Appuntamento al vecchio mulino
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Quelle parole, quelle tre parole che il medico aveva pronunciato durante la visita, l'avevano sconvolta. Come era potuta succederle una cosa del genere? Come avrebbe risolto la questione? Non sarebbe stata in grado di portare a termine un così gravoso impegno. Una responsabilità troppo grande, da prendere così all'improvviso. - Lei è incinta - , le aveva detto. Era incinta. Teresa Conticelli era incinta. - E ora? - Si chiese. Uscita dall'ambulatorio decise di lasciare la macchina al parcheggio e di fare una passeggiata per assimilare la notizia. Era stravolta, il cuore le batteva all'impazzata e le gambe le tremavano. Lo shock si tramutò in risata isterica non appena vide una ragazza con il pancione entrare nella struttura, accompagnata da un ragazzo, probabilmente il padre del bambino. Istintivamente, senza nemmeno rendersene conto, si mise la mano destra sulla pancia. Lungo il viale che costeggiava il fiume, trovò una panchina e si sedette dopo aver tolto delle foglie. L'autunno regalava dei colori splendidi, che andavano dal giallo splendente al rosso fuoco; il verde, ormai sbiadito, le ricordava il colore delle foglie delle sue piante in soggiorno. Ad ogni modo era la stagione che più amava, quella nella quale il suo corpo trovava comodamente il suo posto nel mondo. Sin da quando era piccola amava l'autunno. Le piaceva correre tra i prati e raccogliere foglie colorate dalle mille sfumature. Le erano sempre piaciute le giornate corte, le luci accese delle cucine, all'imbrunire. Un periodo romantico, a differenza di quanto, caratterialmente, fosse lei. Su quella panchina si lasciò andare ad antichi ricordi; ricordi che non aveva fatto riaffiorare nella sua mente e nel suo cuore per troppo tempo. Li aveva lasciati chiusi in un cassetto dell'animo. Su quella panchina volle cercare la chiave e aprire quel cassetto, il custode di tante memorie. Guardando la gente passare lungo il viale, già coperta da maglie dalle maniche lunghe e da giacche a vento, si vide bambina a spasso con suo padre. Amilcare Conticelli, grande uomo dal grande onore e dalla forte dignità, proveniva da una famiglia povera, contadina, e aveva continuato a lavorare la terra fino alla fine dei suoi giorni, fino a quando le sue rughe erano diventate i solchi che lui aveva seminato per tutta la vita con grande amore. Un contadino di vecchio stampo, un bravo lavoratore, ma soprattutto un uomo che aveva amato molto sua moglie Agata, morta prematuramente, quando Teresa aveva appena dodici anni. Su quella panchina Teresa pensò a suo padre e alla sua forza di volontà nell'aver saputo e voluto crescere una bambina da solo, in quella casa di campagna a pochi chilometri dalla città. Un altro mondo, un'altra epoca. Teresa amava suo padre, lo aveva amato molto e lo ricordava sempre con dolcezza e dolore. Ricordava le passeggiate domenicali in città, proprio lungo quel viale, dove ora vedeva altri padri passeggiare con altri bambini. Raccolse da terra una foglia e la guardò come se fosse un gioiello importante. Una lacrima rotolò rapida lungo la guancia, ma si affrettò ad asciugarla. Perché le veniva da piangere? Per suo padre? Per questa notizia sconvolgente? Perché era felice? Quest'ultima domanda la fece sobbalzare. A quarantasette anni la vita le aveva fatto un regalo da aprire da lì a sette mesi. Sarebbe stato il regalo più bello del mondo, pensò. Sì, era felice. Pianse di gioia. Lo shock iniziale si trasformò improvvisamente in immensa felicità, esaltazione, paura, terrore. Sensazioni indescrivibili la travolsero come un uragano pieno di emozioni. Quel pianto la rasserenò e a quel punto, sulla pancia, mise tutte e due le mani. Lo avrebbe protetto da subito. Ripose quella foglia tra le pagine dell'agenda. Ce l'avrebbe fatta. Le sue priorità erano cambiate da un momento all'altro. La sua ultima storia d'amore si era conclusa da qualche mese e da allora non aveva più avuto storie importanti. Era uscita con un paio di uomini, niente di importante. Uno di questi era il padre del bambino, ma a lei non importava. Quell'uomo non l'avrebbe mai saputo. Avrebbe fatto tutto da sola, il bambino sarebbe stato unicamente suo e l'avrebbe cresciuto da sola, come aveva fatto suo padre con lei, da un certo punto in poi.
