I fatti miei Ne parlano in tanti, tantissimi, è una parola che leggo spesso pure nei cartelloni e nelle pubblicità in rete. È anche un segno zodiacale, non ci avevo mai pensato! Per me era quasi innominabile sino a qualche tempo fa, ora è diventata più familiare, di un suono quasi musicale al punto che dirla non mi impressiona più. Inizialmente parlavo di piccolo problema di salute, poi di tumore maligno, poi di carcinoma e ora lo nomino tranquillamente: cancro. È più semplice chiamarlo con il suo nome reale quando parlo con chi ha avuto il mio stesso problema. Ho invece una leggera difficoltà con chi non lo ha mai conosciuto, perché mi sono resa conto che è una parola che spaventa: allora lo nomino con delicatezza, la stessa che usavo con me stessa. Ne ho sempre parlato pochissimo, non perché sia qualcosa da nascondere o di innominabile, ma semplicemente perché credo che sia giusto dargli l'importanza che merita. La considero un'esperienza, un percorso che la vita mi ha chiesto di affrontare, uno scomodo coinquilino con cui imparare a convivere, che giorno dopo giorno si è fatto sempre più insignificante fino a diventarmi indifferente. Il cancro non è mai stato la mia vita ma una realtà di essa, una delle sue tante sfaccettature. Quando ho iniziato questo cammino non l'ho sbandierato a destra e sinistra, prima di tutto perché non mi piace piangermi addosso, lo reputavo un fatto personale che può toccare la sensibilità degli altri e non necessariamente andava pubblicizzato. Soprattutto pensavo di avere ben altro di più interessante da condividere. Poi, se capitava l'argomento, non mi tiravo indietro e raccontavo la mia esperienza. Perché, di fatto, di questo si tratta, un sacrificio che ho dovuto affrontare, nulla di più. Non mi sono mai considerata malata, anzi tremendamente viva e fiduciosa. Non ho avuto nemmeno il tempo di pensare alla malattia, la mia mente era sempre rivolta ad altro. Allora perché parlare del mio cancro in questa sede? Perché mi diverte, perché ho riso di cuore quando ho raccontato alcuni aneddoti alle mie amiche e penso sia giusto condividerli con chi leggerà questo libro. Ritengo possano essere utili per chi come me si è trovata in questa situazione e magari non ha avuto la mia stessa fiducia, o per chi, non ha mai conosciuto questa realtà e sia curioso di vederla con un'ottica diversa. Sono sicura di non aver vissuto solo io determinati fatti che secondo me sono degni di essere ricordati, di quelli che mettono del sano buon umore e che si raccontano al bar davanti a un caffè. Penso che ognuno di noi abbia qualcosa di simile da raccontare e di cui gioire, il problema sta nel fatto che ci concentriamo troppo sull'ansia che ci dà un momento anziché cercare le distrazioni che esso ci regala, al punto che nemmeno le notiamo. E se vivessimo quelle stesse situazioni in un contesto più rilassato avrebbero sicuramente un peso diverso. Credo che se qualcosa fa sorridere e fa stare bene, ha questo potere a prescindere, indipendentemente dal contesto in cui capita, anzi, forse è ancora più paradossale, bizzarro e ironico che possa capitare in determinati momenti critici. Anche se siamo noi i protagonisti dobbiamo lucidamente allontanarci da quell'ambientazione difficile e concentrarci solo sull'episodio da ricordare. Io ne ho tanti, davvero tantissimi, li ho gelosamente cercati, minuziosamente collezionati, raccolti e custoditi. Scriverli significa anche poterli rendere indelebili, avere la certezza che non verranno mai dimenticati e che potrò riguardarli ogni volta che vorrò. Ho lasciato che diventassero la mia benzina, la mia guida in quei mesi di terapia, o meglio, direi la mia droga, perché di essi non sono più riuscita a fare a meno, li ho cercati, aspettati uno ad uno, contati e vissuti senza esserne mai sazia. Perciò mi dispiace per chi sperava di leggere una storia strappa lacrime o per chi si aspettava una pazzesca, romanticissima love story tra paziente e dottore. Anche volendo avere molta fantasia, sarebbe stato parecchio difficile scriverla, dato che molti dei medici che mi hanno seguito avrebbero potuto essere mio padre! Spiacenti, non soffro ancora del complesso di Edipo. In effetti, il chirurgo plastico è abbastanza giovane, ma ancora non mi interessano le donne! Anche se nella vita non si sa mai. I fatti raccontati in questo libro sono realmente accaduti e li ho vissuti io stessa in prima persona, voglio che possiate familiarizzare con