Prologo. avevo una migliore amica e un fidanzato con cui ogni giorno mi trovavo a scuola e passavamo intere giornate insieme. Con Kamille eravamo piuttosto unite anche perché ci conoscevamo dalle medie, ogni tanto andavamo fuori le regole ma sempre nei limiti. Lei era la classica studentessa modello, molto bella e senza niente da dirle mentre io la sua semplice migliore amica. A dire il vero ce la tiravamo anche un pochino con le altre ragazze tanto per ridere, non facevamo mai del male a nessuno e se avessimo potuto avremmo aiutato chiunque si trovasse in difficoltà. Poi un giorno conobbi David un ragazzo del penultimo anno, noi eravamo già all'ultimo e lui aveva bisogno di un aiuto con la matematica per recuperare e non perdere l'anno scolastico. Chiesero a me di fargli delle lezioni perché ero solita dare ripetizioni per prendere dei crediti in più che mi sarebbero serviti per il college. Era un tipo abbastanza movimentato ma con me cambiò completamente fino a diventare quasi tranquillo, ci incontravamo ogni tanto a un pub vicino la scuola e andavamo a bere una birra. Col tempo io, Kamille e David diventammo amici inseparabili fino alla fine del liceo anche da parte di lui. Decidemmo di fare una vacanza verso la East Coast dato che noi eravamo nella West Coast e non ci eravamo mai spinti oltre. Ma quel viaggio è ancora sospeso nel vento, non è mai avvenuto perché mentre ci apprestavamo a lasciare la California avvenne un incidente. A un incrocio all'apparenza innocuo un camion prese in pieno la nostra auto, ricordo ancora che stavo guardando Kamille e ridevamo dei capelli di David che avevano un aspetto del tutto bizzarro. L'ultima cosa che ricordo sono le nostre risate, i nostri sguardi e l'impatto. Purtroppo, mi sono salvata, lei è morta in un giorno afoso di agosto insieme al mio fidanzato. Quel viaggio non è mai stato fatto, ho ancora paura ad attraversare un incrocio senza tremare. Mi sono ripresa dall'incidente solo tre mesi dopo, avevo riportato delle ferite piuttosto profonde e ancora ne porto qualche cicatrice sulla schiena e sul petto. Ho smesso di studiare e di fare qualsiasi cosa che mi facesse bene, non ho più sorriso e non ho più vissuto. Il mio corpo è qua ma la mia anima è andata in mille pezzi da un anno ormai. Oggi è il ventisette agosto, la data che ho impresso con un tatuaggio sul mio cuore, la data della mia stessa morte interiore. Lo sento. Sto andando in mille pezzi ogni giorno sempre di più. Ho trovato una strada che mi dà una gioia apparente, un sollievo dal dolore e che non mi fa pensare. La droga. L'alcool. La perdizione. Se esiste un Dio spero che mi salvi, che mandi qualcuno a darmi finalmente la liberazione che merito. Non ho mai fatto del male a nessuno e devo sopportare tutto questo, con il peso che anche la mia famiglia non mi sostiene più. Sono abbandonata a me stessa. L'inferno Una nuova giornata di questo agosto infernale si prospetta dinanzi a me, come posso fare ad andare avanti? Ancora non me lo spiego e sono ormai tanti mesi, un anno per dirla tutta, che non riesco a riprendermi. Mia madre sin da quel maledetto 27 agosto continua a starmi vicina nonostante tutto. Ma sono sola e lo sono ogni secondo di più. Era tutto bello, andava tutto bene e non avevo pensieri, vivevo la mia età per come doveva essere vissuta in California. Il giorno lo passavamo a scuola e la sera uscivamo nei pub o alle feste in spiaggia verso Malibu, ma adesso non è più così. Ho vent'anni e mi sento il peso di una vita intera perché non c'è più motivo di vivere ora. Mi ritrovo continuamente a fissare lo schermo del cellulare in cerca di un messaggio o una telefonata da parte di Kamille, ma lei non si è fatta più sentire perché nell'aldilà non c'è un modo di potersi sentire e alle volte ho cercato di arrivare quasi alla morte. Giuro di aver sentito la voce di lei e di David nel