Ala, l'Inventore di Divinità, viveva sulla cima di un'alta montagna, dove oltre a lui non c'era anima viva. Nemmeno le aquile e gli altri uccelli delle vette amavano spingersi fino a lì, perché i tuoni rimbombavano troppo forti e vicini, i venti passavano urlando strani segreti nei crepacci nevosi, i fulmini guizzavano rapidi come fruste giù dalle rocce e verso la pianura. Le nuvole vorticavano intorno a quegli speroni di pietre aguzze, formando un basso soffitto bianco sulla testa del vecchio scultore oppure un ingannevole pavimento davanti ai suoi piedi, creando l'illusione che nel vuoto ci fosse qualcosa di materiale. Lassù in effetti non era facile dire che cosa fosse reale e che cosa no, perché l'aria era rarefatta e la luce simile a una sottile lamina di vetro. Quella era la ragione per cui i rapaci stavano alla larga sempre, non solo durante le tempeste. Ala non era il nome che gli era stato dato alla nascita. L'aveva scelto lui, poiché comunque sentiva di aver bisogno di una parola per indicare se stesso, e aveva deciso di usare quella perché la giudicava la più simile al suono del sole che appariva sopra l'orizzonte, all'inizio della giornata. Aveva provato a domandare alla neve che cosa pensasse di quel nome, ma la neve non aveva risposto e gli aveva restituito il suo sguardo con indifferenza, come uno specchio in cui non si rifletteva nulla. Un tempo aveva avuto un nome normale, una vita normale, laggiù, oltre le pendici della montagna, in una delle città umane che viste da quell'altezza somigliavano soltanto a confusi rifugi di formiche. Era stato un artigiano, un marito e un padre, come tanti prima di lui a partire della nascita del mondo, per un gruppo di clienti, una donna e un bambino che ormai dovevano essere morti da secoli. Aveva abbandonato tutto per ritirarsi in completa solitudine, lontano dalla gente e più vicino alle realtà supreme, dimenticando il sapore del pane ma imparando a conoscere quello delle stelle alpine, delle erbe di montagna e dei licheni. Viveva in una grotta, avvolto in morbide pellicce. Di tanto in tanto, quando ne aveva bisogno, scendeva ad altitudini più modeste per procurarsi la legna per il fuoco e a volte scagliava frecce accompagnate da preghiere a un dio della caccia, riuscendo sempre a trafiggere gli agili stambecchi e caprioli. Era una vita molto semplice, perfino misera, specialmente per un uomo capace di creare divinità. Ma quello era il prezzo da pagare e lui lo faceva volentieri. Gli dei non potevano nascere in mezzo a ricchezze e comodità. Era stato il discorso di un sacerdote di Frezo, il Padre del Mondo, a fargli venire la voglia di costruire per sé quella nuova vita. Il sermone, ovviamente, nella testa di chi l'aveva pronunciato aveva avuto tutt'altro scopo, avrebbe dovuto ottenere un effetto opposto, perché i ministri e i fedeli di Frezo ritenevano che lui fosse l'unico dio esistente nell'intero universo, secondo quanto veniva insegnato nei templi di tutte le città in cui quel culto era l'unico ammesso. Il Padre del Mondo aveva infatti creato la terra e il mare nella vuota vastità che era stata poi chiamata cielo, e anche le piante, gli animali e l'uomo. Aveva fatto tutto ciò usando la sua ruota da vasaio, che gli aveva permesso di trasformare l'argilla in elementi naturali inanimati ed esseri viventi, e quello era il modo in cui veniva tradizionalmente rappresentato: un essere dall'aspetto strano, un po' simile a un folletto, seduto a gambe aperte mentre dava forma alla creta. Il suo disegno originale prevedeva la creazione anche di entità superiori all'uomo, che avrebbero potuto venir considerate esseri divini, ma dopo aver terminato la prima coppia di uomini Frezo si era sentito stanco, si era disteso sull'erba nel dolce sole del principio dei tempi, si era addormentato e aveva involontariamente dato un calcio alla sua ruota da vasaio. La ruota era ruzzolata giù lungo il fianco della montagna, andando a finire chissà dove e forse perfino rompendosi, perciò al risveglio il dio aveva deciso di non creare più nulla, di lasciare il mondo così com'era in quel momento. - Ecco perché non esistono altri dei - aveva concluso il sacerdote di Frezo, lisciandosi la barba nel silenzio attento del santuario. Ala, che a quei tempi era soltanto un uomo con un nome e una famiglia, si era alzato e aveva osservato: - Ma allora forse dovrem¬mo essere noi a creare gli dei! Se Frezo si è sentito stanco, si è addormentato e ha fatto cadere la ruota nel