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Autore: Aldo Boraschi
Il tempo che faceva
Narrativa
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Il tempo che faceva
Incurante del calendario, che mostrava spavaldo la data del 6 novembre, il cielo aveva deciso di rallegrare gli abitanti di Senzunnome Lido con una bella giornata calda. Dicevano che sarebbe stato un autunno duro, freddissimo come non se ne era mai visto. Questo perché l'estate appena trascorsa era stata torrida. Una specie di legge della compensazione, che di questi tempi, però, pare non fare più presa nella realtà. Così, senza preavviso alcuno, un tiepido sole fece capolino su quello sperduto paese.
Una giornata corrusca, dopo giornate di pioggia e vento, mette sempre di buon umore. L'aria è tersa, limpida e cristallina, depurata da tutte le sue schifezze, e ti entra nei polmoni facilmente, senza nessuno sforzo, dandoti una meravigliosa sensazione di leggerezza. Tutti camminavano sereni. Da lontano, le colline si mostrano in tutti i loro particolari, non più offuscate dalla coltre di polveri e smog che impesta l'atmosfera, e il paese stesso è più netto, più definito e più reale. Più bello.
Senzunnome Monte, distante dodici tornanti dal Lido, è ammantata da una nebbia autunnale, umida e appiccicosa. Tutte le strade sono vuote. Il paese è panoramico, si possono vedere, volgendo lo sguardo a Nord, colline e colline a centottanta gradi. C'è una torre arcigna che domina la piazza. Il vento sferza le chiome degli alberi, sbattono le persiane. Il mare quasi non lo si vede, se non, di striscio, dall'apice della torretta.
Purtroppo, in passato, gli antichi governanti, credendosi più al sicuro, avevano elevato Senzunnome Monte a capitale amministrativa del paese.
Non fu una bella mossa.

Quel giorno la signora Rustichetti aveva finito il suo terzo KitKat e stava andando all'attacco delle merendine al cacao che teneva blindate all'interno dell'armadietto personale, fuori dalle grinfie del personale della casa di riposo - Bell'età - (e da quelle della sua compagna di stanza).
Nella stanzetta linda e profumata, appoggiate su un tavolinetto di formica, erano impilate delle vecchie riviste sfogliate e risfogliate, e il colore bianco della parete era interrotto da un quadretto rossastro che avrebbe dovuto essere un bosco d'autunno, ferito da un ruscelletto che scendeva lento. Completavano l'abbellimento della parete dei poster di scoloriti oceani e tre agghiaccianti dagherrotipi di pescatori. C'era una sola finestra, con le tende sottili parzialmente tirate, e più in là un cielo che appariva lontanissimo. Le mattonelle erano di graniglia, bianche e nere.
Sopra il letto della signorina Gelinda Rustichetti troneggiava, invece, un ritratto che le fece un artista quando ella era in giovane età. Porta i capelli tirati all'indietro, pettinati in uno chignon, che valorizzavano la sua pelle d'avorio. Nella tela, indossa una camicetta con il colletto ricamato e attorno al collo porta una collanina d'oro. Ha, appoggiata sulle spalle, una mantellina di velluto marrone che le copre parzialmente le mani. Sembra dire al pittore che l'ha immortalata di fare il possibile per rispettare la discrezione che ha contraddistinto la sua vita. Sotto al letto, custoditi dentro a una vecchia cappelliera ci sono un cappello da donna a falda larga di colore nero e un vecchio e consunto cappello da baseball.
Ora, alla veneranda età di ottantanove anni, è una bella signora; assomigliava ad una nonnina disegnata da Hanna e Barbera, con i suoi boccoli bianchi tendenti al blu, occhi piccoli, tondi e liquorosi, naso minuscolo e affilato. Era gentile, educata e spiritosa e non c'era nessuno che aveva un motivo per avercela con lei.
In quel preciso istante, stava chiedendosi quando la signora Pesce – la sua compagna di stanza - la finisse di parlare di quel suo nipote che è emigrato nelle Americhe e che era diventato qualcuno; qualcuno di veramente importante, rimarcava sempre con quel suo accento lombardo macchiato di inflessioni campane. Forse, concluse Gelinda, quando inizierà il quiz serale. Peccato che a quel imperdibile appuntamento mancassero due ore e trentacinque minuti. Così si rassegnò e divorò con pazienza la prima delle otto merendine al cacao in soffice pandispagna.