momento in cui sono stata a un passo da loro, forse ho rivisto anche i loro volti e mi mancano terribilmente. Sento un groppo in gola che non mi fa respirare e mi fa morire giorno dopo giorno, io ero in auto e sono sopravvissuta e per quale motivo? Per portarmi dietro il ricordo di un dolore che non posso colmare? Per portarmi la ferita aperta dentro il cuore che sanguina e non smette? Mi ero ripromessa di trascorrere una vita con David. Lui mi aveva da poco regalato un anello che sanciva il nostro primo anno insieme ed ero così euforica che mi sentivo felice tanto quanto l'invito al ballo di fine anno. Era tutto prezioso e ogni attimo ce lo godevamo, ho fatto l'amore con lui e ora sento sempre di più la sua mancanza. Qualche volta ho la sensazione di sentire ancora il suo profumo su di me, mi sembra che nella notte le sue mani mi sfiorino ma sono solo mere illusioni. Lo amavo e l'ho perso malamente in un modo così brutto senza potergli dire addio. Perdere la migliore amica e il proprio fidanzato, nello stesso incidente, sopravvivere, credo sia la cosa più brutta che potesse capitarmi. Non so più ridere e non so più vivere, adesso cerco di occupare il mio tempo con l'apparenza di una felicità illusoria, con un qualcosa che non potrà mai appagarmi totalmente. Sono nella mia stanza, quella che un tempo era la stanza dei divertimenti e delle abitudini tipiche degli adolescenti. Qualche foto in ricordo di gite liceali, molti manifesti e poster di cantanti, è rimasto tutto com'era. Ma con quel tutto intendo l'arredamento; un letto, una scrivania ormai spoglia, una libreria logora e dondolante e un piccolo armadio per i vestiti. Ho tolto ogni cosa che potesse farmi sorridere, ho tolto il ricordo di un qualcosa che non ritornerà mai più. La luce fuori è accecante e il bagliore penetra attraverso le tapparelle che mi infastidiscono non poco. È caldo e dovrei essere a godermi il sole in spiaggia come tutti i coetanei, ma non ho intenzione di mettere piede fuori. Ho paura anche solo di un sorriso. La dose giornaliera di - fabbisogno corporeo - l'ho appena assunta, non so quanto durerà ma sto meglio, oramai ne sono così assuefatta che se non esagero non riesco nemmeno a sentirne gli effetti. Proprio per questo, dopo una speed piuttosto intensa sono quasi morta di overdose e solo mia madre mi ha trovata in fin di vita. Se non fosse stato per il suo maledetto salvataggio sarei finalmente libera e sarei andata a trovare quella pace che non c'è più. Credo adesso di poter scendere a mangiare qualcosa, giusto per far contenti i miei genitori che non fanno altro che portarmi da un centro per tossicodipendenti a un altro; io non ne posso più delle loro sfuriate. Tutto è cominciato solo dalla mia ripresa appena uscita dall'ospedale. Tre mesi di coma, tre mesi di non ricordo e non ritorno perché non riesco davvero a capire che fine avessi fatto, sembravo viva ma ero quasi morta. Sentivo le voci dei miei genitori ma non riuscivo a comunicare o a svegliarmi, capivo parole come - morte - e - incidente - ma per me era tutto allucinante, sembravo in un incubo. Ciò che continua a rimanermi nella mente è la voce di Kamille che mi diceva di vivere e di resistere, che potevo farcela e che niente per me era ancora detto, dovevo lottare. Io le dicevo di no ma ero come muta e non potevo tirar fuori la voce, urlavo ma in silenzio e lei sorrideva. L'ultima cosa che ricordo prima di risvegliarmi dal coma è la voce di David e il suo volto, mi stringeva la mano e mi sussurrava di non demordere, che avrei trovato prima o poi la mia pace e di non pensare più a lui. Poi un bacio e il risveglio d'improvviso. Tremavo e urlavo, i medici mi sedarono e i miei genitori rimasero ancora al mio fianco. L'avevo sognato, ma quando fui sveglia abbastanza da comprendere, capii che quello era il loro addio e che non ci sarebbero più stati, tutto