I - Ancora Ancora una volta sto per mettermi in viaggio. Per un posto che conosco; anzi che conoscevo bene una ventina d'anni fa. Poi non ci sono più tornato. Non c'è stata più occasione... o forse non me la sono cercata, chissà. Il fatto è che la mia volontà di metterci piede non c'era e non perché mi ci fossi trovato male, anzi. È che volevo tagliare per sempre un filo sottile (sottile dico: nient'affatto; piuttosto era una fune, e lo è tuttora, dalla quale avrei voluto sciogliermi, ma non avevo il coraggio di farlo fino in fondo) che mi legava a quei luoghi. Quante volte ho pensato - Ancora una volta sto per mettermi in viaggio - , e sono partito verso mezza Italia: le commesse, fortunatamente, c'erano da nord a sud e qualcuna anche all'estero. Ed allora il lavoro non è mai mancato. Grazie al cielo, perché a volte penso che se non mi fossi buttato anima e corpo sul lavoro la mia vita sarebbe stata vuota, pesante, inutile... Ma perché vi vado annoiando con certi discorsi intimi? - Buongiorno, ingegnere. Si parte? Sempre in giro lei, eh? Lo so, lo so, il lavoro... buona giornata e buon viaggio! - disse la mia vicina di casa, quasi con un sospiro. Ci conoscevamo da tanto tempo e lei aveva come un affetto filiale nei miei confronti; quindi ad ogni mia partenza in cuor suo pensava - ma quando la finisce di andare in giro e fa una vita più riposata? - Ma non dovete concludere che fossi io al centro della sua attenzione, della sua vita: da quando era rimasta vedova tutto il suo amore lo riversava sul bassotto che teneva al guinzaglio e che mi fissava anche lui con la lingua penzoloni ed un'espressione come per dire: - ma questo qui quando si leva di torno, che io ho il mio bel da fare? - - Grazie, signora; ma come sa ormai sono abituato a partire... - . Quello che la signora non sapeva è che spesso mi era venuta voglia di non tornare più, di mandare tutto all'aria, di andarmene in Africa o in qualche altro posto in cui nessuno, dico nessuno, potesse chiamarmi per nome: - Gianni Fiorillo! - Ecco qua! Mi sono già presentato. Avrei voluto allungare l'introduzione, ma una volta che ci sono arrivato così presto, amen. Allora, ricapitolando, Gianni Fiorillo, ingegnere, titolare della - Fiorillo Costruzioni s.r.l. - : una bella azienda ereditata da mio padre che mi aveva costruito pezzo per pezzo sin dalla nascita perché diventassi il padrone di questa sua creatura. Ma lasciamo perdere per ora mio padre; intanto la signora mi oltrepassa e ondeggiando la manina si avvia verso casa senza più voltarsi. Quello che si volta è invece il bassotto, che nel suo cappottino scozzese mi guarda con un'aria di sufficienza altezzosa che gli tireresti un calcio nel didietro. Ma guarda se uno rispettato da tutti deve essere preso per i fondelli da questo mezzo cane! Se mi piscia pure la ruota della macchina gli faccio vedere io. Ancora una volta sto per mettermi in viaggio. E guardo il cielo sereno, appena macchiato da qualche innocua nuvoletta bianca, che dipinge un po' questo azzurro troppo carico: è mattina presto, ma il sole è già abbastanza alto in questo otto giugno del 2005. Mi piace respirare l'aria ancora fresca, salmastra: che profumo di mare che c'è oggi, che si spande nelle viuzze, nelle piazze e nei cortili di Paola ed arriva fino a me, così forte da coprire lo sfiatare della mia Mercedes bianca già accesa e pronta ad accogliere me ed i miei bagagli, a proteggermi e portarmi serenamente, se volessi, fino a Stoccolma. È nuova, quasi un anno, ma ci siamo capiti subito: lei sa che a me non piace molto guidare, ed allora si può dire che fa tutto lei; appena arrivati in autostrada imposto la velocità e fa tutto lei. Comodissima! Quasi quasi dovrei darle un nome, se lo merita; mah, ci penserò un'altra volta. Altri odori mi vanno