questo concetto affinché possiate credere a ogni singolo aspetto che citerò. Vi parlerò del cancro a modo mio, di quei miei più grandi difetti, l'incoscienza e l'ingenuità che mi sono tornati utilissimi e di tanta, tantissima vita. Questo sarà un piccolo diario di bordo. Per una volta metterò da parte tutta la mia riservatezza e lascerò che vi facciate serenamente i fatti miei. Sarò contenta di fare felici i più pettegoli e pure i più discreti. Rose PS: Come scrivere un libro? Non ne avevo la più pallida idea! Le uniche volte in cui ho stilato oltre cento pagine era per le due tesi di laurea, poi mi sono fermata a quattro cartelle. Un punto di non ritorno. Comunque credo che prima di tutto serva una storia da inventare, poi immagino si crei una scaletta in cui sono elencati tutti i passaggi e gli argomenti che si vogliono toccare. Dopo di ché non rimane che la parte bella: scrivere. Ricordo che per le due tesi organizzai il lavoro in quel modo. Stavolta ho iniziato dal metter nero su bianco. Per fortuna non avevo bisogno di inventare una storia, mi bastava semplicemente raccontare i fatti miei. Non preparai nemmeno una scaletta, l'avevo in testa, sono sempre stata molto disordinata, poco organizzata e mi fido parecchio della mia memoria. Poi mi piace l'idea che sia tutto un continuo divenire, che una storia si scriva da sé e che spesso esista l'elasticità che ti consente di uscire da quello statico canovaccio. Non fu subito semplice familiarizzare con il racconto perché parlavo di me stessa.
Una foto da urlo! Aveva deciso. Quello era il look giusto. Si guardava allo specchio ridendo sonoramente, una parrucca arancione evidenziatore, un po' come la maglia della nazionale di calcio olandese. Una tonalità bella accesa, quanto basta per essere notata; due trecce, una per lato con le punte rivolte verso l'alto. Faceva molto Pippi Calzelunghe. In mano lo smartphone per scattare una foto da condividere al più presto con le amiche. Click! Poi un altro click. - Noooooohhh! Qui ho il doppio mento! Mamma mia! E pure le guance cicciotte! - , esclamò Rose con una smorfia di sconforto! Sì, avrebbe avuto bisogno di una dieta, ci stava lavorando. - Ma in estate sarò una silhouette! - Già, peccato che segua la dieta un giorno alla settimana e l'attività fisica due volte in sette giorni... Se va bene! - E questi dentoni in risalto? - Adesso anche i dentoni. Va bene, non si potevano fare miracoli. La faccia era quella. Ma se c'era una cosa che la vita le aveva insegnato era essere ostinata. Ricominciò con gli scatti con il perentorio proposito di fermarsi solo una volta raggiunto il risultato desiderato. Click, click, click. Aveva comprato quella parrucca qualche giorno prima mentre faceva la spesa al centro commerciale. La trovò per caso in uno scaffale, sola soletta, la fissava e le diceva comprami. Rose le tese la mano, la tenne un po' con sé, tastò la consistenza, sorrise poi pensò: Questa mi manca. Cercò uno specchio. La provò, si piaceva, la tenne addosso qualche minuto fino a che ritrovò suo marito, Bobo, all'ortofrutta indaffarato a scegliere le arance. - Così qualcuno fua la spesa e mentrue qualcun altruo fua finta di faurla, veruo? - , le disse con quel loro modo di parlare per gioco come fossero stranieri. - Ti piace, la compruo? - disse accennando una risata sottovoce mentre girava convulsamente la testa a destra e a sinistra. - Dai levala che ci stanno guardando tutti! - rispose Bobo accennando una risata sottovoce mentre controllava ossessivamente che nessuno li notasse. Rose tolse la parrucca dalla testa, sorridendo; la tenne ancora un po' in mano come se ci volesse parlare, l'avrebbe chiamata Orange, e le sarebbe sicuramente tornata utile per le sue stravaganze. Comprava spesso oggetti particolari: occhialoni da sole con le lenti a forma di cuore, mascherine, parrucche colorate... E poi li sfoggiava durante feste a tema con gli amici e per realizzare alcune interviste televisive. Le sue interviste! Quelle in cui, secondo lei, si poteva lasciare il segno con una normalissima notizia d'attualità. Una volta, travestita da ladro con indosso un passamontagna, in mano pistola ad acqua e microfono, aveva fermato i bagnanti che prendevano il sole nella spiaggia del Poetto, a Cagliari, per sapere se secondo loro fosse un furto prelevare delle conchiglie e della sabbia. Un'altra volta si aggirò per le strade del centro cagliaritano con la testa che spuntava sopra una macchina in