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Autore: Lorenzo Zucchi
Quante bandiere hai?
Letteratura di Viaggio
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Quante bandiere hai?
Il tempo di realizzare non è ancora giunto quando il bus attraversa la spoglia pianura ucraina, inondata da una neve non più fresca, scandita dai sottopassaggi pedonali deserti che si susseguono numerosi ai bordi della strada. Non coinvolgerà nemmeno i primi condominii di periferia, la gente che scende alle fermate, il ponte sul Dnepr, la consapevolezza cartografica del Bulvar Tarasa Shevchenko, pure così a lungo immaginato. Saranno i primi passi compiuti a piedi, con zaino, valigia e il cuore pieno di emozione, a chiarire l'incredibile dimensione di un viaggio, di una solitudine chiave per compenetrare a fondo un mondo sempre così desiderato. Vivere, osservare, cercare di capire. Ho finito il mio percorso di studi, la parte prefissata, perlomeno, e non parlerò del Napoli calcio per almeno quindici giorni. La prima impressione che riserva Kyiv (Kiev secondo la più diffusa grafia internazionale) è immediatamente quella definitiva di una Gotham City a colori, di solennità e di fatiscenza, di architetture mai banali. Dal diciassettesimo piano di un hotel ovviamente ‘comunista' il quadro risulta completo nella sua totale confusione di elementi: il gigantesco stadio, la splendida chiazza rossa dell'università, la sagoma dominante del grattacielo sovietico. Contemplazone che vale minuti di ammirazione, ma la magia delle prime luci della sera chiama fuori: ecco la folla silenziosa del corso pedonale, le bancarelle di CD-ROM in vendita per pochi hryvnia, le boutique della globalizzazione occidentale, qualche timido fiocco di neve che accompagna una fresca brezza che inebria. Poi lo scenario cambia, tra una via di cortili di campagna, monumenti illuminati, progetti edilizi, colline vergini e pavé: sono a Podil, il quartiere più romantico della città, tra le scale bohemien che scendono al fiume, indugiando a vodka tra un lampione e l'altro per respirare il silenzio trasmesso dalla semplicità. La breve, storica funicolare riporterà in alto, verso la vita, i pub e le loro clientele estremamente compassate, le escursioni nel bosco innevato, gli sguardi alla luna piena inseguendo il vento, la buona notte augurata dalle fascinose strade della città. Sarà bello poi il mattino ripercorrere le tracce della sera precedente, citarsi ogni volta, ammirare le cupole della cattedrale, stupirsi del verde come colore scelto, ondeggiare tra le bancarelle alla ricerca di particolari, ascoltare la gente scambiarsi i saluti tradizionali della domenica. Perdersi a riflettere sul significato di quel drappo azzurro e giallo come il cielo e il grano. Simbolo di un'indipendenza che a sedici anni, per idealismo, si metteva davanti alla ragazza dei sogni, quando il cadavere sovietico ancora galleggiava e faceva risuonare il suo inno di solennità impossibili. La vetrina sul passeggio di un fast-food locale ‘che serve volentieri gelati e paste', nel rintocco possente di una grande campana, tra i residenti che acquistano torte per il pranzo tradizionale, è però già la consapevolezza di una partenza annunciata sin dall'arrivo. Salutiamo l'Ucraina, senza soffermarci troppo sulle condizioni della stazione di Kyiv perché i lavori riporteranno la gente lontana dall'attraversamento inconsulto dei binari, anche se l'angliski aiuterebbe quel sentore di vuoto tra il bronzo diffuso delle informazioni. La dignità dei ferrovieri, che controllano il biglietto al momento di salire sul treno, ha già dissipato l'ora trascorsa alla ricerca del binario in favore di quella profonda soddisfazione che si prova quando le cose che amiamo non ci deludono. Quando, nel cuore della notte, il poliziotto di dogana bielorusso sale a timbrare il mio passaporto, un altro sogno si materializza; posso comunque