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Mi chiamo Salvatore e sono un terrone. Ho quarantaquattro anni ma ancora per poco. Quella che sono pronto a condividere con voi è la mia vita, la mia storia, e spero che, alla conclusione, siate in grado di esprimere un vostro giudizio: sarà una storia come tante? Chissà. Vi racconterò l'essenza della mia esistenza, non trascurando i momenti di felicità e quelli di profondo dolore; vi parlerò delle tenerezze che mi hanno fatto sorridere e delle disperazioni che mi hanno quasi sopraffatto. Non mancherò di svelarvi anche gli episodi più scabrosi, quegli eventi imbarazzanti e controversi che potrebbero mettervi in difficoltà durante la lettura. Preparatevi a entrare in un labirinto di emozioni contrastanti, perché la vita non è mai solo bianca o nera. Sarà un viaggio intenso, una sorta di specchio in cui potrete forse rivedere esperienze e vulnerabilità che hanno sfiorato il vostro percorso di vita. Siete pronti? Cominciamo.
Sono nato in un piccolo paesino della zona centro-meridionale della Sicilia: Montetagliato. Più che un paese, un borgo, un agglomerato di case strettamente incastrate nella conca tra due collinette. La loro forma a semicono crea l'illusione, per chi proviene dalla provinciale che lo collega al capoluogo, di una montagna che ha subito un taglio netto che l'ha divisa in due. Io facevo parte delle circa tremila anime che componevano la popolazione composta da agricoltori, artigiani e qualche anziano del posto, i cui racconti si mescolavano con il vento. Il nostro borgo, piuttosto tranquillo, era intriso di silenzi, interrotti solo dal canto degli uccelli e dal fruscio delle foglie. Le strade erano deserte per gran parte del giorno e le case, con i loro muri di pietra spessa, sembravano custodire storie dimenticate.
Il mercato settimanale, composto da alcune bancarelle di frutta e verdura, prodotti caseari e artigianali, radunava nella piazza principale gran parte degli esseri viventi che si scambiavano saluti e chiacchiere, mai troppo animate. La vita quotidiana trascorreva con lentezza, scandita dai ritmi della natura e dalle stagioni. Ogni tanto, un viandante passava, portando con sé nuovi racconti, ma nella maggior parte dei casi, ci si accontentava della routine, cercando conforto nei piccoli gesti quotidiani. Montetagliato diventava un luogo vibrante di vita ogni anno, quando si celebrava la festa di San Paolino, una tradizione popolare folcloristica che continua ad attrarre tutt'oggi visitatori da tutta la regione, moltiplicando per alcuni giorni la popolazione – ormai ridotta a meno di mille abitanti – e rendendo l'atmosfera vivace e colorata. Le strade, di solito tranquille, si animano di risate, canti e sapori autentici. Le tradizioni si intrecciano con l'improvvisazione della festa, creando un mosaico di esperienze che rimangono nel cuore di chi vi partecipa. Ogni angolo del borgo si riempie di colori e suoni, mentre i preparativi per la celebrazione portano un'energia palpabile nell'aria. È in questi momenti che Montetagliato si rivela in tutta la sua bellezza, mostrando un volto che, altrimenti, rimarrebbe nascosto nel corso della quotidianità. Tutto il paese diventa un unico palcoscenico dove si esibiscono gli sbandieratori con la banda musicale che si muovono tra le bancarelle di artigianato locale, gastronomia e prodotti tipici. Non possono mancare la corsa dei sacchi e l'albero della cuccagna. Per l'occasione, durante i tre giorni di celebrazione, si esibiscono in spettacoli all'aperto alcune compagnie teatrali e giocolieri. La processione del santo e i giochi d'artificio chiudono i festeggiamenti.