plastica, uno di quei giochi con cui i bambini sgambettano e imparano a camminare e affrontò l'argomento del caro benzina. Anche Orange avrebbe presto dato il suo contributo mediatico. Era già diventata una di casa, buona e paziente sulla testa di Rose, attendeva lo scatto ideale, che, dopo infiniti tentativi, arrivò. Solo allora Rose si ricordò di guardare l'orologio, era passata un'ora. Bobo l'aspettava in cucina con la cena pronta, sant'uomo! - Topo, è pronto! - . Questa volta lo fece attendere meno del solito: i richiami furono due, in genere erano almeno cinque. Ma lui aveva imparato un piccolo trucco: avvisava sua moglie ancor prima che la cena fosse pronta, così al quinto richiamo era appena sfornata. Infatti stavolta era ancora sul fuoco. Lei si avvicinò, sorrise, e con quella vocina da bambina che usava con lui per gioco disse: - Lo sapeuvo! - . Ma non era sempre così, Topo non faceva sempre aspettare Bobo a tavola. Qualche volta cucinava pure lei, le rare volte in cui capitava che smontasse da lavoro prima di lui, soprattutto per pranzo. E non si tirava mica indietro, si rimboccava subito le maniche, pronta e volenterosa. Tagliava un ingrediente sul tavolo, frenetica, mentre nella padella soffriggeva la cipolla. Poi buttava la pasta nell'acqua calda della pentola, prendeva un coltello pulito e un altro tagliere e sminuzzava la lattuga sul lavandino. - Caspita le carote! - . Ecco un altro coltello ancora e stavolta il taglio avveniva sul piatto. Fortuna che la cucina era piccola e poteva restare tutto a vista, altrimenti avrebbe senz'altro lasciato qualche ingrediente per strada. Ci vuole solo un po' di organizzazione, pensava, chissà se ne ho mai avuta! Tra i piatti aveva pure i suoi fiori all'occhiello: la pizza da scaldare, la zuppa già pronta da metter in pentola, le patatine da friggere. Però quelle non dovevano essere surgelate, le piacevano fresche e le pelava lei stessa. Così come quelle al forno. Che bontà! Le avrebbe mangiate in tutti i pasti. Pure i calamari fritti e le verdure in pastella, tra le sue pietanze preferite. Chissà perché tutto ciò che va immerso nell'olio bollente mi riesce sempre bene, così come sporcare! Quando cucinava lei troneggiavano schizzi d'olio nelle pareti, chiazze di sugo e disordine ovunque. Bobo faceva di tutto per smontare da lavoro per primo e preparare lui il pranzo, perché temeva di trovare al posto della cucina un quadro dei macchiaioli. Gli competeva anche la colazione, sì, lei si svegliava più tardi. E quando entrava in cucina trovava il tavolo apparecchiato con un piattino di mandorle o frutta, il pane nel forno pronto per essere tostato, il caffè e l'immancabile spremuta di arance fresca preparata dal primo mattino. - Topo una spremuta a colazione ti fa iniziare bene la giornata - , asseriva convinto. Lei adorava questa premura, la faceva sentire coccolata, ma per non dargli soddisfazione spesso lo prendeva in giro mentre sistemava meticolosamente in due recipienti trasparenti al fianco dei fornelli, gli agrumi uno ad uno, facendo attenzione a collocare in alto quelli più maturi: - Signore e signori, eccolo qui, l'uomo delle arance! - . Lui ribatteva serio: - Da quando vivi con me non ti sei più ammalata. Mai un'influenza. Ammettilo, sono le arance. Come faresti senza di me? - . - Mah, sinceramente... - Rose faceva una piccola pausa avvicinando la mano al mento in posizione pensante, strofinando il pollice destro sulla guancia e l'indice sotto la bocca... Sinceramente... - rimaneva un po' in silenzio e improvvisamente continuava parlando veloce - sarei sempre con le mie amiche! - . E iniziava a correre per tutta la casa saltellando. A volte lui la inseguiva, l'acchiappava e l'abbracciava, altre era lei ad andargli incontro e abbracciarlo. A cena, se non capitava che Rose si perdesse con qualche strana distrazione come i mille scatti con la parrucca arancione, cucinavano insieme. Stavano vicini ai fornelli, uno di fianco a l'altro, scambiandosi baci e abbracci. Anche quella sera fu Bobo a preparare la cena. Mangiarono, poi lei gli fece vedere la foto che aveva scelto di mandare alle amiche. - Cosa dici? - , ridacchiò. - Topo, sei una tonta! - rise anche lui, compiaciuto. Quello era il decimo giorno dopo la prima chemioterapia. Rose era stata operata di cancro al seno. - Carcinoma multicentrico e... Balle varie - diceva - Il resto lo sa il referto istologico - . Fa nulla che fosse rimasto sotterrato nella cartella