Il bel giorno che conobbi Nelson
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Sono solo io
Tutti sono sempre pronti a puntare il dito verso gli altri, per sentirsi meglio. Spesso lo fanno per la mancata conoscenza verso l'altra persona, oppure per un'assenza totale di cultura. Mi chiamo Mohamed, per gli amici Momo, ho dodici anni e sono nato in Senegal, con i miei due fratelli Abdel e Ahmed. Io sono il più piccolo, loro hanno rispettivamente venti e sedici anni. Mio padre, poco dopo la mia nascita si trasferì a Bergamo per lavorare come operaio in una fabbrica di metalmeccanici. Lo vedevo solo nelle sue tre settimane di ferie, d'altronde voleva fare i sacrifici in Italia per farci vivere una vita dignitosa in Senegal. Purtroppo, la crisi colpì l'azienda e dopo tre anni mio padre venne licenziato. Il suo stipendio non arriva e noi stavamo per morire di fame. Ricordo ancora quel giorno di due anni fa, quando mio padre tornò a casa io e i miei fratelli eravamo pieni di gioia perché di solito ci portava molti regali e del buon cibo, oltre che ai soldi che ci servivano per vivere. Quel giorno invece non andò così, non aveva il solito sorriso fiero, aveva un'aria un po' abbattuta, infatti mamma lo abbracciò e si fece spiegare tutto. La mia felicità e quella dei miei fratelli si placò e Ahmed mi disse: - Tu che sei il più piccolo, vai a sentire di che parlano! - . Mamma e papà erano chiusi in cucina, spiando dalla serratura vedevo i loro volti preoccupati e mi disperai anch'io senza capire il loro discorso. Papà iniziò a piangere e urlò: - Mi hanno licenziato! - . Mamma lo abbracciò. Lui le disse: - Ti ho portato metà della liquidazione, fatevela bastare. Io mi cerco un altro lavoro in Italia ma ho deciso che dovete seguirmi, non voglio perdere il momento più bello della vita dei miei figli. Voglio vederli crescere. Il lavoro ti ripaga ma è il calore di una famiglia a darti la forza per andare avanti - . Papà è buono, intelligente, da picciolo aveva imparato a leggere e a scrivere, era abbastanza bravo a scuola ma dovette smettere di studiare per lavorare. Anche mio fratello maggiore lavorava già da due anni e l'anno successivo sarebbe toccato pure a me e a mio fratello. Avevo solo dieci anni, la notizia di partire per l'Italia e di lasciare la mia amata terra non mi piaceva. Ero circondato da molti amici, vivevo al sicuro in una bella casa e avevo l'amore di mamma e dei miei fratelli, perché dovevo cambiare il mio stile di vita? Istintivamente corsi verso Ahmed e Abdel e gli raccontai della situazione. Non ci volevano credere, dissero che ero soltanto un bambino che voleva cercare attenzioni, invece io avevo sentito e capito tutto. Non appena papà trovava lavoro e sistemava un po' la casa in cui viveva a Bergamo, si partiva per l'Italia. Ero piccolo e della burocrazia non ci capivo niente. Nemmeno ora ci capisco molto. Mi ricordo però un mio vecchio vicino di casa partito con la famiglia tre anni prima, loro cercavano fortuna in Germania e con delle piccole barche, guidate da scafisti senza scrupoli, sognavano di raggiungere l'Europa. Non sono più tornati in Senegal, chissà se hanno avverato il loro sogno o sono morti durante il viaggio. Io non volevo fare un viaggio in mare, papà la prima volta che giunse in Italia lo fece in barca, poi viaggiò sempre comodamente in aereo. I miei fratelli non ci credevano ma quando non trovarono i giochi e il cibo che solitamente papà ci portava, iniziarono a cambiare idea. - Ciao ragazzi! Come state? - ci disse. Era strano, non aveva il solito sorriso, fu allora che anche Ahmed e Abdel iniziarono a preoccuparsi. - Noi bene! Tu, papà? C'è qualche problema? - rispose Abdel - No, anzi, stai tranquillo che tutto si risolverà per il meglio - . - Cosa deve risolversi? - domandò incuriosito Ahmed. - Ragazzi, non vi voglio mentire, ho perso il lavoro e ora ne sto cercando uno nuovo, sono venuto qui in Senegal per abbracciarvi e dirvi che tra pochi mesi ritorneremo a essere una vera famiglia, ritorneremo a vivere tutti