Perché Gelinda e la Signora Pesce avessero deciso di dividere la stanzetta assieme e perché, poi, fossero diventate amiche, non erano mai riuscite a chiarirlo. Quelle due signore anziane erano lontane anni luce sia caratterialmente, che come approccio con la vita e anche come tipo di frequentazioni. - La vita è proprio strana – soleva dire Gelinda parlando della sua compagna di stanza - D'improvviso ti trovi a condividere la tavola e il bagno con chi, fino a ieri, nemmeno ti salutava. Credo sia una prerogativa delle persone sole sapersi trovare - . Qualcuno getta funi invisibili intorno alle persone e le fa avvicinare, chiosava.
Il blaterare ossessivo della signora Pesce non impedì a Gelinda, tra un boccone e l'altro, di chiudersi nel suo proverbiale silenzio. Un silenzio nero, come quello di una grotta, che accorda su di sé, annullandosi, tutti i rumori del mondo. Quello stato le permetteva di concentrarsi.
Tra qualche giorno, infatti, era previsto l'incontro di tutta la popolazione con il sindaco di Senzunnome. Di mezzo c'era la ricostruzione del paese. O, meglio ancora, l'argomento era un generoso lascito di un emigrante del paese, che, però, avrebbe versato nelle casse comunali l'obolo solo ed esclusivamente ad una condizione. Al momento nessuno era a conoscenza dei particolari di questa condizione. Ma la storia di Senzunnome c'entrava senz'altro. Questo era certo.
Eh, sì, la storia del paese andava riscritta, dopo quel maledetto giorno che cancellò gli eventi passati. Una frana, una mastodontica massa di terra che, inaspettatamente, ammantò come uno spesso cappotto una parte dell'urbe. Fortunatamente, a quell'ora della notte, non c'era nessuno in quella zona del paese. La frana si fermò in tempo, proprio poco prima del centro abitato. Ma il municipio fu come mummificato e l'ufficio anagrafe diventò un sol blocco di argilla e sassi e alberi e detriti.
Era il 6 settembre del 1959. Da quel giorno a più riprese, tecnici specializzati provenienti da mezzo mondo, provarono a recuperare almeno una parte dei documenti che comprovavano l'esistenza del paese. Ma niente, tutti i tentativi andarono a vuoto. Anche l'esperto giapponese Mikado – fatto arrivare appositamente dal Sol Levante grazie ad una colletta tra i cittadini, raccolta durante le varie sagre di paese che si susseguivano durante l'anno - si arrese; dopo tre mesi di carotaggi, picconate, sciabolate, bennate se ne tornò nel paese del Sol Levante con le pive nel sacco. Neanche un foglio andò salvato.
Ora il paese si è dilatato verso la costa, assorbendo gli antichi nuclei sommersi dal fiume di fango. Qualche raro casolare è stato ristrutturato. La maggior parte fu abbattuto, lasciando posto ad anonime ville edificate – in barba a qualsivoglia regolamento geologico e/o urbanistico e/o buonsenso – da signorotti lombardi. Gli uffici anagrafici rimasero inevitabilmente inattivi fino al 6 gennaio del 1964, giorno in cui la nuova sede comunale – precauzionalmente spostata più a valle – fu inaugurata tra ali di cittadini festanti.
E per dare una data a un evento?
A quel punto non rimaneva che affidarsi alla memoria di chi, più di cinquant'anni fa, a Senzunnome viveva e conosceva l'incedere e i segreti di quel piccolo paese diviso tra mare e collina.

- E poi sai che cosa ha fatto? - la signora Pesce scrollò il braccio a Gelinda Rustichetti.
- Chi?
- Ma come chi? Stavi dormendo?
- No, mi ero distratta un attimo.
- Ma mio nipote, no!
- Cosa ha fatto?
- Si è fatto ricevere dal Presidente degli Stati Uniti.
- Ah...
- In persona, cara mia.
- Ah, ma guarda...
- Ha avuto del coraggio. Io non l'avrei fatto.
- E perché mai?
- Come perché, Gelinda! Quello là è un negro, sveglia!
Gelinda fece una smorfia di sopportazione, poi diede un'occhiata all'orologio. Tra qualche minuto avrebbe fatto la sua apparizione Mirca, la rumena.
Gelinda definiva Mirca - dama di compagnia - . Usava questo termine perché era molto più gentile degli altri appellativi a disposizione. Chiamarla - badante - o - donna delle pulizie - avrebbe implicato che svolgeva un lavoro. In realtà Mirca si limitava a chiacchierare con la - sua signora - (così la chiamava), comprarle le merendine e bisticciare con la signora Pesce, prozia di un importante rappresentante di un partito xenofobo. Ma a Gelinda, Mirca piaceva. Piaceva molto. Trovava che avesse lo sguardo limpido, la risata schietta, una gioia di vivere contagiosa e una gran genuinità.