in cui teneva tutti gli esami. Ma che importanza ha conoscere la diagnosi esatta? Non la pagava nessuno per essere più precisa, per giunta su quell'argomento. Poi non era così informata in campo medico, anzi, se c'era qualcosa in cui era quasi tabula rasa era proprio la medicina. Non si preoccupava degli effetti che potevano avere determinati farmaci, ne conosceva pochissimi, giusto quelli per il mal di testa di cui soffriva spesso, qualche antidolorifico, qualche antibiotico e antinfluenzale. Aveva sempre pensato che meno medicinali si prendono meglio è. Le bastava sapere che la malattia era stata presa in tempo, che avrebbe fatto quattro cicli di chemioterapia rossa. Sì, la rossa, quella con quel nome impronunciabile. Aveva sentito parlare anche di una verde e una bianca. Non aveva ancora perso tutti i capelli ma sapeva che presto sarebbe capitato ed era pronta; molti stava iniziando a lasciarli per strada, li trovava a casa qui e lì, e in macchina. Poi, quando si pettinava o se li accarezzava li sentiva meno forti. Le avevano asportato e svuotato tutto il seno destro. Dopo qualche mese scoprì che il tutto poteva essere sintetizzato con una sola parola: mastectomia. La memorizzò, era abbastanza semplice da ricordare, entrò a far parte del suo vocabolario, anche perché quando raccontava ai medici il suo caso il siparietto era sempre lo stesso. Abbassavano le sopracciglia con una sottilissima aria di contraddizione e rispondevano: - Ah, quindi ha fatto una mastectomia? Linfonodi? - . Mastectomia, Linfonodi? Andiamoci piano, due domande sono fin troppe. Bel quesito il secondo! - Sì, mastectomia, un solo linfonodo interessato - , rispondeva poco convinta. In realtà non era nemmeno sicura che fosse proprio così. Allora, per scrupolo, cercava convulsamente quel famoso referto istologico, finito chissà dove, che miracolosamente ricompariva. Lo consegnava in silenzio e con aria colpevole, di una bambina che è stata scoperta con le mani sporche di marmellata, poi diceva timidamente: - Ecco. Guardi qui - . Era stato molto utile l'incontro con una senologa che, mentre eseguiva l'ecografia, le spiegò: - Tutti cercano il nodulo, in realtà il suo è un carcinoma multicentrico - . Rose aveva delle cellule maligne sparse in tutto il seno e un piccolo nodulino che era in un punto nascosto. Almeno questo capì. Però imparò la differenza tra avere un nodulo ed essere operata di mastectomia, in genere nel primo caso si effettua un semplice quadrante. Conosceva da sempre questa parola, le bastava pensare alle lancette dell'orologio, se la prima indicava l'asportare e svuotare tutto il seno, la seconda faceva riferimento ad un pezzetto della mammella, si tagliava solo la parte malata e rimaneva intatto tutto il resto. Rose non aveva tempo per pensare a un problema di salute, soffermarsi sulla malattia avrebbe significato mancare di rispetto alla vita, e la sua vita era tutto il resto: l'adorabile quotidianità, il lavoro, le amicizie e la famiglia. Vivo per essere felice, aveva sempre pensato ancor prima di incrociare il cancro. Ogni attimo era prezioso e doveva essere riempito di significato, arricchito con tutto ciò che la faceva stare bene come gli hobby e le risate con gli amici. Anche il lavoro sapeva colorare il suo tempo perché, secondo lei, ogni legame professionale nascondeva un rapporto umano. Spesso si ritrovava ad affermare con convinzione: - Non dobbiamo mai dimenticare che, anche mentre lavoriamo, siamo persone che interagiscono con altre persone - . Aprì WhatsApp, inviò all'amica Biglia, che viveva in Belgio, quella foto con le trecce arancioni e scrisse nella didascalia: Ho scelto la parrucca, volevo provare un nuovo colore, spero ti piaccia. La risposta fu immediata: Sei una tazza! Era il loro modo per dire - sei una scema - ovvero l'aferesi della parola Tontazza che in lingua sarda significa tontolona, stupida. Non contenta, Rose, scrisse anche ad altre amiche ripetendo lo scherzo e non risparmiò quelle che le avevano promesso di accompagnarla dal parrucchiere: Ragazze so che saremmo dovute andare insieme ma quando ho visto questi capelli in vetrina non ho saputo resistere e così mi sono lanciata e ho acquistato la parrucca senza di voi, spero capiate l'impeto che mi è preso e apprezziate la mia scelta! Quella notte collezionò risate, messaggi e insulti bonari delle amiche, poi andò a dormire divertita.
Valentina Ligas
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