ciò che ora mi torna in mente è quel suono stridulo delle ruote, un clacson e un forte schianto. Vorrei tanto poter tornare indietro e prendere quella strada che suggeriva Kamille, una scorciatoia per evitare il semaforo e sono certa che sarebbero ancora vivi. Mi sentirò per sempre in colpa. Dovevo dire a David di svoltare, dovevo insistere. Esco dalla mia stanza buia e le luci del piccolo antro prima di raggiungere il soggiorno quasi mi accecano, mi tappo con il braccio sulla fronte e cammino. Tra la dose di cocaina e tutta questa luminosità barcollo leggermente, ma strisciando quasi al muro riesco a superare il soggiorno dove mio padre è seduto sul divano a leggere e raggiungo la cucina. Mi siedo sotto gli occhi scrutatori di mia madre. - Megan, non pensavo saresti stata dei nostri. - Annuisco senza parlare, come faccio sempre ultimamente. - Che cosa desideri? Delle uova con un buon bacon? Lo abbiamo appena comprato, potrei fartelo in padella come ti piaceva tanto. - - Piaceva a Kamille. - Le mie uniche frasi che sono solita dire ultimamente non vanno oltre al - piaceva a Kamille - - lo desiderava David - o semplicemente annuisco o nego con cenni della testa. Credo che mia madre mi odi, ma come posso dirle di non farlo? Io stessa mi odio. - Su Megan. È una bella giornata di sole, cerca di mangiare qualcosa e poi esci con me. Andiamo un po' al mare. - - No! Cazzo! Non è una fottuta splendida giornata di sole, come puoi solo dirlo? Sei una stronza. Mangiatelo tu quel bacon da quattro soldi. - Mi alzo arrabbiata e torno a corsa in camera, ho bisogno di una sigaretta. Devo trovarla e fumare, sto perdendo il controllo e tremo. La cerco, credo di avere un pacchetto intero nella borsa e fortunatamente è così. L'accendo e faccio un tiro, mi sento meglio e posso respirare, come ha potuto solo dire una cosa del genere? Come può definire questo giorno - una bella giornata di sole - sapendo che un anno fa esatto sono morti i miei più cari compagni di vita? Io la odio. La detesto e lei non fa niente per non farsi detestare. Prendo la giacca di pelle, anche se fa caldo me ne sbatto perché ormai preferisco subire ogni male pur di provare ancora qualcosa, esco di casa a corsa ignorando gli sguardi severi dei miei genitori, mi appresto ad andare al solito posto dove posso restare con me stessa a pensare e dove nessuno l'estate si spinge così tanto per prendere il sole. Lì riesco a pensare liberamente, a sentirmi in pace con me stessa ed a guardare il mare senza morire dentro. Guido fino a El Matador Beach, a Malibu è l'unico posto dove te ne puoi stare in fottuta santa pace. Quando ho detto che avrei guidato fino alla spiaggia intendevo che avrei preso la mia moto. Non credo che metterò più piede su una vettura a quattro ruote perché ne avrei il terrore. Mi feci regalare una moto piuttosto potente da mio padre per il ventunesimo compleanno. Che cosa potevo desiderare? Tutto ciò che volevo non sarebbe mai più ritornato e allora cerco ogni volta un brivido che mi faccia sentire ancora qualcosa. Cerco la vitalità in gesti estremi, cerco l'eccesso e l'adrenalina di una vita che non mi sarebbe mai appartenuta se i miei amici fossero vivi. Ero tutto l'opposto di quella che sono diventata, forse una piccola parte della vecchia me è nascosta in qualche angolo recondito ma non saprei dirlo con fermezza perché dovrei trovare una ragione per scoprirlo. Ho chiuso il mio cuore, ho scelto le lacrime e il dolore, ho scelto la droga e tutto ciò che mi porta a non pensare. Ho scelto l'alcool e non vivo più senza. Sono finalmente arrivata alla spiaggia dove si ergono enormi faraglioni in mezzo alla sabbia, ci sono scogliere e antri nascosti dove nessuno può venire a romperti le palle. Ho le cuffie e ascolto - The End - dei Doors. Credo sia in tema con tutto ciò che sento e provo, perché dovrei aver voglia di vivere? Mi