arrivando: odori della gente che si sveglia, che si affretta o che comodamente si gusta il proprio caffè. Odor di pane, che investe il giorno, frammisto agli odori di pasticceria e friggitoria. Ormai sono tutti svegli. Mi attardo a guardare qualche finestra che si apre, qualche signora che in pigiama sbatte il tappetino, si affaccia, guarda giù dal balcone e poi richiude, lasciando le persiane accostate per far entrare un po' di mattina anche da lei. Al bar gli operai si affrettano e qualcuno si accende la prima sigaretta. Meno male che ho smesso; mi ricordo quando due pacchetti non mi bastavano e fumavo anche alle due di notte, se per caso mi svegliavo, coi gomiti sul davanzale, e poi me ne riandavo a letto. Ancora una volta sto per mettermi in viaggio. Ma perché mi vado attardando, come chi ha paura di una destinazione assolutamente nuova; o come qualcuno che, volendo lasciare per sempre un luogo, cerca di fissarne decisamente e per sempre i colori, i sapori, le atmosfere... Ma la macchina continua a sfiatare, quasi stanca di stare ad aspettare: - Ti decidi o no a caricare le valigie, non ti pare di avermi fatto attendere abbastanza? - Veramente pensavo che c'è qualcuno che aspetta da anni. Aspetta, lo dico io; mi piacerebbe essere aspettato, ma sarà così? No. Non può essere così. Sarà solo una curiosità da parte mia di rivedere, anche da lontano...; di riascoltare, riprendere. Ma riprendere cosa? Ritornare su strade camminate tante e tante volte. Ma cosa ricordo di tutto questo? Dopo tanti anni si sono diluiti nella memoria pure i volti, i posti, le parole. Cosa mi rimane di veramente vivido nella mente? Forse nulla, soltanto un'ipotesi di occhi castani o un periodico arrivo di charter mentre dovevo star sveglio la notte sull' altana... Ancora una volta sto per mettermi in viaggio. Apro il bagagliaio, butto tutto dentro; sbattendo chiudo con forza; entro abbassando leggermente la testa, mi tiro dietro la gamba sinistra e chiudo la portiera; cerco gli occhiali da sole, anche per darmi un contegno, e li inforco. Mi guardo nello specchietto cercando una mia soddisfazione per tutto ciò, ma non la trovo. Mi sento solo, solissimo al mondo: l'unico attanagliato dall' incertezza mentre tutta l'umanità sa cosa dire, cosa fare, si scambia e ricambia parole e baci e tazze di caffè e focacce, e sorrisi ed offese. Mi immagino un viaggio lungo, perché tante cose cominceranno a salirmi dal deposito dei ricordi più scordati; però mi consolo pensando che stavolta sto partendo con voi. Sì, sarete con me, mentre la Mercedes ci porta dove vuole lei, ed io vi porterò con me, attraverso la mia vita! Vi piace? Non so se vi piace, ma non potete lasciarmi solo! Ho bisogno di voi, vi prego: non mi lasciate solo. Ma che faccio, vado elemosinando compagnia, a questo mi sono ridotto io, Gianni Fiorillo, punto di riferimento per tanti, qui a Paola e dintorni. Paola, Paola... a qualcuno sovviene qualcosa, ed ha pure ragione: la città di San Francesco da Paola, in Calabria. Ormai mi sono messo quasi tutto a nudo, ma è giusto che voi mi conosciate almeno un po' visto che dovete fare questo viaggio con me; forse manca solo la mia altezza (1,77) i miei capelli (castani) i miei occhi azzurro chiaro (cerulei, c'è scritto nella carta d'identità), che tanto piacevano alle ragazze... Bene, ora parto: metto la prima e comincio a scendere la strada verso il mare, che guarderò con piacere e nostalgia, mi metterò la cintura ché la spia rossa ha già cominciato a lampeggiare, e poi ci passerò pure il pollice sotto, per evitare di restare stretto come un salame. - Mannaia... - il segno della croce! Me lo faccio sempre quando parto; me l'ero completamente scordato. Ancora una volta sto per mettermi in viaggio, anzi sono già partito: alla volta di Rimini.