continuare a dormire tranquillo nel mio scompartimento di prima classe, giacché nessuno mi darà fastidio se io non lo voglio (cit.). Minsk accoglie alle sei del mattino con il vento e la neve, le luci che si spengono all'eco dei camion, la gente che chiede informazioni, i bambini che spalano con vigore l'ingresso delle scuole. La storia recente di questa nazione sotto dittatura traspare da ogni particolare: il ripristino di bandiera e stemma dei tempi sovietici, la mancanza di riferimenti precisi alla nazione su visto e banconote, l'utilizzo del solo russo nei cartelli stradali. Proprio ciò che Lukaschenko vorrebbe: che il suo paese non esistesse, che fosse parte ancora una volta della grande Russia. Eccolo là, il padre padrone della Bielorussia, sulla sua limousine con lampeggiante e triplice scorta! Avendo da tempo rinunciato ad esibire sullo zaino il tricolore bianco-rosso-bianco, vietato dal regime, cerco di dare il mio contributo visitando almeno i musei nazionali: al museo di storia mi chiedono se, con una spesa leggermente superiore (per me infinitesimale), voglio visitare anche la raccolta di storia naturale. Uno scenario dinanzi al quale è impossibile non commuoversi: modestissime riproduzioni di animali, foreste e prodotti derivati dall'agricoltura, ma neppure un cenno alla tragedia di Chernobyl che ha devastato un ambiente dapprima incontaminato. Eppure, il tenore di vita è dignitoso, la vita sembra scorrere normalmente nelle strade e i locali abbondano come in ogni altra città di un milione e mezzo di abitanti. Minsk ha davvero un sapore particolare: specchio della monumentale architettura staliniana, elegante pur se stucchevole lungo la Prospekt Skaryny, ma anche involontaria riproduzione della provincia nordica nei parchi e nelle vie attorno al torrente Svislach. Le storie quotidiane sono il rientro dei soldati alla caserma, i percorsi accidentati per schivare il ghiaccio sui marciapiedi, l'affollamento alle fermate del bus, la squadra raccolta davanti al complesso sportivo, la scuola guida che ripete eternamente un breve circuito appositamente concepito, la coppia in visita al museo d'arte per l'esposizione di ceramiche giapponesi (una stanza). C'è anche un fazzoletto di case ricostruite a due-tre piani, dichiaratamente false eppure romantiche nel loro colorato incedere parallelo al torrente: è qui che battezzo la mia cena, nella quale non posso esimermi dal rendere omaggio al gusto locale consumando funghi. In un angolo appartato, in un curioso edificio a foggia di chiesa tradizionale, faccio la conoscenza dell'altra anima della città, quella prettamente genuina dei locali meno pretenziosi: i prezzi sono dieci volte inferiori rispetto ai più eleganti pub del centro, e posso finalmente assaggiare birra bielorussa (la Lidskaja, senza infamia e senza lode). Il contatto umano con due ragazze, al di là dell'impossibilità di comunicazione per via dei differenti idiomi, mi riserva la sorpresa più gradita: riesco a far loro capire che desidero sapere se preferiscono essere bielorusse o sotto la Russia. La risposta è netta e chiara (mentre un militare dal bancone osserva attentamente gli avventori): con le dita mimano il profilo della loro nazione, accompagnando con un gesto di allontanamento la parola Russia. Come si fa a non amare questa terra? Il treno dell'indomani mi aspetta per riservarmi diverse sorprese: una stazione di livello europeo, un gruppo nutrito di persone eleganti che termina la propria corsa nella città ‘fantasma' di Smorgon (ignorata da buona parte delle tristi mappe occidentali), il conciliabolo tra due poliziotti di frontiera indecisi se timbrarmi il passaporto in uscita. Ecco dunque la Lituania, non ci sono troppo con la testa, persuaso dalla mia categoria mentale che lega a doppia mandata questa nazione con la Polonia (la storia parla chiaro, no?), come è che era l'aneddoto del Faubourg? Anche qui ci