ricordo quando venivo qui con Kamille da ragazzine quali eravamo alle medie ed era un ricordo felice. Io correvo lungo la spiaggia mentre lei cercava di prendermi e vedevamo ogni tanto qualche sposa che si fermava per delle fotografie, allora noi andavamo vicino e di nascosto la schizzavamo con l'acqua e poi fuggivamo. Ci facevamo così tante risate che ancora se ci penso riesco a poter ridere da sola. Lei non aveva avuto una vita semplice e i suoi genitori la trattavano in maniera fredda, perciò, con me si era creato un legame speciale e le piaceva venire a casa mia a passarci intere settimane. Mia madre era sempre d'accordo perché non ci trovava niente di male, io ero felice e per me divenne come una sorella. È stato un macigno sul petto perderla, anche il tatuaggio uguale che ci facemmo alla fine del liceo è rimasto un ricordo che mi fa così male tanto che ho tentato spesso di toglierlo usando delle lamette. Ma quel piccolo acchiappasogni è ancora lì e intorno ci sono solo cicatrici perché non ho mai avuto il vero coraggio di inciderlo con una lametta, era come perdere Kamille una seconda volta. Che cosa potrei chiedere adesso al mondo? Una vita migliore? Un nuovo ragazzo magari o che ne so... un lavoro? Non credo proprio e non so nemmeno quanto potrò vivere perché mi porto queste ferite in tutto il corpo che mi fanno male ogni volta che mi muovo, è stato faticoso e lungo riprendersi. E dovrei continuare a vivere a Malibu? La città di mare più ambita dal mondo e che mette allegria anche in una piovosa giornata invernale. Io non so davvero che cosa fare ma vorrei uscire da questo limbo infernale, vorrei che tutto ritornasse com'era e adesso sarei al college con Kamille e felicemente fidanzata per il secondo anno di seguito con David. Il mio dolce David dagli occhi ambrati era la mia ragione d'esistere e il nostro amore nato per caso mi aveva scossa dentro, mi ero concessa al suo corpo e lui era stato così dolce. Perché deve far male vivere? Più sento questa canzone, più la mia dose di cocaina mi fa effetto, e certe volte sento una sensazione di formicolio su per lo stomaco che mi fa percepire la sensazione della fame. Vorrei davvero che fosse la fine, qualcosa per cui porre termine a un'esistenza senza senso. Sento il rumore delle onde anche se ho le cuffie, lo percepisco nelle vibrazioni del mio corpo e il caldo mi fa sudare, ma non mi spoglio. Non mi metterò mai più un costume con il rischio di mostrare le mie ferite aperte, le mie cicatrici e far capire ciò che è stato. Per tanti mesi anche dopo il mio coma si è parlato di quel brutto incidente e molti giornalisti e testate di riviste si sono posizionate fuori da casa mia per avere la vera versione dei fatti. Il fatto è che ho preso tanti soldi per quell'incidente e anche le famiglie di Kamille e David ne hanno presi, ma una volta che la ragione di vivere svanisce o che perdi un figlio, un fratello, o un nipote che cosa te ne fai dei soldi? Preferirei mille vite da povera ma con loro accanto. Preferirei guadagnarmi i soldi pulendo dei cessi delle stazioni di servizio ma tornare a casa e sapere che se chiamo il numero di uno di loro due, dall'altra parte avrò risposta. L'ho fatto così tante volte di telefonare, chiamavo David e scattava la segreteria, mandavo un messaggio e aspettavo la sua risposta. Sapevo che non sarebbe mai arrivata ma per qualche motivo il fatto di avere il suo numero nella rubrica, la sua foto e i suoi vecchi messaggi, mi faceva sembrare tutto come prima. Era un'illusione. È sempre tutto un'illusione e anche io stessa sento di essere l'ologramma di me stessa che vegeta anziché vivere o respirare. Tiro fuori dalla tasca la mia bustina contenente la cocaina e senza esser vista da qualcuno mi faccio una striscia veloce, perché fortunatamente sono sola, nascosta sotto un faraglione all'ombra del sole. Sotto queste rocce che