***
- Bambina mia, ti devo dire una cosa. Vieni, amore. - Suo padre sapeva come parlarle, come starle vicino, come ascoltarla e come giocare con lei, nonostante la stanchezza infinita che provava a fine giornata. Il legame tra i due era nato qualche secondo dopo la sua venuta al mondo. Quella bambina piccolina, con tanti capelli, gli aveva rubato il cuore. L'amava più della sua stessa vita. Dal primo momento in cui l'aveva tenuta tra le braccia, aveva saputo che l'avrebbe protetta a costo della vita. - Dimmi papà - , rispose, sorridente, quella meravigliosa bambina di dodici anni, dalle lunghe trecce castane. Stava giocando con la sua bambola in giardino, mentre il cane, un pastore tedesco, la teneva d'occhio e le leccava i piedi in segno d'affetto. Era l'estate del 1972 e tutte le radio mandavano in onda la canzone dei Nomadi - Io vagabondo - . Lei la adorava, nonostante non capisse il significato delle parole e della canzone stessa. Suo padre la prese per mano la portò sulla sedia a dondolo che aveva posizionato qualche anno prima sotto il salice piangente. Si sedettero vicini ma, per qualche minuto, nessuno dei due parlò. Teresa non capiva molto bene il perché di quello strano silenzio. Aveva notato il suo volto scuro e gli angoli della bocca incurvati verso il basso. - Perché sei così triste, papà? - chiese ingenuamente la piccola Teresa. - Sai amore, la mamma mi ha detto di dirti che ti vuole tanto bene - , le parole gli morirono in gola. Gli occhi lucidi liberarono le lacrime imprigionate contro la loro volontà. - Anche io voglio bene alla mamma. Dov'è? - chiese Teresa, senza smettere di accarezzare la sua bambola di pezza. - È andata in cielo a trovare la sua mamma e il suo papà - , disse nella maniera più semplice possibile, per arrivare dolcemente al cuore della figlioletta. - Tornerà a casa? Dobbiamo andare a prendere le scarpe da danza. - - No amore, andremo insieme io e te a prenderle. Va bene? - la rassicurò Amilcare. - D'accordo. Ma la mamma sta bene ora? - chiese, con le lacrime agli occhi. - Benissimo, non preoccuparti. Ti guarda da lassù - , disse mostrandole, con il dito, il cielo. - Ciao mammina. - La salutò con la mano. Aveva capito.
Su quella panchina Teresa ricordò il volto di sua madre, distrutta dal dolore. Ora sarebbe diventata mamma e avrebbe fatto di tutto per rimanere al fianco della sua creatura. Sua madre sarebbe stata al settimo cielo nell'apprendere una notizia del genere. Sarebbe diventata nonna e avrebbe sicuramente viziato il bambino, o bambina che fosse. Ne era certa. Come trentacinque anni prima, Teresa salutò sua madre con la mano, guardando il cielo. - Ciao mammina. - Accarezzando teneramente il suo ventre, Teresa guardò l'altra riva del fiume. In lontananza si vedevano alti edifici e grattacieli che, in quel momento particolare, sembravano appartenere a un altro mondo. Per un periodo di tempo aveva fatto parte di quell'ambiente, fatto di ristoranti e party, serate stravaganti e conoscenze che non portavano a nulla. Per anni aveva creduto di poter sostenere il ritmo frenetico della grande città, il traffico, i rumori, il viavai della gente, l'indifferenza della gente. Aveva vissuto in un grattacielo in centro, convinta che solo in quel mondo si poteva arrivare ovunque. Aveva avuto per diversi anni un'agenzia immobiliare, ma la crisi, unita all'alta concorrenza, le avevano fatto chiudere l'attività, vendere l'appartamento e spostarsi in periferia. Quel cambiamento drastico, però, non l'aveva sconvolta. Era riuscita, grazie al suo carattere poliedrico e organizzativo, ad adeguarsi perfettamente. Si era messa in discussione e aveva rispolverato quel vecchio sogno di aprire una piccola libreria. Perché non l'aveva fatto prima? Casi della vita, una nuova sfida: arrivare dove altri avevano fallito e portare un po' di cultura e letteratura nelle zone più dimenticate. Ne andava fiera. L'aveva chiamata - Le favole di Agata - in onore della madre, grande lettrice, appassionata di storie d'amore e di cavalieri.
***
- Teresa, tesoro, mettiti il pigiama. Arrivo subito a leggerti qualcosa - , la voce dolce e piena di amore di sua madre la rassicurava, la faceva sentire protetta e tanto amata. Adorava sentire il suono della sua voce mentre le raccontava una favola o le leggeva degli stralci di qualche libro più importante. Teresa amava - La piccola fiammiferaia - e - Canto di Natale - . Li sapeva a memoria. - Va bene, mamma. - Aspettava con ansia quel momento tanto intimo che condivideva con la mamma. Una volta sotto le coperte, la chiamava. - Sono pronta. Vieni? - - Arrivo tesoro. Cosa vuoi che ti legga? - le chiese sua madre. - La piccola fiammiferaia - , rispose Teresa. - Di nuovo? Ma te l'ho letta ieri sera. Ormai la saprai a memoria - , le rispose la donna con quel suo sorriso incantevole. - Ultima volta. Te lo giuro - , urlò dalla sua stanza. E sua madre leggeva, leggeva, fino a farla addormentare. Sapeva che non avrebbe visto sua figlia crescere, non l'avrebbe vista adolescente, donna, madre e moglie. Doveva e voleva godere di quei momenti come se fossero sempre gli ultimi. La malattia la stava consumando. Quell' - intruso - , come chiamava lei il tumore al seno, l'avrebbe portata via dai suoi affetti, dal suo amato marito, da Teresa, da quelle umili quattro mura che tanto amava. Lei e Amilcare avevano deciso di non dire nulla alla bambina per non turbarla e per farla vivere tranquilla e serena. Era troppo piccola per certe dolorose spiegazioni.
Raffaella Vittori
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