II - Rimini
- Rimini, stazione di Rimini! - Ripeté più di una volta la stessa voce femminile metallica e senza accento dialettale che ritrovi in tutte le stazioni d' Italia; e non capisci se c'è davvero una persona o sia un nastro registrato che sia stato distribuito a tutti i capistazione. C'era qualcuno che si affrettava a caricarsi il bagaglio, chi sgomitava. Io aspettavo, senza neanche guardare fuori, restando a fissare il portacenere d'alluminio stracolmo di mozziconi di sigaretta, ed alcuni erano anche caduti a terra. Una volta scesi si sarebbe notato subito che c'erano passati dei militari... e che militari! L' esercito di Franceschiello... Io continuavo a fissare il portacenere d'alluminio, che mi doveva la vita. Un terroncello voleva portarselo a casa per ricordo, e mi ci era voluta tutta la mia arte diplomatica per dissuaderlo: mi era riuscito solo con le promesse d'amore di ragazze tedesche perse dietro ai militari italiani. In effetti poi, col tempo, ebbi modo di rendermi conto che era la verità. A frotte arrivavano ragazzine tedesche in cerca di avventura con qualche bel puledro italiano, il quale all'estero ha una fama non indifferente. Ma, direte voi, che c'entrano i militari, il treno. C'entrano, eccome! Perché vi sto parlando della primavera del 1982, quando, dopo circa un mese di C.A.R. nella caserma di Chieti, ci avevano dato finalmente la destinazione. Malgrado mio padre si fosse fatto in quattro per cercare raccomandazioni, non era riuscito a portarmi in qualche caserma vicino a casa; però gli avevano assicurato che Rimini era un'ottima destinazione: forse la migliore per qualità della vita. Fare il militare a venticinque anni, dopo che ti sei laureato, con un'azienda che ti aspetta, non è affatto il massimo; e difatti io l'avevo presa malissimo. Contavo le ore, i giorni, cercavo di accelerare il tempo in tutti i modi, ma non c'era niente da fare: passava lento, ma talmente lento che non ve lo potete immaginare. Inoltre al C.A.R. si fa una vita schifosa: sei considerato meno di un numero, assieme a migliaia di ragazzini diciottenni che magari non sono mai usciti di casa. Di Chieti mi rimane di notevole un solo ricordo: il gran freddo che veniva dalla Maiella innevata, proprio di fronte alla caserma (non raccontatelo in giro, ma fui costretto a mettermi i mutandoni di lana che dava l'esercito assieme alla divisa); ed un lieve rimpianto: gli spaghetti alla chitarra da Gino, che mi andavo a mangiare regolarmente da solo. Così buoni non li ho più mangiati da nessun'altra parte. Ma io stavo ancora sul treno a fissare il portacenere d'alluminio (credo che fosse alluminio, ma se per caso non è così non me ne vogliate: tanto li conoscete benissimo quei portacenere metallici che c'erano in tutti i vagoni), aspettando che finisse la calca per scendere poi con calma. Tanto non ero nemmeno curioso: avrei dovuto passare molti mesi qui a rodermi il fegato: che fretta c'era? Eppure avevo viaggiato comodo sui sedili di legno. Di legno? Proprio legno. Io al sud non ne avevo mai visti e qui a Rimini, la capitale del turismo, si tenevano ancora queste carrozze! Mah, vai a capire il mondo. Almeno era una bella giornata e mi ero potuto godere un po' il panorama: il mare e larghe spiagge sulla destra, colline leggere sulla sinistra: così per tutto l'Adriatico che avevo potuto vedere. Per dirla in tutta sincerità io a Rimini, di mia volontà, non ci sarei mai venuto, nemmeno per villeggiare. Milioni di persone che si accalcano sulle spiagge della Romagna, che sguazzano nell'acqua a contatto di gomito, bambini che ti sfrecciano da tutte le parti, musica al massimo pure in spiaggia: no! Nemmeno per villeggiare, figuratevi a farci il soldato! A me piace quel mare