perdiamo, passeggiamo a lungo sotto gli alberi, incrociamo laterali che non avremmo mai immaginato. Quando hai fretta, hai sempre meno tempo. Così Novy Vilna nella mezzanotte imminente riecheggia un quartiere di Danzica e la musica del bar dell'hotel prezzato di moquette viola e frigobar da bandiera, mi fa quasi girare a cercare i miei compagni del viaggio polacco. Il risveglio porterà idee più chiare e determinazione, fame di monumenti e strade: il vasto spiazzo della cattedrale, le viuzze tortuose di palazzetti antichi, gli scorci romantici lungo il corso del Vilnia, il cartello della repubblica quartiere di Uzupis. Le vaste dimensioni del centro storico (non credete a chi parla di fazzoletti) condizionano l'appeal, fuori dell'arteria principale è facile trovare transenne e polvere, i pochi inserti moderni a stonare particolarmente vista la colorata omogeneità barocca del resto. Ma il mattonato baltico è ovunque, le insegne delle farmacie mettono in posa i pochi turisti, i lavori in corso promettono di valorizzare un patrimonio comunque considerevole che ha negli splendidi cortili dell'università la sua punta d'iceberg. Un tortino ripieno di funghi, annaffiato di Utenos, concede un po' di annebbiamento felice al pellegrinaggio rituale dinanzi al curioso busto di Frank Zappa (unico al mondo), al trotto rimandato verso la periferia di giorni che non verranno mai, al divagare lungo le vie di fuga della Gedimino Prospektas, elegante arteria commerciale che un giorno sarà pedonalizzata. Quando uno splendido tramonto cala su Vilnius, l'occhio cade per caso su una targa automobilistica che riporta la bandiera nazionale ed improvvisamente ci si rende conto che le chiese cadenti forse sono un pretesto e che il vero ‘problema' di questa città è che non sembra ancora una capitale; il primo decennio dopo la libertà è sempre quello più difficile. Soste prolungate in due locali con terrazza sul passeggio correggeranno impressioni di provincia, impressioni di saccenza, prima di un breve giro dell'ex-ghetto nel quale una sola sinagoga rimane a perpetuare la memoria del massacro di 80.000 ebrei durante l'occupazione nazista. Ma è già tempo di treni con vagoni deserti e di polizia di frontiera, questa volta quella lettone, assai poco inquisitrice, poiché tra paesi baltici i controlli sono da tempo ridotti, che nelle piccole comunità di stati indipendenti risiede il germe di ogni libertà passata e futura. ‘I'll be coming home next year...' cantano i Foo Fighters, alimentando l'euforia per un viaggio che sembra ancora interminabile e che prevede l'amata Riga come prossimo feticcio, a lungo rimandato e ora emergente dalle nebbie del ponte ferroviario con le sue tre splendide, indimenticabili torri. Caos localizzato da prima mattina, tram che concludono la prima corsa, persone che escono da locali già aperti (e che probabilmente non hanno mai chiuso), persino un orribile parcheggio dai giorni forse contati: ogni dettaglio mi fa rallentare un secondo, sospirare e pensare alla mia felicità. L'impatto con il cambio risveglia improvvisamente altri sentimenti, la memoria torna alle pagine della guida imparate a memoria nelle notti in cui tutto questo era solo un sogno di carta, ‘la nuova Svezia', i costi occidentali: il dollaro si è svalutato un po' troppo nei confronti del lat. L'immediata controprova, caffè con pasta al cocco da Delikatessen, si paga in centesimi e allora lo sguardo alzato al cielo incontra uno dei tantissimi frontoni gotici triangolari, i favolosi locali di cui la città abbonda saranno miei. Camminare per i vicoli del centro storico in questa fase storica è anche immaginarsi i lavori di recupero delle aree più marginali; fermarsi ad ogni angolo di strada è l'interrogativo di chi concepisce un palazzo d'epoca, un'area verde, un funzionale edificio moderno, amorevoli ricostruzioni di case corporative, sul frontone la doppia data dell'originale