
Alex aprì lentamente gli occhi, circondato da un'oscurità densa e opprimente. Il buio non era solo assenza di luce, ma un mantello pesante che sembrava avvolgerlo, soffocando i pensieri prima ancora che potessero formarsi. Tutto ciò che sentiva era il vuoto. Un silenzio tombale dominava l'ambiente, rotto solo dal ritmo incalzante del suo respiro, il suo cuore pulsava, scandendo il tempo in modo irregolare, come un tamburo stonato nel silenzio. Si accorse che il pavimento sotto di lui era freddo e liscio, probabilmente fatto di pietra o di qualche materiale simile, ma non uniforme. C'erano delle crepe sottili che formavano disegni casuali, come cicatrici su una pelle antica. Passò le dita sulle superfici irregolari, percependo piccoli frammenti di polvere e umidità accumulata. Tentò di sollevarsi. Le braccia tremavano sotto il peso del suo corpo, non tanto per la fatica fisica, ma per una debolezza interna che sembrava provenire dalla sua stessa essenza. Quando finalmente si mise in piedi, fu accolto da una sensazione di vertigine. Per un attimo il mondo girò attorno a lui, e dovette appoggiarsi a qualcosa che sperava fosse un muro. La sua mano incontrò una superficie ruvida e fredda. La parete era fatta di pietre grezze, incastrate tra loro in modo imperfetto, come se fossero state posate da mani antiche e frettolose. L'umidità si insinuava tra le fessure, creando rivoli invisibili che gocciolavano lentamente. Ogni tanto, un suono distante, come una goccia che cadeva nel vuoto, rompeva il silenzio con un'eco lontana. L'aria era pesante, quasi stantia. Ogni respiro sembrava carico di polvere e muffa, un odore acre e pungente si insinuava nelle narici, costringendolo a tossire. Cercò di respirare più lentamente, ma ogni boccata d'aria era un'impresa. Si passò una mano sulla bocca, come per filtrare quell'aria opprimente, e il contatto con la propria pelle lo rassicurò, anche se solo per un istante. Tentò di orientarsi, ma non c'erano punti di riferimento. Ogni lato della stanza era identico: mura spoglie e fredde, pavimento duro e insidioso. Sopra di lui, il soffitto era appena percepibile, un'ombra più scura nel buio totale. Non riusciva a capire quanto fosse alto, ma la sensazione era quella di trovarsi in un luogo angusto, come una cella scavata nel cuore della terra. Si mosse a piccoli passi, avanzando con cautela per evitare di inciampare. Ogni passo risuonava nel silenzio come un colpo di martello, amplificando la sua presenza. La paura iniziò a insinuarsi nei suoi pensieri, sottile e persistente. Dove diavolo si trovava? E perché era lì? Chi era? Con mani tremanti, esplorò le pareti, aggrappandosi a ogni crepa come se potesse salvarlo dall'oscurità. Quando le dita incontrarono una superficie diversa, si bloccò. C'era una fessura. Seguì il contorno con i polpastrelli, il cuore che accelerava a ogni movimento. Era una porta, ma non una porta comune. La pietra attorno era liscia, quasi levigata, e sembrava emettere un debole calore, come se fosse stata appena posata da mani invisibili. La superficie era più liscia rispetto alle pareti circostanti, ma non c'era nessuna maniglia, nessun indizio su come aprirla. Il cuore accelerò. Premette contro la porta, ma questa non si mosse. Tornò a tastare il pavimento, cercando qualcosa che potesse aiutarlo. Fu allora che le sue dita sfiorarono un oggetto: una chiave, piccola e fredda. La raccolse e la strinse nel pugno, come se fosse l'unico collegamento con la realtà. La chiave giaceva nella sua mano, ma il metallo freddo gli sembrava stranamente familiare. Chiuse gli occhi e un'immagine fugace attraversò la sua mente: un piccolo cassetto nella scrivania del padre, sempre chiuso a chiave. Perché quel ricordo emergeva proprio ora? Sollevò la chiave verso la fessura della porta, ma qualcosa lo fermò. Un sussurro, debole e indistinto e un leggero chiarore sembravano provenire dall'altra parte. Si congelò, trattenendo il respiro. Il suono non era chiaro, ma dava l'impressione di essere una voce umana. Sentì un brivido correre lungo