La mia era una famiglia di contadini, e vivevamo nella campagna che apparteneva ai miei genitori, distante dal centro del borgo. La nostra casa, modesta ma accogliente, era circondata da un ampio terreno, dove crescevano diversi prodotti freschi, dalla frutta agli ortaggi. Eravamo io, il primo di quattro figli – tre maschi e una femmina – insieme a mio padre Giuseppe e mia madre Rosaria. Ogni mattina, appena il sole cominciava a sorgere, la campagna si riempiva di colori e suoni. I nostri risvegli erano accompagnati dal canto degli uccelli e dal profumo della terra bagnata dalla rugiada. Con i miei fratelli, ci divertivamo a correre tra i filari di pomodori e le piante di fico, esplorando ogni angolo e scoprendo le meraviglie che la natura ci offriva. Insieme, formavamo un legame indissolubile, che si rafforzava attraverso le sfide quotidiane e le gioie semplici della vita di campagna. Cominciai a lavorare la terra già dalla pancia di mia madre che mi portò con sé fino al giorno del parto. Appena imparai a camminare mi dedicai subito alla degustazione di tutto ciò che la terra produceva: dalla terra stessa ai vermi, alle formiche, alle foglie, alle more dei rovi, imparai subito a distinguerne i sapori e capii quali erano i più gustosi. Imparai a cavalcare Garibaldi, un meticcio di statura media, dal pelo lungo e folto, di un colore che sfumava dal nero al marrone al bianco, come se fosse stato dipinto da un artista. Garibaldi aveva due grandi orecchie pendenti e gli occhi di un verde intenso che trasmettevano curiosità. La lunga e folta coda arricciata sempre in movimento; si stendeva irrigidendosi quando puntava qualche insetto fastidioso, qualche piccolo rettile. Le sue prede preferite erano le lucertole. Da me si lasciava cavalcare passivamente senza mai ribellarsi. Imparai a mungere le vacche: Milli era la più grande, col mantello rossastro dalle sfumature bionde: la mia preferita perché riempivo più secchi ogni mungitura, ed erano soddisfazioni per me. Poi c'erano Codina, che aveva un curiosa coda piccola e nera e Alba e Rosalba entrambe figlie di Milli. Imparai a raccogliere le uova dalle galline. Scoprii come resistere, senza fuggire e tappandomi le orecchie per attenuare il grido straziante del maiale sgozzato e il frastuono angosciato delle galline, mentre mia madre affondava le mani nel loro collo. Tante cose imparai in quel mondo fuori misura, esagerato, colmo di innumerevoli meraviglie da scoprire. Quel mondo sconfinato si estendeva oltre le colline, presentando un panorama che sembrava non avere fine. I campi sterminati di grano dorato ondeggiavano sotto il vento, ogni spiga raccontava una storia di crescita e fatica. I frutteti, con i loro rami carichi dei loro figli succosi, offrivano una continua promessa di dolcezza, mentre i prati fioriti erano un tappeto di colori vibranti, popolati da insetti laboriosi. Imparai a riconoscere i rumori specifici del posto: il fruscio delle foglie, il richiamo degli uccelli, e in lontananza, Il suono del ruscello che scorreva sereno riempiendo l'aria di una melodia naturale, portando con sé la freschezza della montagna. Al tempo stesso, apprezzai i silenzi: momenti di calma che permettevano alla mente di riflettere. Con il passare dei giorni, iniziai a percepire le piccole variazioni, come l'illuminazione dei colori a seconda dell'ora del giorno e le sfumature degli odori che cambiavano con le stagioni. Ogni nuovo sapore, ogni morso di frutta fresca o boccone di pane caldo, mi insegnava a comprendere più a fondo la ricchezza e la complessità di questo luogo che mi circondava. Era un apprendimento costante, un dialogo silenzioso con la natura che mi circondava.