insieme ma in Italia - . - Ma come, in Italia? Perché? - domandò Abdel - Perché quello è il paese delle opportunità, lì vi potrete realizzare anche voi e soprattutto potrete studiare - . Ma noi non vogliamo lasciare il Senegal! - si oppose Ahmed. - Ho deciso! Ormai è fatta - concluse papà. Io non so nemmeno il perché ma cominciai a piangere, uno di quei pianti isterici, papà mi accarezzò e disse: - Tranquillo, Momo, ti piacerà - . Quella notte non riuscì a prendere sonno, ero impaurito all'idea di attraversare il mare, si sentivano cose brutte in paese sugli scafisti e sulle organizzazioni criminali del commercio internazionale di persone. Il giorno successivo chiesi a papà se fosse necessario partire in nave, lui sorrise e disse: - Vi pare che io vi faccia attraversare il mare, ho messo via alcuni soldi e viaggeremo tutti in aereo - . - Davvero? - chiesi affascinato. - Davvero! - rispose lui sorridendo. - Com'è stato viaggiare in mare? - . - Il peggior viaggio della mia vita, te lo racconterò quando sarai più grande ma ti dico solo che gli scafisti andrebbero arrestati - disse papà incupendosi in viso. Ci interruppe mamma che portava la colazione, mio padre comunicò che sarebbe partito di pomeriggio e doveva sentire ancora bene qualche suo amico per le faccende burocratiche relative al nostro permesso di soggiorno in Italia. Salutò promettendo che si sarebbe fatto sentire il più presto possibile. Passarono mesi prima che un bel giorno ci informò che sarebbe tornato in Senegal per portarci tutti in Italia. Io non avevo più paura, del resto era un bel paese, pieno di prospettive, di opportunità lavorative e inoltre avrei potuto studiare. Il mese dopo papà tornò in Senegal e con fare orgoglioso ci disse: - Ho trovato lavoro in un'industria chimica in provincia di Bergamo a tredici chilometri da casa, è perfetto. Da ora saremo di nuovo una famiglia vera - . Ricordo che per molti giorni con mamma avevo preparato i bagagli con i vestiti e gli oggetti di valore presenti in casa. Un po' mi dispiaceva lasciare il mio miglior amico Muline e la mia nonna materna Hala, ma ormai era deciso e in cuor mio non vedevo l'ora di visitare l'Italia. Vedevo mamma sorridere, finalmente poteva riunirsi con suo marito, all'aeroporto papà ci fece accompagnare dal nostro vicino di casa, con la sua bella macchina grande. Eppure, mi dispiaceva lasciare il Senegal. Allora non sapevo molte cose sul mio paese d'origine, ma ora le ho imparate leggendo libri in italiano. Ho imparato la forma di governo, una Repubblica semipresidenziale basata sul modello francese, in quanto proprio i transalpini furono i nostri colonizzatori. Ho capito soltanto ora il significato del 20 agosto, quando in paese c'era festa. Tutti festeggiavano per l'indipendenza ottenuta nel 1960, mia nonna infatti quel giorno aveva un sorriso speciale, ai miei fratelli raccontava sempre storie su quel momento così importante per il nostro Paese. La mia città era poco distante da Dakar, da cui poi saremmo partiti verso l'Italia. Ricordo ancora quel giorno, tutti molto stretti tra bagagli partimmo grazie all' aiuto dell'amico di mio padre, un viaggio pieno di felicità e paura allo stesso tempo. Arrivammo in mezz' ora all' aeroporto, lo ammetto avevo un po' di paura dell'aereo e soprattutto di quel viaggio che mi avrebbe catapultato in una nazione diversa dalla mia, un nero in mezzo a milioni di facce pulite, un piccolo rifiuto umano scartato dalla società elegante. Tuttavia, oltre alla mia paura ricordo gli occhi fieri di mio padre che finalmente era riuscito ad avverare il suo sogno: portare a vivere la propria famiglia lontano dalla miseria e dalla povertà del Senegal. I miei fratelli erano arrabbiati, soprattutto Abdel, perché doveva dire addio per sempre alla sua fidanzata Firdaws. Lui non sarebbe voluto partire, avrebbe aspettato. Sarebbe rimasto per lei, soltanto dopo un litigio con mio padre si convinse a venire con noi. Dicono che gli uomini della mia religione siano tutti maschilisti, invece mio fratello a Firdaws