mondo sottostante, ai piedi della sua montagna sacra, forse sarebbe felice di sapere che noi stiamo portando avanti la sua opera. - - Che sciocchezza! - aveva tuonato il sacerdote. - Il Padre del Mondo non ha bisogno di aiutanti. - - Non ne ha bisogno, ma li potrebbe desiderare. - - No! Una simile idea è inammissibile, contraria agli insegnamenti di Frezo. - Ala si era seduto, in silenzio, perché sapeva che in quelle terre nessuno credeva ad altre divinità e chi osava mettersi contro Frezo poteva venire imprigionato, frustato o anche ucciso. Ma dentro di lui quel pensiero non era scomparso, aveva continuato a brillare come una fiammella. A parer suo non sembrava poi così irragionevole ritenere che un dio creatore potesse gioire vedendo altri unirsi a lui nell'opera di arricchire il mondo. Secondo il suo modo di pensare, chi creava si sentiva solo e desiderava non esserlo più. Da quel momento, Ala aveva iniziato a riflettere sempre più profondamente su quell'idea, fino a sentirsene ossessionato. Aveva iniziato a guardare le statue che si trovavano nei templi, nelle piazze, agli ingressi delle ville, nei cortili delle case, nei grandi giardini dei palazzi, senza sentirsene più soddisfatto: piante, uomi¬ni e animali, nient'altro, tutti belli ma non fino al punto di esaurire l'immaginazione di uno come lui. Aveva iniziato a pensare che forse le storie che venivano raccontate su Frezo non erano nemmeno reali, ma soltanto simboli, modi semplificati di comunicare un concetto. Quando quei dubbi e quelle speranze erano diventati certezze, Ala aveva deciso di abbandonare il lavoro, la famiglia e la città. Si era allontanato a notte fonda, senza fare rumore, con la testa e il viso coperti da un mantello, come se stesse scappando da una prigione. Correndo nei boschi e arrampicandosi poi sul fianco di una montagna si era sentito un'altra persona, e quando alla fine era emerso dalle nebbie e sbucato nel sole dei pascoli alpestri si era reso conto che il suo nome era stato lavato via, insieme a tutto il resto.
Per diversi giorni, Ala non pensò alla creazione di divinità. Si preoccupò di organizzare la sua nuova vita sulla montagna, imparando a conoscere bene l'ambiente che lo circondava. Per un po' si trattenne in una zona frequentata da molti animali, tra boschi rigogliosi e piccole valli che apparivano come macchie o squarci nella solenne maestosità del paesaggio. Lì non era troppo difficile procurarsi il cibo o trovare un riparo, era un luogo in cui di tanto in tanto giungevano pastori o cacciatori solitari e da cui si potevano osservare fili di fumo che salivano dai tetti scuri delle baite lontane, oltre gli abeti. Per un uomo di città era una sorta di allenamento, di addestramento per affrontare un mondo più semplice e selvaggio. Ala percorse sentieri e scoprì fonti cristalline, cacciò nelle foreste e pescò nei ruscelli. Si sdraiò al sole, passò interi pomeriggi tra l'erba soffice e le nuvole in volo, lasciandosi accarezzare dagli steli e dalle ombre, e ogni volta si rialzò sentendosi più saggio e più adatto alla vita sulla montagna. Fece provvista di cibo e di legna e poi, quando ritenne di essere pronto per salire ancora, si arrampicò fra le rocce. Giunse sulla soglia del regno delle nubi, che fino a quel momento aveva potuto osservare soltanto dal basso, da grande distanza. Il bagliore dei ghiacciai ormai non lo preoccupava, la caduta dei fiocchi di neve non gli faceva patire il freddo, l'immenso silenzio della vetta priva di abitanti non lo spaventava. Non era più l'uomo che aveva lasciato la città e abbandonato tutto, non ricordava più nulla di lui. Non era più nemmeno un uomo: adesso era Ala, l'Inventore di Divinità, felice nel suo isolamento che per un comune essere umano sarebbe stato insopportabile. Si sentiva pronto per cominciare a intagliare idoli, per tirare fuori dalla pietra le sembianze e i poteri di creature straordinarie. Aveva deciso di scolpire le sue statue, esseri diversi da quelli modellati da Frezo nell'umile argilla, usando i blocchi di roccia di quel luogo. A volte, quando camminava accanto a un masso, aveva l'impressione di sentire una voce molto debole che lo chiamava, e se appoggiava le mani sulla dura superficie percepiva una vibrazione. Era sicuro che sulla montagna si trovassero già grandi forze, invisibili e misteriose, a cui bisognava soltanto dare una forma, la forma che lui avrebbe deciso per loro.
Paolo Fumagalli
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