pulito, quelle calette isolate, tuffarsi dagli scogli, stare in silenzio ad ascoltare le onde. No, a Rimini proprio no! Eppure ci ero andato a finire e dovevo pure ringraziare chi mi ci aveva fatto arrivare, perché era la migliore destinazione possibile. Pazienza; al mondo c'è chi soffre più di me: ma questa di mandarmi proprio a Rimini non me la dovevano combinare. In caserma, tra tante cose da fare, assegnarci il posto, registrarci, eccetera, si andò avanti fino al pomeriggio. Cena e poi in batteria (così si chiama la compagnia in artiglieria, la mia arma) dove c'era la camerata, la fureria, la sala tv; il tutto abbastanza comodo. Ma notai con piacere che lì non ero affatto un numero. - Tu sei l'ingegnere, il nuovo furiere? - Avevano bisogno di qualcuno poco analfabeta per la fureria, che sarebbe l'amministrazione della batteria, comandata da un tenente, e mi avevano subito prenotato. Gli scherzi di arrivo non me li scansai, ma furono abbastanza rispettosi, sia perché ero il più grande, sia perché ero il nuovo furiere, ed ognuno dei quattro della fureria esercitava un notevole potere: nella scelta per i servizi, nelle licenze, nei rapporti coi superiori. Quindi alla fine ero ritornato ad essere Gianni Fiorillo, e la cosa non poteva che farmi piacere. L'indomani fui subito chiamato in ufficio e, assieme agli altri, cercai di sbrigare quello che c'era da fare: ma la situazione non era tanto bella; nessuno, infatti, aveva voglia di insegnarmi niente. Uno perché era nordico ed odiava i meridionali; un altro, milanese e chiacchierone, non aspettava che l'ora della libera uscita per andarsene a fare tutte canne; l'altro, un meridionale anche lui che parteggiava per me, se ne fregava di tutto, perché prossimo al congedo. Insomma, mi trovavo male, ma ebbi un'occasione e la colsi al volo. Un ragazzo pugliese dell'ufficio matricola si stava congedando e mi disse che, se volevo, potevo prendere il suo posto: lui avrebbe parlato al maresciallo responsabile. E così fu. Una mattina fui chiamato al comando, per lavorare in amministrazione centrale all'ufficio matricola, e ciao fureria. Questa cosa il mio tenente la prese male, perché non sopportò che io me ne fossi andato senza fargli capire niente; ma si dovette rassegnare. Così presi pienamente possesso del mio ufficio, già, proprio mio, perché il maresciallo, dopo avermi instradato, mi consegnò una copia delle chiavi: - Ti troverai benissimo, qua sei da solo e ti puoi gestire come vuoi, c'è la macchina da scrivere, i fogli, la tua scrivania, la radio; anzi nella mia scrivania ci sono pure dei giornali pornografici, se non hai cosa fare. I tuoi rapporti saranno solo con me e con l'aiutante maggiore, quindi qua nessuno può venire a comandarti; quando sei in batteria tua è un altro discorso. Per ogni bisogno mi trovi al circolo sottufficiali, e ti farò avere tutte le licenze che posso. Stammi bene - . In dieci mesi che passai a Rimini lo vidi pochissime volte. Le prime uscite a Rimini ero quasi sempre da solo, perché non legavo tanto con i ragazzini e non sapevo cosa fare. D'altra parte, rimanendo in caserma c'era il rischio che qualcuno ti vedesse e approfittasse per metterti di servizio, allora capii che era meglio scappar via. Tanto, la mattina non mi vedevano, non vedendomi neanche sul tardi non avrebbero pensato a me. Però mi scocciava stare quasi sempre da solo. Avevo rapporti con gli altri ragazzi dell'amministrazione, con quelli delle varie furerie ma non avevo stretto amicizia con nessuno. A volte capitava di vedersi fuori, al bar, ma niente di che. Pensavo spesso che avrei avuto voglia di stare in giro con gli amici, magari a cercare ragazze, sulla mia Giulia.
Carlo Amodei
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