e del ‘rinnovamento'. Sovietici, ci avete provato a rendere brutta questa perla, ma non vi siete nemmeno impegnati troppo. Riga è indugiare a lungo nelle stesse strade, un particolare ogni volta diverso ad attirare l'attenzione, il ‘Fuggerei' e i suoi simboli araldici, le auto confinate da barriere a pedaggio, l'allure da ombre cadenti che sembra rimandare a una città del nord della Germania (i mercati molto ‘amburghesi'). Cito in ordine sparso: l'abside della chiesa di S. Giovanni, i tre ‘fratelli', l'edera nei bar dai tavolini alla francese, la vista panoramica dalla torre di S. Pietro, il Parlamento, la Piazza della Filarmonica dove una pittura murale, recuperando le potenzialità commerciali degli albori pubblicitari, riproduce un'attrice francese e il suo prodotto di bellezza. L'incredibile organo della cattedrale raccoglie fondi per le vetrate e gli stipendi dei giornalisti del Baltic Times, i canali che cicumnavigano sognando angoli verdi e quiete da adolescenza eterna sono l'orgoglio consapevole di una capitale entusiasta. Solo uscendo dal delizioso centro si ritrovano segni cospicui del quarantennio sovietico, nella patina di polvere che avvolge ancora le eleganti vie della città ottocentesca, impreziosite da teste di gorgoni e architetture art-nouveau che fanno tornare alla mente una dopo l'altra Praga, Budapest e persino Lipsia. Qui il contributo del cadavere all'obitorio nei confronti del bambino speranzoso è il contrasto epocale e permanente tra l'orribile grattacielo ex-hotel del regime e la fantasiosa struttura a cupole della chiesa russo ortodossa. Ho buoni propositi, un giorno intero di pigrizia ed escursioni buttate, una dignità monumentale superiore alla media, l'Est Europa da sempre la mia parte di mondo preferita (al momento nota). Disamine, domande, mi perderò nel complesso di viuzze e cortili del Konventa Seta, e le birre all'ora dell'aperitivo disorienteranno, infiniti locali in cartellone: caffetterie, pizzerie, ristoranti di ogni cucina, pub tedeschi, irlandesi e inglesi. Notti che iniziano presto ma durano sempre troppo poco, tra cene in due tappe, buffet di patate come se non ci fosse un domani e pellegrinaggi di birrerie (I love you, Aldaris) ad osservare l'incredibile vitalità della gioventù locale. Annoto un ultimo appunto sul mio taccuino: era l'8 Marzo, ho consegnato idealmente un mazzo di mimose a questa meravigliosa donna del Baltico. Un viaggio in bus a destinazione Tallinn regala suggestioni a trecentosessanta gradi, dal contatto umano con la gente del luogo ai paesaggi che scorrono veloci, freddo il vetro una citazione quanto mai pertinente, gli autisti di lingua russa e l'appannamento di coste bordate da foreste. E villaggi di case di legno, poche auto sulla strada, kebabberie che indicano la sopraggiunta immigrazione, neve nei campi e sui tetti. Diverse introduzioni, tutte ugualmente valide, alle concessionarie, agli ipermercati e alle quattro corsie di marcia; ed è ancora una volta l'occasione per l'eccitazione di pervadermi tutto. L'est compare fugacemente nei marciapiedi della stazione, nei cortili di bimbi e cani, nel mercatino delle pulci di periferia, prima di cedere definitivamente il passo alla standardizzazione dei negozi di abbigliamento e della folla indaffarata. Tutto sembra improvvisamente magico: le rare strisce pedonali, l'ufficio di cambio, un negozio di porcellane, vicoli dismessi e squallidi, ambasciate cadenti di paesi vicini. Raramente la suggestione ha preso a tal punto il sopravvento sulla ragione, anche per chi ha sempre vissuto in un mondo personale, che la vita reale è per chi non sa fare di meglio; voci lontane parlano una lingua che capisco, cumuli di neve sporca vincono secondi di ammirazione e nella mente scatta un ritornello ossessivo, la ripetizione da sempre un fardello, ‘non voglio essere da nessun'altra parte se non qui'. L'omaggio al grande LeCoq, un francese