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Autore: Raffaele Boccia
Quaranta inverni
Romanzo
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Quaranta inverni

Tatà tatàn... tatà tatàn... tatà tatàn... tatà tatàn... Il carrello del vagone ripete all'infinito il tocco delle ruote d'acciaio sulle giunture dei binari. Ad ogni tocco e risposta è un intero binario percorso: quarantotto metri. Quanti tatà tatàn ci sono da Genova a Treviso?
Nello scompartimento di prima classe Enrico guarda la pianura scorrere di là del finestrino, e cerca di calcolare a mente il numero di tratti di binari trascorsi e quanti ce ne vorranno per arrivare. Ma la mente si perde. Oltre al tatàn dei binari c'è il cavo della linea elettrica che ad ogni palo sale scende risale ridiscende risale. Notte sulla pianura padana. Buio, interrotto ogni tanto da poche luci a volte vicine a volte lontane, e il den den den den della campana ad un passaggio a livello.
Passata Brescia, si va a Verona.
Enrico è sbarcato stamattina dal transatlantico Leonardo da Vinci, New York - Genova. Un cedimento alla nostalgia, pensa, potevo prendere l'aereo, con il DC-8 in otto ore ero a Roma; invece, in nave, otto giorni. Ma così si viaggia davvero, ci si avvicina alla meta percorrendo uno spazio, si ha il tempo di “vivere” l'avvicinamento no? Magari tornerò in aereo. Nostalgia? Non so perché, ma sentivo che era in nave che dovevo tornare, come in nave me ne ero andato.
Quel viaggio, Genova – New York, del 1919, fu davvero un viaggio tremendo, ma non c'era scelta. La Leonardo da Vinci, invece, ha cabine con bagno e aria condizionata, e stabilizzatori contro il mare grosso. Gli occhi di Enrico si chiudono.
È un uomo sulla sessantina, ben vestito, magro, alto, capelli grigi ondulati all'indietro e con un paio di baffetti pure grigi, come si usa oggi, nel 1961. Nello scompartimento c'è la luce notturna, azzurra e fioca. Gli altri due sono un monsignore, con le calze viola, ben pasciuto, che se la dorme di gusto, lato finestrino di fronte ad Enrico, e una signora anziana, lato porta, con un cestino chiuso da uno sportellino di vimini, dal quale un mini cagnetto osserva curioso Enrico.
“Disturba il cane?” aveva chiesto la signora “è piccolo e non abbaia. È il mio tesoro.”
La nave che partiva da Genova, in quel 1919, era la Duca degli Abruzzi, un piroscafo transatlantico a vapore, pieno di emigranti per lo più analfabeti, con le loro valige di cartone, e fagotti di vestiti. Quanta povera umanità! La stessa che aveva incontrato sui campi di battaglia: numeri, travolti da qualcosa che non capivano e che dovevano subire, per la Patria. La stessa Patria che poi li rigettò in mare, verso la speranza di Paesi sconosciuti.
Se la ricordava bene quella traversata, Enrico, che allora aveva quasi ventidue anni, nelle cuccette a castello di terza, giù nella pancia della nave. Come in guerra, c'erano ragazzi della sua stessa età, ma soprattutto uomini dalle mani rosse e rotte, grandi come badili, che a malapena parlavano italiano; e si erano fatti dei gruppi divisi per dialetto, per regione. Si raccontavano favole sull'America, che ci si sfamava a volontà, fiumi di birra, le auto, e le americane! Ah le americane... Chissà che si raccontavano invece le donne nel reparto femminile, ben più piantate con i piedi a terra, con già tre-quattro figli da badare, e quell'espressione da fame che non si sarebbero più tolta. O le “gambe storte”, tipico della denutrizione figlia della guerra. La Grande Guerra.
Gli americani sono venuti ad aiutarci, visto? Vuol dire che è brava gente, di che c'è d'aver paura allora? Siamo tutti figli di Dio, e l'America è grande.