Non avevamo la televisione, perché non serviva e, in fondo, non c'era tempo per guardarla. Le nostre giornate erano interamente dedicate al lavoro nei campi, un impegno che coinvolgeva tutta la famiglia sin da piccoli. Dalla nascita fino all'età adulta, ciascuno di noi trovava il proprio ruolo nel ciclo incessante della vita agricola. Nella nostra realtà, si nasceva, si viveva e si moriva lavorando la terra. Era un'esistenza intrisa di fatica, ma anche di soddisfazione, dove i frutti del nostro impegno si manifestavano con ogni raccolto. Non c'era altra vita immaginabile per noi. Ogni stagione portava con sé il suo carico di lavoro e di speranza: dalla semina alla raccolta, ogni fase era un'opportunità per apprendere e crescere insieme. Sotto il caldo sole estivo o durante i freschi pomeriggi primaverili, il ritmo del lavoro scandiva le ore. La famiglia era unita, ciascuno con una funzione: mia madre curava l'orto e preparava i pasti sostanziosi per ricaricarci dopo lunghe giornate, mentre i miei fratelli ed io, crescendo, ci dividevamo tra le molteplici mansioni che la nostra terra richiedeva. Si creavano legami solidi, non solo fra di noi, ma anche con la terra stessa, che rispettavamo e dalla quale traevamo tutto ciò di cui avevamo bisogno. Il suono del vento tra i campi e il profumo dei fiori erano il sottofondo della nostra vita, un'esperienza che ci insegnava la pazienza e la gratitudine. In questo mondo semplice e autentico, componevamo una vita che, sebbene priva di molte comodità moderne, era ricca di significato e valori: il duro lavoro, la famiglia e il rispetto per la natura. Non avremmo potuto immaginare un altro modo di vivere, questo era il nostro destino, e lo abbracciavamo con orgoglio.
A sei anni mi portarono di forza a scuola. Mio padre voleva a tutti i costi che prendessi un pezzo di carta perché «Senza un pezzu di carta, avannu, un si' nuddu!» diceva. Dovetti ubbidire e così, pian piano, mi abituai alla presenza di altri esseri umani con i quali condividere alcune ore della mia vita. Fui costretto, di malavoglia, a socializzare, ma cercai di mantenere la mia riservatezza da lupo solitario. Studiavo e lavoravo, studiavo e lavoravo, tutti i giorni, ad eccezione della domenica quando lavoravo e basta. Per le vacanze lavoravo e basta, finché non presi un po' di confidenza con i miei simili e, di tanto in tanto, cominciai ad invitare qualche compagno di classe che veniva a trovarmi, così giocavamo e lavoravamo insieme. Giocavamo a chi lanciava la pietra più lontano, a chi colpiva le lucertole, a chi pisciava più a lungo e più lontano. Ci guardavamo l'uccello per vedere chi l'aveva più grosso e provavamo le sensazioni di una mano estranea immaginando, ridendo, che fosse quella di una compagna: «T'immagini Carmela, t'immagini Rosaria?» eccetera. Fu così fino a tredici anni, quando finalmente presi il diploma della scuola media, un traguardo che sembrava lontano e quasi irraggiungibile nei miei primi anni di studio. Ricordo l'emozione che mi pervase quando lessi: Salvatore Paternò - Licenziato nel foglio appuntato nella bacheca della scuola. Il cuore mi batteva forte per l'ansia e la gioia di quel momento. Era un passo simbolico verso l'età adulta, un segno che il duro lavoro e la dedizione avevano dato i loro frutti. Il diploma di terza media era per me una tappa fondamentale, un autentico trampolino di lancio verso un futuro che sembrava finalmente a portata di mano. Nella mia mente, rappresentava una sorta di barriera che, una volta valicata, non solo avrebbe soddisfatto le aspettative di mio padre, ma mi avrebbe anche aperto le porte verso il mondo esterno, quel regno oltre le colline che per anni aveva affascinato me e i miei compagni durante lunghe conversazioni sotto il sole estivo. Ci costruivamo un futuro con i racconti di esperienze al di fuori del nostro piccolo villaggio, di opportunità e di avventure, riportando i racconti dei più grandi che avevano “sfondato”. La mia aspirazione cresceva. Il diploma diventava così un simbolo di libertà, un passaggio necessario per lasciarmi alle spalle il mondo familiare e intraprendere un viaggio che avrei potuto scrivere da solo.
Eugenio Maria Testaverde
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