bruciano di un calore che non so più provare. Mi sento quasi meglio e questa è la terza dose, la musica mi fa vacillare e ondeggio su me stessa. Potrei accasciarmi e dormire, potrei morire affogata e non ci vorrebbe niente a farlo. Voglio che sia la fine, voglio rivedere Kamille e David. Sono diventata un peso per i miei genitori anche economicamente e lo capisco, lo sento quando parlano di nascosto credendo che io non riesca a captare qualcosa. Ma in realtà ho sentito ogni loro conversazione e spesso ciò che dicono è che non vedono l'ora di riavere quella ragazza innocente che chiedeva permesso anche solo per fumare una sigaretta. Sono un mostro. Ma è stato il mondo a farmi divenire tale. Io sarei ancora quella brava ragazza acqua e sapone che se ne va in giro con il fidanzato e la migliore amica per una semplice vacanza nella East Coast; non sarei quel mostro che veste solo di nero, che non fa vedere più i suoi occhi cerulei divenuti scuri con le pupille a spillo e non sarei più quella - maledetta - come sono ormai definita dai vicini. Questi faraglioni mi fanno sentire al sicuro come se niente potesse scalfirmi, come se ci fosse un mondo intero a cercarmi per colpevolizzarmi di un qualcosa che non sento appartenermi. La testa è così leggera che sento di volare e forse ho esagerato con la dose ma ciò va solo a mio favore. Se potessi farmene una ogni poco lo farei ma alle volte c'è qualcosa nell'aria che mi spinge a smettere. I riflessi non sono poi così pronti e cerco di sdraiarmi tra le rocce ma non riesco a capire come devo mettere il piede destro, tentenno un pochino tra due piccoli scogli. Cazzo. Cado a terra, forse ho sbattuto la testa non riesco bene a capire ma sento sapore di ferro sulle mie labbra, mi sfioro con le dita e vedo rosso. Sono rovinata a terra e ho preso in pieno quello scoglio che volevo evitare, ma tanto che cos'è questo dolore fisico in confronto a quello interno? Che cosa potrebbe mai peggiorare? Ho così tante cicatrici che potrei unire i punti e riuscirei a trarne un disegno. Da qualche parte, su una di queste rocce, con David scrivemmo le nostre iniziali ripromettendoci di tornare da grandi a vedere se fossero ancora qui. E io le vedo, anche se in maniera sfocata riesco a leggere i nostri caratteri incisi su pietra e tutto ciò mi fa venire in mente il suo nome su di una maledetta lapide, perché tutto quanto mi fa solo male? Solo Kamille mi faceva sentire bene, lei e la sua arpa che suonava a tempo perso quando non avevamo niente da fare. Io le buttavo giù qualche testo scritto a mano, David suonava la sua chitarra e io provavo a cantare e tutti e tre passavamo intere ore così. Ma adesso ascolto la musica solo per farmi male, mi drogo per non soffrire e per non sentire quelle continue fitte allo stomaco che ho da quando mi ripresi dai tre mesi di coma. Ho impiegato un mese a riprendere ogni funzione come si deve, ho camminato dopo quarantacinque giorni e ho potuto mangiare, se di cibo potevo parlare, da quando sono ritornata a casa. Sono stati i mesi più difficili della mia vita quelli che mi hanno portata a rimettermi in piedi e a poter mandare al diavolo tutto. L'ammissione alla California College of the Arts era stata accettata e potevo andarci, avevo lottato così tanto per arrivare a poterci entrare e poi ho buttato tutto all'aria, deludendo anche i miei genitori che da quel giorno non mi hanno più parlato come una volta. Ma non capiscono? Non si rendono conto di cosa significhi perdere ciò che ti tiene in vita. Dovrebbero perdere me, così potrebbero capire che cosa significa tutto ciò. L'oceano oggi è piuttosto agitato e io riesco a sentirmi in connessione con lui, tutto quello che ho dentro è racchiuso in quel turbinio di onde che si infrangono prepotentemente negli scogli. Mi alzo barcollante per fare due passi nei dintorni, l'aria salmastra riesce a smuovermi