Enrico viaggiava solo, e guardava tutta quella gente senza scuola, gente dalle mani forti da lavoro pesante, proprio quello che l'America cercava: come se la sarebbero cavata? Senza una parola d'inglese, e poche di italiano? Enrico un po' d'inglese lo sapeva: oltre al Regio Liceo Tito Livio, papà lo aveva obbligato a studiare francese e inglese “se vuoi essere cittadino del mondo”. Grazie papà, scusami se allora non capivo.

Tatà tatàn... tatà tatàn... tatà tatàn... tatà tatàn... Poi la pace e il silenzio del treno fermo in stazione. Verona. Fischi dei capostazione, carrelli trascinati a mano. Sono le cinque del mattino. Nella pace, nel silenzio, Enrico si addormenta. Arrivato a cent'anni pensavo d'aver capito molto di quel che serve. Che altro tempo avrò oltre cent'anni? Mi dicevo. Ma era la ragione a dirne, e quella sa solo far di conto. Anche stanotte il sonno non voleva spegnermi. L'anima era affamata. Cosa non ho capito? E più pensavo più la risposta si allontanava. Forse solo dimenticata.
E questo “dimenticata” mi ha fatto riflettere che i bambini lasciano quasi tutto della loro prima età, per essere nuovi, e vedere come sanno vedere con occhi virginali: era il pensiero giusto, ne ho sentito la pace che mi infondeva. Non posso fermarmi, devo dimenticare il superfluo e imparare il nuovo, anche se il tempo non mi basterà.
Troppo di tutto tanto.

Trambusto. Il prete si alza, chiede scusa.
“Sa dove siamo? Verona? Grazie.”
Esce in corridoio. La signora infila la mano nel cestino e accarezza il cagnetto, che è davvero un buon cagnetto, non ha fatto un bau in tutto il tempo.
Agli occhi di Enrico risponde.
“Si chiama Helmut, come mio marito. Un grand'uomo sa? Morto sul Podgora? Ne sa niente? Era anche lei al fronte nella prima? Che tragedia vero? Chiamo il cane e mi par di chiamare lui... ci parlo sa, fa tanta compagnia.”
Enrico risponde a monosillabi, troppo preso dai ricordi che lo stanno assillando: ognuno richiede attenzione, ognuno vuol essere più importante dell'altro, si spintonano nel corridoio del tempo.

Un mese per arrivare a New York, e là il sollievo di averla scampata, ché il ricordo del Titanic era recente, e quella era una nave di lusso inaffondabile! Pensa questa... La notte calarono l'ancora al largo, in attesa del permesso d'attracco. Così videro i primi americani, nelle loro divise nere con il colletto rigido e alto. Non sembravano molto amichevoli, in verità, latravano ordini mentre ispezionavano “il carico”: mille morti di fame italiani, questo era il carico. Tutti in coperta fu l'ordine. E tutti raccolsero quel che avevano, tutto quel che avevano, e salirono ammassati in coperta.
Nella notte New York era una visione da favola, o infernale. Dalla baia fuori dal porto si poteva vedere solo una striscia nera piena di luci, e i famosi grattacieli, eccoli là. Che impressione paisà vedè tutta quella cosa grande, che non t'immagini che una città può essere grande accussì.
Altre navi erano alla fonda, altre migliaia di migranti aspettavano il loro biglietto d'ingresso al futuro.
Dopo un giorno intero la nave si mosse, lenta, e si poté vedere la famosa Statua della Libertà.
“Pare la Madonna pare, signurì che dite?”
E altri stupori, mentre tutti realizzavano che quello non era l'arrivo, era la partenza di questa nuova vita, come si dovesse rinascere un'altra volta, tra le urla e il sangue. Che una cosa è dire “vado in America”, e altro è avercela là di fronte quest'America enorme e minacciosa, fatta di americani che parlano americano, e doverci entrare, penetrare, trovare una via, qualcuno che ti ascolti, che ti dia ascolto, e una soluzione per restare.
Gli uomini erano spaventati, si capiva da come ridevano di niente, imbarazzati. Da che parte prenderla questa America? Le donne erano invece mute, con i figli attaccati alle gonne, il dito in bocca, di fronte a quell'enormità.