giunto nell'800 a gestire un locale e ancora oggi celebrato con la produzione della sua birra, è quello di un pranzo all'aglio, tanto caro al palato locale. Pikk e Lai, strade parallele che salgono nel punto più alto della parte bassa, catalizzano tutta l'attenzione; il resto della città è accademia, completamento, contorno, paragonato alla sobrietà di linee e di colori che fa di quest'area un angolo sospeso nel tempo, di pochi e solitari percorsi quotidiani tra le sorelle del Relais&Chateaux e le gilde custodi di leggende dimenticate. La piazza del municipio è il porto di mare di gite scolastiche scandinave, di negozi di souvenir poco forniti, di vicoli tra le mura medievali, di cantine con armature minacciose e guardaroba vuoti, di trappole per turisti e teenagers chiassosi. Poi scatterà la febbre del sabato sera, coi suoi ristoranti tipici, gli shot nei posti più impensabili, i bar-discoteche con e senza nome. Qui gli estoni godono della prosperità occidentale, a differenza dei Russian speaking, discriminati nell'indifferenza glaciale di un silenzio, davanti a loro l'alternativa terribile di una nuova vita nelle inospitali regioni siberiane. Il mattino della Toompea (città alta), con scatti di fotografi improvvisati, graffiti metropolitani e ripetute soste contemplative, rappresenta la sublimazione di ogni soggiorno a Tallinn, tra scorci panoramici impossibili da riprodurre in qualsivoglia cartolina. E mentre il giro delle conservate mura reiterato con la valigia in un addio dolce-amaro conclude il programma, si fa largo una premonizione che insinua che questo sinora splendido viaggio verrà persino superato dalla meta successiva. Si rallegrino i parmigiani: la stazione ferroviaria locale è talmente poco funzionale da essere pronta per un gemellaggio con quella del Ducato. Il tentativo comico della polizia estone è quello di chi pronuncia un cognome, Narva era la neve sotto la neve nell'altra direzione, poi ecco salire sul treno i doganieri del tricolore slavo e passare davanti a me gli stereotipi autoinflitti con i quali sono stato solito definire negli anni questa famosa nazione: il lungo inverno, l'orso, la madre di tutti i popoli. Sono in Russia! Ovviamente un po' suonato, così da dimenticare il fuso orario e farmi dare la sveglia dal frastuono di tremende melodie contemporanee tunz-tunz che annunciano l'approdo in San Pietroburgo. L'ex Leningrado si presenterà in vestaglia, come colta di sorpresa: stazioni della metropolitana chiuse, quartieri interi di intonaco cadente, fiumane di studenti attorno agli edifici universitari, l'orribile Sennaya Ploschcad (mi perdonerà Fyodor, che tanto l'amava). E poi parchi periferici, lunghissime arterie popolate solo dai pali della luce, auto bruciate, fabbriche dismesse, cantieri navali e puzza di pesce marcio; un contraltare perfetto alla fama della città, un'occasione unica per chi ama sovvertire i pronostici scontati, chiaramente un mero abbaglio da prime impressioni decadenti. L'atmosfera sospesa dei canali sa conquistare il cullarsi delle cuffie in orecchie timorose, il girovagare senza meta tra le lunghe fila di palazzi che chiedono aiuto, lo scoprire d'un tratto i gioielli disseminati con mano sapiente da architetti ispirati. Di questo gigantesco modellino sono parte integrante le persone, come in un puzzle in cui ogni tassello contribuisce alla straordinarietà del tutto: compassate baboushka a guardia di modeste bancarelle di verdura, giovani di entrambi i sessi con l'inseparabile bottiglia di birra al doppio malto, nouveaux riches dalle auto coi vetri oscurati, sparuti e intimiditi beggars seduti all'uscita delle chiese. La prospettica Ulitsa Rossi, i tanti colori del Sangue Versato, la curiosa struttura del Gostiny Dvor (un antenato dei centri commerciali), i leoni alati alla testata del ponte Bankov: particolari da annotare mentalmente nel marasma di marciapiedi sanguinanti, impalcature