la schiena. “C'è qualcuno?” La sua voce ruppe il silenzio, ma non ricevette risposta. Solo il silenzio che tornava a farsi opprimente. Il senso di smarrimento lo avvolgeva come una coperta troppo pesante, soffocante. Era una sensazione che non riusciva a scrollarsi di dosso, una morsa invisibile che stringeva sempre di più. Provò a fare un respiro profondo, ma l'aria sembrava mancare, come se la stanza stessa gliela stesse negando. Tossì debolmente, portandosi una mano alla gola, cercando disperatamente di calmarsi. “Pensa, pensa...” sussurrò tra sé e sé, la voce rauca e tremante. Ma pensare era difficile. La mente, di solito rapida e affilata, ora sembrava immersa in una nebbia densa, ogni pensiero che cercava di formarsi si dissolveva prima di diventare concreto. Era come se avesse dimenticato qualcosa di fondamentale, un pezzo cruciale del puzzle che gli sfuggiva. “Chi sono? Come sono finito qui?” La sua mente cercava risposte, ma ogni pensiero era avvolto dall' oblio. Non riusciva a ricordare. Il suo stesso nome fluttuava nella mente, incerto, privo di significato. “Alex”. Era sicuro che fosse quello, ma oltre non c'era nulla. Nessuna immagine, nessun ricordo a cui aggrapparsi. Solo il vuoto. Era come se il suo passato fosse stato cancellato, lasciandolo sospeso in un presente indefinito. Il panico cominciò a crescere, una marea che minacciava di sommergerlo. Sentiva il cuore battere più forte, il respiro farsi sempre più rapido e superficiale. Gli occhi si spalancarono, cercando disperatamente qualcosa, qualsiasi cosa, che potesse dargli un senso di orientamento. Ma il buio era denso come l'inchiostro. Il pavimento sotto i piedi sembrava ondeggiare lievemente, un'illusione disturbante generata dalla mente confusa di Alex. Era difficile capire se fosse reale o un inganno del suo equilibrio. Si passò una mano sulla fronte, sentendo il sudore freddo che gli imperlava la pelle. Quanto tempo era passato da quando si era svegliato? Minuti? Ore? Non c'era modo di saperlo. In quel luogo, il tempo stesso sembrava svanire, lasciandolo sospeso in un presente infinito. Poi, una sensazione improvvisa. Un brivido lungo la schiena, come un avvertimento. Si voltò di scatto, ma la vista non gli restituì nulla. Solo oscurità, densa e opprimente, come un manto che inghiottiva ogni cosa. Eppure, non era solo la sua immaginazione. Quella presenza era lì, invisibile ma palpabile, una pressione costante che gravava su di lui. Non sei solo. Le parole si formarono nella sua mente, un sussurro che non sembrava appartenere ai suoi pensieri. Alex scosse la testa, cercando di scrollarsi di dosso quella sensazione. Doveva essere il panico. Era l'unica spiegazione. Eppure, l'idea che qualcosa lo stesse osservando persisteva, insinuandosi nei suoi pensieri come una verità scomoda. Decise di muoversi. Rimanere fermo significava arrendersi, e non era pronto a farlo. A piccoli passi, avanzò nell'oscurità, le mani tese davanti a sé. Ogni passo risuonava come un colpo sordo nel silenzio, amplificando la sua presenza. Il pavimento sotto i piedi era solido, ma ogni tanto incontrava piccole irregolarità, sporgenze che sembravano messe lì apposta per farlo inciampare. L'oscurità lo avvolgeva completamente, ma una determinazione nuova cominciava a emergere. Una voce, flebile ma persistente, sembrava sussurrare dentro di lui: non fermarti. Devi trovare una via d'uscita. Infine, dopo un tempo che sembrava infinito, le sue dita incontrarono di nuovo il bordo di una porta. Alex lasciò che la mano scivolasse lungo la superficie, sentendo il legno grezzo sotto i polpastrelli. La chiave che stringeva nel pugno gli sembrava pesare una tonnellata. Inspirò profondamente e la inserì con la mano tremante nella serratura. La prima volta, non si mosse. La serratura emise un suono sordo, come un rifiuto. Alex chiuse gli occhi, il respiro che gli tremava nel petto. Provò di nuovo, questa volta con più decisione. Quando il clic riecheggiò nel silenzio...
Simone Bellese
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