la trattava veramente bene, è spiaciuto un po' anche a me vederlo soffrire. Scendemmo dalla macchina, io avevo uno zainetto sulle spalle e due borse, eravamo carichi di oggetti personali. Papà salutò con un abbraccio il suo amico, che gli augurò buona fortuna. Si girò verso di noi e ci sorrise. Dovevamo fare scalo a Parigi per poi prendere l'aereo diretto a Bergamo. Mamma mi disse di dormire in aereo perché poi a Parigi avremmo dovuto stare svegli a controllare le valigie. Io non riuscivo ad addormentarmi per l'emozione, ma dopo due ore di eccitazione, il sonno ebbe la meglio. Quando a scendemmo a Parigi, avvertii la sensazione di non essere a casa, vedevo già troppa gente bianca parlare in modo incomprensibile. Restai frastornato per tutte le sei ore d'attesa. Il viaggio Parigi-Bergamo durò molto meno ma piansi per la metà del tragitto, mi mancava già la mia terra. Ricordo il viaggio in autobus in un caldo afoso di inizio giugno, sudammo fino al momento in cui arrivammo alla mia nuova casa: era in un palazzo, al quarto piano, una casa popolare data alle famiglie con difficoltà economiche ma a me, all' impatto, piaceva. D'altronde era molto più bella di quella del Senegal. La vedevo come una reggia, potevo prendere l'ascensore tutte le volte che volevo. All' inizio iniziai a divertirmi così, stavo due o tre ore al giorno a fare su e giù da un piano all' altro in quella scatola di metallo. Un giorno, però, un anziano signore in maniera poco educata mi disse: - Ehi, negretto, l'ascensore non è un gioco, vai a casa dalla mamma - . Avevo appena compiuto 12 anni e quel giorno incontrai per la mia prima volta la parola - razzismo - . Non era il rimprovero a farmi arrabbiare, ci poteva stare, gli anziani sono saggi e possono dare consigli ai giovani, o almeno mia nonna lo faceva. Invece il tono in cui quell'uomo mi disse - negretto - mi fece davvero male. Voleva ferirmi, farmi sentire diverso, escluso. Non che non ci avessi mai pensato, di essere un nero in mezzo a milioni di bianchi, ma che bisogno aveva, lui, di dirmelo? Che ci aveva guadagnato così? Scoppiai a piangere non appena l'anziano andò via. Corsi in casa e lo raccontai a mia madre. Lei, in quel momento fragile, invece di consolarmi si mise a gridarmi contro, dicendo di non farmi riconoscere. Mi sentii solo, in quel momento. Entrai in camera di Abdel, non si era ancora ripreso. Soffriva, piangeva, con una matita disegnava la sua amata su un foglio di carta. - Posso? - . - No. Vai via, moccioso! - . Era strano, non mi aveva mai risposto così prima d' ora, cominciava a non piacermi più l'Italia. - Ti devo chiedere una cosa - . Non me ne andai, avevo troppo male. - Ci hanno insultato, mi hanno insultato, mi hanno chiamato negretto - Mio fratello aprì la porta in modo violento e disse con fare minaccioso: Chi ha osato dirlo? - - Un anziano, quello del terzo piano - risposi. - Okay, aspetta un minuto, torna all' ascensore che andiamo a farci due chiacchiere, ma non dire niente a mamma sennò lei si preoccupa - . - Va bene - dissi. Passò circa un quarto d' ora, mio fratello uscì di casa e con fare minaccioso andò sul pianerottolo dell'anziano. Bussò tre volte, finché non gli fu aperto. - Che vuole? - disse l'uomo con tono arrogante. - Dillo a me quello che hai detto a mio fratello, se hai coraggio - . Abdel era alto e muscoloso, quando litigavamo soccombevo sempre, infatti, ma non lo avevo mai visto così arrabbiato. L'anziano indietreggiava e Abdel mi chiamò e gli disse: - Vedi, adesso stai muto, eh? Chiedi scusa a mio fratello e la risolviamo qui - . L'uomo, invece che chiedermi scusa per l'offesa, iniziò a dire: - Voi negri siete tutti uguali, si offende uno, subito col fratello maggiore a minacciare la povera gente. Non gli chiedo scusa. Mi sono rotto della gente come voi. Tornatevene al vostro paese - . Abdel lo prese per il petto e lo spinse contro la porta. - Testa di cazzo, io ci tornerei volentieri in Senegal, per venire nella tua città di merda ho dovuto lasciare il mio amore e i miei amici. Fosse