E la puzza. Ci si dovrebbe presentare al meglio no? Ma un mese chiusi in stiva, con pochi bagni, nessuna doccia, spalla a spalla con il vicino, e chi vomita chi scoreggia, tutte cose naturali no? Ma quell'odore, quella puzza rancida, resta addosso. Per non parlare delle pulci, e le cimici. E...
Così si scende, finalmente, terra ferma. Ellis Island. Si fanno gli esami per essere ammessi all'America. In lunghe file, maschi di qua, femmine di là, tutti con il numero sul petto, e le carte portate dall'Italia. Ma come parlano questi? Diomio non si capisce nulla.
E ti spruzzano di disinfettante in polvere, e ti visitano, uno a uno, tu di qua tu di là. E spesso tu di là voleva dire un altro mese di viaggio per tornare in Italia, respinto.

Biglietto prego. Il controllore accende la luce centrale dello scompartimento, sveglio e in divisa impeccabile. Prende, controlla, buca i biglietti.
“Per Treviso deve scendere a Mestre, lì trova la coincidenza, direzione Udine.”
“Grazie.”
“Quanto manca?”
“Siamo in ritardo, ancora due ore.”
Ho sbagliato a prendere la nave per tornare, pensa Enrico, che credevo di rivivere? I vent'anni? Quella voglia di scoperta, quel senso di forza? La Leonardo da Vinci non è la Duca degli Abruzzi. Ho viaggiato in prima, se volevo il brivido almeno avrei dovuto viaggiare in terza, se esiste ancora.
Il tempo che è andato non torna. Nulla è più come prima. Io stesso, l'uomo che guarda, che vive, non sono più lo stesso. Partivo in fuga, torno per... Che credo di trovare? Che spero di trovare? Sono passati quarant'anni. È passata una vita intera. Il mondo stesso è cambiato.
La pianura nella luce livida dell'alba ha un altro contorno. Campi e campi, capannoni e capannoni, casette, campanili. Il mondo dorme ancora mentre passa come in un rotoscopio infinito tutto uguale. L'Italia del 1961. Enrico fissa quella linea lontana al limite delle montagne, che sembra immobile mentre tutto il resto scorre e fugge.

Un altro treno, molti anni prima, stessa pianura. Un treno scomodo dai sedili di legno chiaro, un'unica carrozza, pieno di ragazzi in divisa. E anche non ragazzi, che avevano altri occhi e altri pensieri. C'era chi aveva trentacinque anni, trentacinque!, Che aveva lasciato il podere appena seminato, e la moglie e i sei figli. Chi aveva lo sguardo cupo dell'ex carcerato, liberato per andarsi ad infilare nella guerra degli italiani, crimini da poco eh!, Ma crimini. Dalla cella alla pseudo libertà di andare a farsi ammazzare. C'era addirittura chi veniva dal manicomio, abbastanza matto per esserci stato, non abbastanza per andare al fronte. Tutto aveva raccolto dal fondo del barile l'ultima chiamata alla leva, la cartolina, che i carabinieri reali ti portavano di persona, come fosse un invito a palazzo.
Anche Enrico, primo anno di medicina, aveva ricevuto il suo bell'invito. Si va tutti a difendere la Patria dall'invasore che viene da est: gli austroungarici ancor più pazzi degli altri. Ce l'hanno fissa quelli, con i loro cugini tedeschi, dell'Uber Alles.
Enrico era un “aspirante sottotenente”, un ufficiale a tutti gli effetti. E si vedeva come la truppa lo guardasse di sottecchi, con le sue stellette che esigevano rispetto. Enrico aveva studiato, libri e libri, e giustamente era subito diventato ufficiale. Sapeva leggere, scrivere, far di conto, e molte altre cose che quella massa di soldati poteva solo immaginare, senza conoscere.
Aspirante sottotenente, neanche sottotenente... Non aveva fatto l'accademia militare, sapeva poco o niente di guerra, di tattica, di strategia. In un corso accelerato gli avevano insegnato a sparare con la pistola e il fucile, e cosa fosse essere ufficiale nel 1917, dopo due anni di guerra. Voleva dire soprattutto pretendere disciplina, amministrare la giustizia di guerra, obbedire agli ordini e distribuire ordini. Un ingranaggio nella catena gerarchica di comando, al cui vertice sedeva il Generale Cadorna. Il mitico Generale Cadorna.