Mirca è più giovane di Gelinda, ma anche lei ha la sua bella età. Non si è mai sposata. In patria ha perso tutti i suoi affetti più cari; sono tutti morti nell'Ottantanove. Sua sorella, suo cognato e due nipoti, che lei ha cresciuto come figli. Lei è sopravvissuta alla mattanza di Timosoara ed è stata tra i pochi a raggiungere l'Italia prima che Ceausescu cadesse. Come e perché sia arrivata a Senzunnome non si è mai saputo; come abbia inciampato nella vita di Gelinda rimane un mistero insoluto. Destino, si potrebbe azzardare.
- Arriva anche oggi, quella là?
- Quella là, ha un nome. Te l'ho già detto mille volte. Non è bello trattarla così.
- Ma scusa, Gelinda, non potevi prenderti una bella ragazza italiana?
Proprio in quel momento la maniglia scattò ed entrò Mirca.
- Eccola qua, la russa -.
- Io non sono russa, io rumena.
- Siete tutti della stessa razza!
- Tu non capire niente di niente.
- Ma vai a casa tua, terrona.
- Tu sapere che Romania è più a Nord di Italia?
- E allora tornatene da dove sei arrivata. Siete già in troppi.
- Io già detto. Tu devi chiamare me principessa, signora Pesce -.
Mirca asseriva di essere discendente di una antica e nobile dinastia mitteleuropea. Minacciava sempre di portare delle carte – millantate, ma mai mostrate – che comprovavano il pedigree.
- Io devo chiamarti principessa? Ma stai scherzando? Vuoi venire a fare la padrona a casa mia? Ma guarda come ti vesti! Principessa dei miei stivali... -.
Indossava sempre degli abiti nuovi, ma passati di moda. Una giovane vecchia, per così dire.
- Quando la finirete di bisticciare voi due? - Gelinda era abituata allo spettacolino serale.
- Io solo rispondere a quella vecchia pazza.
- Prima o poi chiamo le guardie e gli dico che sei senza il permesso di soggiorno. Vediamo come te la cavi – la Pesce non demordeva.
- Romania è Europa. Non serve permesso di soggiorno. Questa essere casa mia, quanto casa tua. Lo dice legge italiana. Tu sai o non sai?
In Italia, Mirca stava bene. Del suo Paese le mancava solo la musica Manele suonata nelle trattorie dell'Oltenia e il caldo nel cuore; così, almeno, spiegava in un italiano povero ma corretto.
- Ma Gelinda, non potevi prenderti una bella ragazza italiana?
Mirca scaricò una confezione di crostatine alla ciliegia e un tubo di patatine nell'armadietto della Rustichetti.
- Vado a prendere per te bottigliette di Coca Cola e chinotto giù in macchinetta – disse rivolta a Gelinda. Poi si voltò verso la signora Pesce - Tu vuole qualcosa?
- Da te non voglio niente, zingara. Se voglio me la vado a prendere da sola. Pensi che non sia capace?
- Io no rom. Io no zingara. Io nobile, cara mia.
- A proposito. Mi sembra che mi manchi un po' di succo di frutta nella bottiglietta – da qualche tempo, la Nostra, aveva iniziato a marcare con un pennarello i livelli di tutti i liquidi presenti sul suo comodino, il numero di aspirine nei blister, le pagine del suo messale - Stai attenta che se ti vedo vicino al mio comodino, ti taglio le mani, quanto è vero Iddio!
Detto questo se ne andò vicino alla finestra, con la sedia che la Casa di Riposo le aveva messo a disposizione; era per i visitatori, ma a quell'uso non servì che una sola volta in due anni, in occasione delle elezioni, quando il suo pronipote la andò a trovare, soffermandosi giusto il tempo per consegnare alla signora Pesce dei santini con le indicazioni di voto. Ora, quella sedia in plastica, è l'unico strumento per guardare aldilà di quelle quattro mura. Buona parte della giornata, la signora Pesce – scialletto verde padano e robuste ciabatte ai piedi - la passava così; impagliata, fissa sulla sedia, perennemente in penombra come una camelia sfiorita. Era un condensato esplosivo di tristezze planetarie e virali, che sfogava prevalentemente contro Mirca e un Operatore socio sanitario ungherese, di nome Anton.
Gelinda guardò nuovamente l'orologio.
- Oggi dovrebbero arrivare anche gli altri due... - disse, dando voce ai suoi pensieri solitari.
- Almeno quelli sono italiani. Anche se... - sibilò la Pesce.

Aldo Boraschi

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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