un po' e qui sono davvero me stessa lontana da tutto. Affondo con le mie converse nella sabbia molle e umida che viene costantemente bagnata dall'acqua con prepotenza. Qualche conchiglia si sofferma a riva e mi fermo a prenderne una; mi ritorna in mente quello che diceva sempre Kamille riguardo queste conchiglie. Le definiva - il pensiero dei pensatori - . Io le dicevo che la sua frase non aveva senso, è stata sempre un po' filosofica e stravagante; secondo lei il rumore che si percepisce dentro le conchiglie non è nient'altro che il pensiero di ognuno di noi, è quello che ci portiamo dentro e ascoltando attentamente cerchiamo una risposta. Le ridevo in faccia e poi togliendole la conchiglia la lanciavo in mare aperto per vedere la sua reazione, mi snobbava e ne prendeva un'altra; adesso, mi ritrovo nello stesso punto dove si accumulano le conchiglie portate dalla corrente e ne ho una in mano, la sto guardando e sorrido. Con la poca forza che ho in questo momento nelle braccia esili, decido di lanciarla in ricordo di quei momenti passati, anche se sono stanca e fatta i bei ricordi riesco a portarmeli dietro nonostante tutto questo dolore. - Ehi, ma che peccato. - Una voce mi fa sussultare e mi volto quasi impaurita, non avevo notato nessuno e tantomeno credevo di essere osservata. Alle mie spalle mi ritrovo una ragazza. Faccio finta di niente e mi volto di nuovo verso l'infinito blu profondo, cerco di evitare ogni parola con gli estranei escluso quando devo prendere il necessario per il mio fabbisogno. - Sai, si dice che le conchiglie siano preziose. Non vanno lanciate così brutalmente. - Mi allontano alla svelta, la ragazza si è messa al mio fianco e cerca in tutti i modi di parlare. - Non sono la persona giusta da incontrare in questo momento - , lo dico senza voltarmi, senza guardarla, con tono freddo e serio. Spero che riesca a capire cosa significa la parola - no - e non ho intenzione di fermarmi a parlare. - Io penso proprio di sì. - La sua risposta mi sorprende non poco, non ci sono mai ragazzi o tante persone qui. È l'unico posto dove valga la pena isolarsi e io nel bel mezzo della spiaggia, tra onde e faraglioni, mi ritrovo con una sconosciuta che vuole parlare a tutti i costi. - Non mi interessa niente. Lasciami stare. - - È per David? - Le sue parole tuonano nella mia testa, indietreggio allarmata e sento il respiro mancarmi. Risentire il nome di lui pronunciato da un'altra persona, una sconosciuta per giunta. Che cosa fa? Mi conosce o mi pedina? Oddio devo scappare. Comincio a correre lungo la spiaggia evitando delle piccole rocce che affiorano dopo che l'acqua viene risucchiata nuovamente dal mare, i miei riflessi non sono così pronti ma sento l'adrenalina e l'agitazione ribollirmi dentro. Fuggire. È l'unica parola che mi rimbomba nella mente. - Ehi tu! Fai attenzione, fermati! - Sento i passi veloci della ragazza alle mie spalle e poi vedo tutto buio. Una botta improvvisa, un tonfo e il mio corpo a terra dolorante, è come se d'un botto fossi di nuovo dentro quella macchina infernale, come se tutte le dosi non fossero dentro il mio corpo. Quando tento di aprire gli occhi mi ritrovo a terra, sento la sabbia persino in bocca e ho un forte dolore al braccio destro, sono caduta inciampando e prendendo dritta in pieno uno scoglio; non dovrei agitarmi quando sono fatta, non dovrei correre e per giunta ho anche il fiatone, sono in preda a un affanno. Delle braccia mi tirano su e non capisco bene che cosa mi stia capitando o chi sia. - Ragazza stai bene? - Oh no, di nuovo lei. Cerco di alzarmi dimenandomi ma la tipa mi tiene ferma a terra con forza, sento le sue braccia intorno al mio petto per non permettermi di muovermi, ho paura e tremo perché non ho mai più sfiorato nessuno in questo modo dalla morte di David.
Valentina Bindi
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