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Autore: Amelia Belloni Sonzogni
Tutta l'estate davanti
Romanzo di Formazione
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Tutta l'estate davanti

Levanto sempre.

Premessa

Questo libro nasce dall'incontro tra il mio amore per Levanto e l'ascolto, inaspettato, di una canzone.
Il mio amore per Levanto è un lungo colpo di fulmine: scoppiato quasi sessant'anni fa, dura ancora e, forse, mi porta ad osservare con indulgenza lati negativi o difetti, per me in ogni caso irrilevanti; quando qualcuno me li fa notare, comprendo ma guardo il bello, che straripa, ogni ora, ogni giorno, ogni stagione. Nella canzone, che con il suo testo apre questo racconto, e nella musica che lo accompagna, ho riconosciuto lo stesso amore, con una vena di nostalgia e incomprensione, sperimentate, talvolta, nel corso del mio tempo trascorso qui.
Abitare a Levanto, viverci, era sempre stata un'idea vaga, una possibilità remota, in certi momenti persino assurda, ma oggi, mentre scrivo, è realtà. Ricordo spesso la mia città natale, Milano; ricordo altrettanto spesso Lodi, le mie origini, il luogo dei miei genitori, di nonni, zii e cugini; ricordo tutti i luoghi in cui sono stata bene e mi sono sentita accolta; il mare c'era quasi sempre, ma questo golfo è mio, Levanto è casa. Solo qui provo la sensazione di avere ciò che mi basta e non sento il bisogno di andarmene.
Perciò questo romanzo, anche un po' milanese come me, è dedicato a Levanto, con affetto, da una “foresta” rimasta.

Amelia Belloni Sonzogni

N.d.A. Tutto quanto ho raccontato è frutto di fantasia: la vicenda, gli episodi e, allo stesso modo, i personaggi non sono identificabili con nessuna persona realmente esistita o esistente; se si verifica un'omonimia, è del tutto casuale. Ci sono, invece, alcune persone e luoghi “istituzionali” che non potevo citare diversamente.

Levanto ad ottobre

parole e musica di Lorenzo Gabetta

Chinandu u Bracco in sé ‘na cürva, ti o sè za, ti te ritrövi in de.... ‘na Merica...

Levanto ad ottobre, quando l'alba spoglia un mare senza onde
e la luce ridisegna Sant'Andrea
puoi riprendere a guardare, dai sedili del piazzale come dorma la Pevea
Sei tornata su in città
ma io certo resto qua
tra un caffé del Barolino, due cuculli, un gattafin e un sogno di sciacchetrà...

E quande arrive agustu... poviu de mi... i nu gh'an ciü què de travaggià

Levanto ad ottobre, quando l'acqua toglie il sale dal Ghiararo
e si scivola a salire verso i frati
sono solo i cacciatori che si infilano nei boschi, a me basta corso Roma.
Ma poi, in fondo, cosa importa
questa gente non mi guarda
meglio stare a chiacchierare
sulla passeggiata a mare
con i gatti di Giulìn

E quande i smuntan e gabine, cumm'a l'è... sènti u Vannuni c'u giastémme....

Quanto è strano ottobre, questa Levanto orgogliosa e rassegnata
col pacchetto di focaccia della Lucci
mentre passa in corso Italia l'Ape Piaggio che consegna delle bombole del gas
Non insistere a chiamare...
sono al vento a passeggiare
e per cena devo andare nella cava di via Guani e poi scrivere sui muri... amore!

Lasciami in ottobre, mi nasconderò nei bricchi dietro al Mesco
non portarmi nella nebbia di Pignone
voglio in bocca il gusto aspro di quel vino di terrazza c'u se béive da-u Pistolla

Non esisterà un amore
che mi porti via dal mare
dalle ville della Pietra, dal villaggio Verticale, dal castello e dalle suore
dalle reti stese al sole, dal mercato della Loggia e un gelato del Pinguino
dalla festa di San Rocco, dai fuochi della Guardia e da un'alba su una sdraio
da una torta millefoglie, i cannoni di Cavour e un branzino al Tumelin
dalla radio del paese, pioggia a un cinema all'aperto e da un treno tra le case.