soffocanti e semafori decisamente atletici. Rimane ancora il tramonto, le ore che corrono veloci verso la prossima era inutile eterna, la nebbia che si alza sulla Neva in un fermo-immagine da portare appresso per il resto dei giorni. Chi siamo noi, in questa vita? L'indomani accoglie con le ali protettive dell'Ermitage, un mondo dalla reputazione persino inferiore alla straordinaria bellezza: la sala di malachite, il corridoio dei ritratti, la scintillante Pavillon Hall, Gauguin e Rembrandt, i giovani russi a seguire la visita guidata con un filo di attenzione in più rispetto ai loro ‘colleghi' del Wisconsin o del Testaccio. Impossibile vedere il palazzo d'inverno con i criteri che qualcuno mi ha sempre dettato, la fretta è mia amica e davanti a un filetto di salmone ai funghi ricorderò le vertigini del suono delle campane alla cupola panoramica di S. Isacco e la sobrietà che qualcuno chiama provinciale dell'isola di Pietro e Paolo. Certo il fulcro di tutto rimane la celeberrima Prospettiva Nevsky, quattro chilometri di moltitudini frenetiche, negozi di CD-ROM, uomini-pubblicità del secolo scorso e ristoranti per tutte le tasche. La poesia è cancellata, e non perché qualcuno abbia indovinato la domanda. Le facce sono assenti, ma Nijinksy non sappiamo nemmeno chi sia, e l'asse portante della finestra russa verso l'Occidente vive degli scorci sui tre canali che l'attraversano; è bello fermarsi al tavolino di un bar con una Baltika inevitabile osservando a lungo le comparse cinematografiche della folla di passanti. La lavra di Alexander Nevsky, coi suoi delicati edifici bianco-rosa, urla la propria condizione disagiata; si è qui per rendere omaggio al grande Dostoevskij e alla prima generazione di compositori russi (Čajkovskij, Musorgskij) oppure per farsi coinvolgere dalla solennità spirituale di un rito ortodosso e riscoprire l'obbligo coscienzioso del risvolto caritatevole. Un'altra torta nuziale bianca e celeste, l'ex-monastero dello Smolny, perde maestosità man mano che vi ci si avvicina, fermo restando il colpo d'occhio iniziale un must di ogni visita. Poi San Pietroburgo gioca l'ultima carta, il jolly: l'area che va dal giardino di Tauride al castello degli Ingegneri è un susseguirsi di edifici di monumentalità atipiche, di graziose chiese in piazzali alberati, poca gente per le strade senza negozi, il tutto permeato da quell'area di ‘prima periferia' che ci ha sempre forato il cuore. Le splendide icone del Museo Russo calano il sipario, l'inefficienza del bus navetta dell'hotel Pribaltiskaya è riprovata, il tuffo nella vita quotidiana di un'anziana coppia di turisti locali assai gradito e illuminante, di metropolitane trasbordanti, venditori di cibo di strada, piastrelle divelte nei sottopassi, ambulanti al ritmo di radioline, bus collettivi e corse da pagare passando i soldi di sedile in sedile fino all'autista. Verrà così l'ora di binari di stazione, soffitti di un'uniformità monumentale del secolo scorso, treni di recente istituzione, kit pranzo di prima classe e distanze da annullare repentinamente (‘...ooh i'll remember Aurora', sempre loro). Ad essere particolarmente fortunati si potrà avere per compagna di viaggio una dama russa di fascino e bellezza, quasi fosse la reincarnazione di una Caterina Nicolaievna uscita da un romanzo dell'Ottocento. E sentirete l'adrenalina dentro di voi per quartieri immensi che ‘portano il nome della grande città ma non ne hanno la storia' (cit.), per le file sterminate di bianco e di grigio, per un taxista onesto da gratificare sulle strisce pedonali di un affollamento da metropoli, per sette sorelle emergenti dalle tenebre a marchiare orgogliosamente il vostro biglietto di benvenuto. Ma la notte di Mosca è pallida, vincolata a promesse di giorni timorosi: è la notte delle insalatine del valor della liretta, di uomini d'affari e di una prostituzione legale di lusso, di banconi