per me ci ritornerei subito, e lascerei questo schifo a un miserabile uomo come te! - . Il vecchio era spaventato e lo ero anch'io. Dissi ad Abdel di lasciar perdere, ma lui non voleva sentirmi. Lo avrebbe ammazzato di botte, per fortuna che in quel momento tornava a casa nostro padre dal lavoro e miracolosamente aveva deciso di fare le scale e non prendere l'ascensore. Appena vide Abdel strattonare l'uomo gli saltò addosso e lo trascinò via, chiedendo scusa all' anziano che minacciava la denuncia e continuava a dire la parola negri. Abdel fu messo in punizione da mio padre, per una settimana non poteva uscire di casa, ma a mio fratello non importava niente. Quell' estate la ricordo con poco piacere, dovevamo imparare la lingua, sotto certi aspetti facevamo grandi progressi. Abdel cercava lavoro ma non riusciva a trovarne uno decente, Ahmed invece aveva deciso di studiare e si iscrisse in un Istituto tecnico linguistico. Io invece iniziavo il primo anno di scuola media, quell'estate passai molto tempo a studiare presso un oratorio in cui una signora carinissima offriva corsi gratuiti di perfezionamento della lingua italiana. Mio padre lavorava come un forsennato, lo vedevo poco ma ci ero abituato. Fortunatamente c'era mia madre a consolarmi, nei giorni malinconici. Mi coccolava, mi abbracciava, mi stringeva forte a sé, e io mi sentivo protetto, non avrei mai voluto lasciare quelle braccia. Un giorno accesi la tv, era circa l'ora di pranzo, e dovetti ascoltare una terribile notizia: venti morti nel Mediterraneo. Bambini come me, donne, uomini, anziani morti annegati in mare come bestie. Mi veniva da piangere. Mi sentivo in colpa, ero stato molto più fortunato di loro, in viaggio con mille comfort in aereo, come un ricco. Altro che barcone. Chiesi a papà del suo viaggio in mare, ma non mi diede risposta, la cosa mi fece incuriosire ma il suo essere burbero in quelle faccende non giocava certo a mio favore. Quel pomeriggio andai come il solito a fare ripetizioni e allora timidamente chiesi alla maestra. - Cosa succede sui barconi che trasportano i migranti? - . - Nessuno lo sa - mi rispose lei, rassegnata. - Ho visto alla tv, venti morti - replicai. - Lo so, poveri - . Era in totale difficoltà, non sapeva cosa rispondermi, tuttavia con molta dolcezza si mise a cercare una poesia fatta da bambini delle elementari di Castel d'Ario sui migranti e me la fece leggere.
È tempestoso questo mare ci vuole separare ci rende estranei, nemici. Sulle sue onde tumultuose, pericolose, sconosciute, crudeli corrono parole, grida, pianti. Sulle sue onde corre la disperazione, la morte ma anche la speranza che improvvisamente un'onda più alta in un attimo porta via lasciando solamente il rumore dell'immenso mare.
Faticai a capire le parole della poesia, anche la maestra se ne accorse, ma è proprio vero che l'arte trasmette emozione, e io leggendo quei versi ho avvertito i brividi sulla pelle, pensavo alle migliaia di vite spezzate in mare e volevo assolutamente scoprire del lungo viaggio fatto da mio padre. Ero sempre più curioso, volevo andare in fondo alla faccenda, e quando mi intestardivo sapevo essere veramente determinato. La settimana successiva, dopo giorni passati a fare pensieri sulla traversata che mio padre aveva affrontato, al telegiornale diedero una bruttissima notizia: altri morti nel Mediterraneo. Dieci vittime, tra cui quattro bambini e due donne. Dati che mi fecero rabbrividire. Il giornalista poi iniziò a parlare della parola - scafista - , disse che due di loro erano stati arrestati con diverse accuse, fra cui quella di tratta di uomini. Chissà come si comportò lo scafista di mio padre, dovevo assolutamente chiederglielo. Ogni volta che finivamo a parlare di quel discorso mio padre si faceva cupo e preferiva cambiare argomento, facendomi insospettire sempre di più. L'obiettivo che mi ero posto prima del termine dell'estate era sostanzialmente questo: scoprire di quel lungo viaggio
Andrea Faliva
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