All'hotel Palace

Era il primo luglio del 1966.
Papà mi aveva svegliato con un abbraccio e un bacio in fronte: «Mi raccomando Alice: prudenza», mi aveva detto prima di andare al lavoro.
Ancora in pigiama, ero corsa in cucina.
«Bevi questo – aveva detto mia madre porgendomi una cucchiaiata amara di liquido rosa al posto della colazione – tutto, mi raccomando; e sbrigati! I tuoi vestiti sono sulla poltrona in camera tua». Quante raccomandazioni! E quanta fretta! In un angolo dell'anticamera erano radunati i nostri bagagli ma, questa volta, non avremmo viaggiato in treno.
Rapidi, gli effetti del farmaco avevano inibito la mia trepidazione, legata all'attesa partenza per le vacanze, al desiderio di arrivare presto a destinazione. Sapere di andare al mare mi galvanizzava; il mio corpo, preda della sonnolenza indotta, ebbe però la meglio sulla mia mente che tentava di reagire: non capivo quasi più niente.
Infilata in mezzo ai bagagli rintuzzati sulla Simca 1000 azzurro cielo di Rorò, mi addormentai come un sasso; ho un ricordo vago del motore che si avvia, del marciapiede che si allontana, degli alberi di viale Romagna che sfrecciano davanti al mio naso appiccicato al finestrino nel tentativo di memorizzare il tragitto. Non vidi le strade di Milano che portavano all'imbocco dell'autostrada. Caddi in un sonno profondo, buio e privo di sogni, simile a quello dell'anestesia per togliere le tonsille.
«Alice, svegliati, siamo arrivati».
Scossa per una spalla, aprii gli occhi, ancora intontita. Non ricordavo nulla, sbadigliavo e mi guardavo intorno, senza la percezione del tempo trascorso. Mi depositarono vicino ai bagagli, ammucchiati sull'angolo di un marciapiede dalle mattonelle rossicce, sotto una fitta volta di piante che, con le foglie intrecciate, coprivano la visuale del cielo e riparavano dal sole del primo pomeriggio. Avvertii un sentore di erbe, un tiepido miscuglio di fiori e pietanze. Mi stropicciai un occhio e vidi con l'altro Rorò che salutava. Cugino di mia madre con un grado di parentela arzigogolato, aveva ancora un pezzo di strada da percorrere prima di raggiungere la famiglia in un posto lì vicino.
Era stata l'unica cosa chiara del luogo scelto come villeggiatura per quell'estate: non saremmo andati nello stesso paese in cui Rorò aveva una casa, ma in quello prima, venendo da Milano.
Ripartito Rorò, con i saluti sbracciati dal finestrino della Simca, mia madre mi prese per mano per entrare nell'hotel Palace.
Il nome era scritto sull'insegna ad arco che sovrastava il cancello d'ingresso, c'era un vialetto di ghiaia piantumato di oleandri, zeppi di fiori, qualche tavolino prima dell'ingresso sotto un ridotto porticato; la sala da pranzo, dove ci servirono uno spuntino perché la cucina era già chiusa, aveva un'aria familiare: il tavolo rotondo, la tovaglia bianca, le credenze e le piattaie simili a quelle della nonna.
Mia madre volle che l'aiutassi a disfare le valigie e sistemassi libri e quaderni.
Frequentavo la quarta elementare, ero stata promossa con ottimi voti, ma il livello andava mantenuto alto, in vista degli esami di quinta e poi c'erano le medie! Quindi, prima di uscire, prima di tutto, dovevo svolgere i compiti delle vacanze.
Pensai di riempire una pagina di diario raccontando del viaggio, ma avevo dormito; raccontai di quanto fossi curiosa di visitare il nuovo luogo delle mie vacanze, dell'arrivo e della speranza di incontrare altri bambini per giocare, del desiderio impaziente di vedere com'era il mare di Levanto, il posto in cui ero arrivata.

All'inizio, era Monterosso...

Era stato deciso una domenica di marzo, quando i miei genitori, dopo avermi affidata a quelli di un amichetto vicino di casa, erano partiti con Rorò e la sua Simca alla volta di Monterosso, per trovare un albergo dove soggiornare, luglio e anche agosto. Si trattava di un cambiamento notevole perché, da quando avevo memoria, papà non aveva mai rinunciato all'agosto in montagna; dopo aver sopportato in luglio il caldo milanese mentre mia madre ed io eravamo al mare, ogni anno in un posto diverso, desiderava ritemprarsi ad alta quota, meglio se sulle Dolomiti, godersi verdi panorami, frescure ombrose, passeggiate nei boschi, gite ai laghi. Mia madre non sopportava più questa specie di “alpeggio”, una tortura per lei che detestava la montagna e ricordava con terrore la gita a Braies, lungo un sentiero stretto a strapiombo sull'acqua. Avevo, all'epoca, una leggera scoliosi e l'insegnante di ginnastica correttiva della mia scuola aveva suggerito di farmi praticare il nuoto il più possibile: un mese in più al mare sarebbe stato un bene, per me. Tutte le resistenze di papà erano crollate, con un unico vincolo: «non sull'Adriatico».
Mamma e papà erano ritornati piuttosto tardi, quella sera; mi avevano spedita a letto, però li avevo sentiti parlare: papà borbottava qualcosa sul viaggio, tortuoso e scomodo a bordo della Simca; mamma si lamentava di non poter trascorrere le vacanze in compagnia del cugino; entrambi concordavano sulla saggia decisione di non avermi portato in viaggio con loro a patire il mal d'auto e sulla felice occasione di aver trovato posto a Levanto. Avevano nominato due luoghi, con due nomi buffi: la Scoffera aveva evocato in me l'immagine di una scopa di saggina, animata come una strega cattiva, più brutta e meno simpatica di Maga Magò; il Bracco aveva preso nella mia mente le sembianze di un bellissimo cane. Mi ero addormentata immaginando mia mamma persa nelle sue fantasticherie sulla località delle prossime vacanze estive, lo sguardo fisso al finestrino dietro le lenti scure degli occhiali a farfalla, da vista; certa della perizia del pilota, caracollava placida sui sedili posteriori con la calma che talvolta la caratterizzava; papà, invece, in tensione, stava aggrappato al primo appiglio disponibile per seguire l'impervio percorso, preoccupato ad ogni curva per il margine ridotto tra l'auto e il dirupo.
Levanto: chissà com'era? Avevo fantasticato di spazi misteriosi, apparsi ai passeggeri ad ogni tornante come uno strapiombo su boschi verdissimi, verso un mare e un golfo che avevano iniziato a risplendere nella mia mente prima ancora di guardarli da vicino e tuffarmici in concreto.

