azzecco una. Il passato...quello sì che è valso la pena essere vissuto. Ok, ora provo a rilassarmi un po' ascoltando la musica con il lettore mp3. Non dormo e non riesco a rilassarmi, mi sento inutile e solo, molto solo. Ho una moglie ed una figlia che adoro ma questo non basta a fare luce nel corridoio buio che mi avvolge. Continuo a pensare al passato, alla mia prima ragazza, alle cavolate fatte con Michele e Vladi. Michele...ecco non dovevo pensare a lui, sono quasi sette anni che è partito per l'ultimo viaggio, il viaggio da cui non si torna più indietro. Gli volevo davvero bene, non era solo un amico, per me era un vero fratello, cresciuti nello stesso cortile, eppure nel giro di un anno quella maledetta malattia l'ha mangiato. Sempre insieme io lui e Vladi: amici da sempre...per sempre amici!
E' arrivata l'ora di prepararmi, devo uscire. Io in ditta arrivo sempre prima, devo organizzarmi il lavoro cosi poi quando monto di turno, è tutto pronto e non ho sorprese; poco importa se per alcuni colleghi sono un pirla che regala ore di lavoro all'azienda, a me piace avere tutto sotto controllo.
Uscire di casa alle 22 per andare a lavorare è davvero pesante, non ne ho voglia e faccio una gran fatica a vestirmi. Saluto Rosy e Silvia ed esco. C'è silenzio nel corsello box, guardo le luci accese alle finestre, la gente è a casa tranquilla a godersi la famiglia, non io, io devo andare a lavorare in fabbrica. Osservo in garage la mia Focus nera prima di salirci, ne seguo con le dita della mano destra il profilo sulla fiancata fino alla maniglia. Sento il rumore della centralizzata aprirsi e le frecce lampeggiare. Salgo in auto. Guido lentamente, mi sembra di essere appannato, opaco, di non avere i riflessi pronti, i miei tempi di reazione si sono di molto allungati ultimamente. Percorro la strada che mi porta a Cusago senza vederla, sto guidando male, sono distratto. Ci sono parecchie mignotte in attesa dei clienti sul viale. Come sono cambiati i tempi, una volta erano seminude davanti al fuoco acceso per scaldarsi e farsi notare, ora aspettano in auto: al caldo in inverno ed al fresco d'estate. Quante volte da ragazzini ci passavamo davanti in motorino la sera prendendole in giro, e come si arrabbiavano e ci insultavano.
Questo maledetto semaforo non lo becco mai verde, che palle, sempre rosso. Mi incanto a fissarlo, ho la mente offuscata, guardo il semaforo ma non lo vedo, sento che non sto sbattendo neppure le palpebre. Scatta il verde: distolgo gli occhi dal semaforo ma il mio sguardo rimane fisso nel vuoto, continuo a guardare senza vedere niente. Schiaccio il pedale della frizione ed ingrano la prima, poi la seconda, terza, quarta, quinta, ora sono in sesta, il conta chilometri segna 120, questo tratto di strada è tutto diritto, non mi interessano i cartelli che indicano il limite posto a 50, non li vedo proprio. Il piede schiaccia ancora l'acceleratore ...130, 150...la curva secca a destra si sta avvicinando velocemente, per un attimo la mia mente si spegne del tutto, non voglio lasciare il gas, non voglio sterzare, devo proseguire dritto contro il guardrail e poi nel canale per porre fine a tutto questo. Il cervello all'improvviso torna ad avere un minimo di lucidità, metto il piede sul freno facendo intervenire l'ABS, l'auto si scompone tutta ma cerco di tenerla e portarla sulla banchina a destra della strada. Sono fermo, se avessi tardato ancora un poco, ora sarei nel canale. Arresto il motore, scendo dall'auto, mi tremano le gambe, fatico a stare in piedi e sento i reni spezzarsi dal male. Frugo nella tasca della camicia ed estraggo il pacchetto di sigarette. Me ne accendo una ed inizio a piangere. Piango forte, sento le lacrime scendere sulle guance ed il sapore del sale sulle labbra. Mi bruciano gli occhi e non vedo più nulla, mi scotto le dita, la sigaretta è finita e la brace viva è arrivata alla pelle. Accendo subito un'altra sigaretta. C'è qualcosa in me che non va, mi vergogno di quello che è accaduto, non posso aver pensato una cosa simile, anche solo per pochi attimi ma l'ho pensata. Ho bisogno d'aiuto, si ho bisogno di essere aiutato ed anche velocemente.

Sergio Costa

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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