fumosi nei pub irlandesi e tentacolari spire di nebbia che si arrampicano fino al ventisettesimo piano, la nicotina a salutare il gargoyle che veglia sulla profondità del tutto e del niente. Un mattino di nuvole e pioggia focalizza la gloriosa Casa Bianca, i grattacieli anni Settanta della Novy Arbat, scorci di una vecchia anima da andarsi a cercare scostando la patina di un'edilizia disordinata, di un paese che mai ha conosciuto la democrazia e forse mai la conoscerà, i casermoni infinitamente lattescenti dei Soviet a prevalere sul vetro e acciaio di un nuovo che di diverso ha solo la facciata. Le lacrime arrivano, attese, quando dall'arco della porta della Resurrezione appaiono miracolosamente le colorate cupole della chiesa di San Basilio, nel punto di arrivo in cui ogni elemento della Piazza Rossa sembra suggerire la perfezione dell'insieme (tacendo ovviamente del mesto mausoleo di Lenin): l'ordinata fila di abeti lungo le imponenti mura del Cremlino, il candore sporco dei magazzini GUM, i disegni colorati di un'agenda che butteremo, i contrasti che si amalgamano nella dilatazione degli spazi. E come spesso mi capita di dire, non ci sarà mai un tempo in cui dovremo ricordare questo luogo, perché sarà sempre parte di noi. Di fast-food si deve vivere nella capitale, tra tricolori italiani rivisitati dall'ignoranza e (pochi) avventori locali ad ogni ora del giorno. Il traguardo successivo richiama istantaneamente secoli di storia burrascosa, l'alternanza di splendore e declino, le analogie più che evidenti tra regimi di opposta ispirazione politica, l'autocommiserazione che cade nel fatalismo. Impossibile non immaginarsi, nel momento in cui un poliziotto fischia ripetutamente a turisti giapponesi usciti dal percorso obbligato, l'aria rarefatta tagliata solo dai plotoni militari e dalla limousine di Breznev. Tutta la Russia è qui, racchiusa in uno scrigno di pietre preziose, pronta a farsi scoprire da chiunque ne voglia conoscere le incredibili, terribili, affascinanti vicende. E a chi volesse restare incantato suggerisco, in un pomeriggio di sole, di fermarsi sul ponte sulla Moscova a contemplare il rosso mattone brillante delle torri, il verde dei tetti, il giallo dell'armeria, il bianco delle meravigliose cattedrali sormontate da ciuffi di cupolette dorate. Luzhkov lavorò proprio bene, tra la ricostruzione della rilucente cattedrale di Christ the Saviour e il discutibile, gigantesco monumento di Pietro il Grande, un padre-padrone come tanti in questa terra da sempre dominata da figure ‘forti'. Turista, mettiti a cercare le innumerevoli chiesette soffocate da un condominio, nascoste dietro a un angolo di strada o mimetizzate dai rami degli alberi, che il lato giusto della medaglia era quello che sorpassava il divino. Turista, fatti conquistare dalla superba raccolta di pittura russa della galleria Tretjakov (cito i miei preferiti: Levitan e Nesterov). Più difficilmente invece qualcuno si spingerà a piedi sino al Monastero delle Vergini, a respirare aria di villaggio nella vita quotidiana di un quartiere povero, di cumuli di neve nera, di portoni di condominii aperti per i giochi dei bambini, di ciminiere accese di un presente immutabile. L'Arbat chiuderà il cerchio, con le sue bancarelle di matrioske, i baracchini che vendono birra per pochi rubli, le ragazze a coppie che ridono e aspettano sempre, i locali in fila indiana di un tourbillon di ricercatezza e pretese; una sorta di ombelico moscovita che può indurre a dedurre senza troppa fatica vizi e virtù della megalopoli. Ed ecco il taxista attraversare con me la sterminata distesa di casermoni del regime, parlare di Juventus, intuire che sto perdendo il mio gioco preferito; per quanto possa essere bello e lungo un sogno, giunge sempre il momento di svegliarsi.

Lorenzo Zucchi

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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