I bagni Nettuno

E proprio un tuffo desideravo, mentre dalla finestra della camera d'albergo osservavo altri bambini andare verso il mare, per mano alla mamma, ancora pallidi, i passi incerti nei sandali traforati; altri ancora da soli, in bicicletta sul marciapiede, già abbronzati, costume e maglietta al vento, scalzi, sollevati dal sellino, velocissimi sui pedali mentre il telaio oscillava, come ciclisti di professione lanciati verso la meta.
Per un momento pensai che con i capelli corti, invece di lunghi fino a metà schiena, avrei potuto sostenere meglio la richiesta di una nuotata, qui e ora. Non provai neppure a domandare, tanto le risposte erano una certezza: dobbiamo finire di sistemare o non puoi restare con i capelli bagnati. Eppure l'asciugacapelli era riposto nell'armadio, insieme con gli abiti, e il necessario per la spiaggia pronto per esservi portato; l'alternativa poteva essere: siamo stanche per il viaggio. Io non ero affatto stanca, avevo dormito tutto il tempo, ma non ero una bambina petulante e sapevo che era inutile provare. Mi rassegnai ad aspettare la mattina seguente, quando i bagni Nettuno apparvero come un castello in riva al mare.
L'edificio in muratura era possente: giallo, squadrato, a ridosso della massicciata sulla quale passava il treno. Dalle vetrate del locale bar, lunghe tre intere pareti, si poteva osservare tutto il golfo. E c'era un bigliardino! Che bello! Ero un portento a quel gioco. La spiaggia di sassi mi ricordò Lavagna, dove papà mi aveva portato per la prima volta al largo con lui, infilata in un salvagente a ciambella. Mi rividi sgambettare curiosa al suo fianco; lui compiaciuto di insegnarmi a galleggiare, di godersi quel momento, tranquillo perché aveva assicurato la ciambella al suo polso con una breve cima.
Per arrivare al nostro ombrellone, mia madre ed io passammo accanto a una fila di cabine in muratura che mi sembrò una sfilza di garitte appostate a scrutare l'orizzonte, pronte a lanciare l'allarme in caso di avvistamento di navi pirata; in mare, a una distanza raggiungibile a nuoto dalla riva, una barriera di scogli creava un ostacolo all'assalto; lo spazio sotto i pilastri che, conficcati nella sabbia, reggevano il “castello” era perfetto per giocare a nascondino. Che posto fantastico. C'era anche un'altalena! Mostrai tutto a mia madre che mi rispose con condiscendenti «sì, sì, ho visto. Vieni con me, muoviti».
Pregustai una mattinata di esplorazione dello stabilimento in cerca di amici mentre, in attesa dell'ora del bagno, mia madre mi spalmava ovunque di crema alle mandorle. Sperai che in quel momento non arrivasse nessuno. Ero in grande imbarazzo perché lei aveva preteso indossassi solo le mutandine del mio nuovo due pezzi: «Così ti abbronzi senza segni». Provai a insistere perché mi lasciasse coprire il seno: «Ma quale seno! Due bottoni che neanche si notano; prendi il sole, è meglio».
Rimasi tutta la mattina sotto l'ombrellone.
Alle ripetute sollecitazioni a muovermi di lì, risposi che il sole mi infastidiva, non c'erano bambini della mia età con cui giocare e poi avevo da leggere un libro, per la scuola. Non ero una frignona, ma parecchio permalosa. Offesa più imbarazzo crearono una miscela di malumore, disagio e fastidio, che tenni per me. All'ora del bagno mi immersi com'ero, senza più pensare al costume: avevo tanto desiderato di sentire addosso il fresco dell'acqua di mare, tanto più leggera di quella della piscina della scuola, e di mostrare al mondo e a me stessa come avevo imparato a nuotare con stile. Su di me, l'acqua del mare aveva il potere di togliere importanza a qualunque disagio del corpo e sofferenza dell'anima, dove i “bottoni” rimasero però cuciti a filo torto.

Amelia Belloni Sonzogni

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