Oh, se ne dicevano di questo Cadorna!
Enrico si era studiato il regolamento, ancora quello del 1869, e quella era la bibbia dei suoi prossimi mesi. Di che fosse “il fronte”, che fosse la guerra, era altra cosa: quella non te la possono insegnare, ci devi mettere dentro le mani, e il muso. Aveva anche studiato, sui libri, armi e armamenti, ma mai visto un cannone in vita sua. Come tanti altri ragazzi con le stellette mandati in quel 1917 a comandare altri ragazzi e non ragazzi, senza stellette, raffazzonati di corsa, perché la guerra era incerta, decine di migliaia i morti, e serviva sangue fresco. Sangue soprattutto.
“Superiò, permettete, lo volete un bicchiere di rosso? Lo facciamo noi, al paese.”
Enrico si scosse dai suoi pensieri e mise a fuoco quel ragazzone che gli tendeva un bicchiere con del vino. Pelle scura, contadina, ma un bel sorriso, con denti da ruminante.
“Grazie, no, di mattina no, grazie.”
“È buono, provate.”
Enrico capì, e fu il suo primo avvicinamento con la truppa. Gli avevano insegnato a mantenere un certo distacco da chi avrebbe dovuto comandare, ma era anche lui figlio del popolo, e rispose con un sorriso. Allungò la mano, bevve un sorso di un vino potente, denso come uno sciroppo.
“Buono, grazie, ma mi basta.”
“Superiò, che dite, vinceremo?”
“Certo! Vinceremo. Siamo nel giusto, e vinceremo”
Il soldato fece un grande sorriso, e scolò il resto nel bicchiere.
“Dove andate se posso chiedere.”
“Udine, come tutti qui.”
“So' scemo! Lo dovevo sape' io” ride confuso.
“Quanti anni hai?”
“Diciotto superiò, appena fatti.”
Il dialogo era terminato, non c'era altro da dire. C'era moltissimo da dire, ma mancava quell'empatia, quella possibilità di dire altro. Un po' Enrico si sentiva “superiore”, e molto, mentre gli altri si sentivano inferiori, quindi, che ci si poteva dire?
I ragazzi dei sedili a lato giocavano a carte, un qualche gioco, con delle carte consumate dall'uso, unte, e lo facevano con molta serietà, sottolineando con commenti e grugniti ogni calata. Più in là un ragazzo che evidentemente sapeva scrivere era impegnato a tracciare segni con una matita su un libretto, forse un diario? Altri dormivano come fossero in una culla, con un viso disteso, beato, mentre percorrevano praterie oniriche, alcuni addosso al compagno di sedile, alcuni di traverso, abbandonati, come abbandonati sono gli uomini che dormono, lontani nei loro sogni.
Enrico osservava distratto: per un po' quella varia umanità di compagni di viaggio – dove porterà questo viaggio? Chi ritornerà? – e un po' la pianura verde interrotta ogni tanto da un campanile vicino o lontano che fungeva da interpunzione. La locomotiva pompava vapore, e si sentiva quell'odore continuo di carbone che permeava ogni cosa. “Galleriaaa” urlava qualcuno ogni tanto, e si affrettavano a chiudere i finestrini per impedire al fumo di entrare dal budello delle gallerie.
Decine e decine di ragazzi, più o meno consapevoli, che andavano incontro al destino, e nessuno sapeva se sarebbe tornato. Molti avevano medagliette e santini nelle tasche, chi cucito alla maglia di sotto da madri piangenti. Fammelo tornare a casa questo figlio mio, Madonninna, San Michele, San Gennaro, Santi tutti del Paradiso... Fateceli tornare questi figli che son costati lacrime e sangue, e amore.
So' pezz'e core. Parti stesse delle viscere materne.
Ogni tanto qualcuno rideva, in fondo. Ragazzi che vanno alla guerra, per l'Italia fatta da poco, nord e sud, che in fondo sono tutti uguali no? Siamo tutti paisà.
Enrico aveva gli stivali, belli, di cuoio lucido. La truppa invece aveva le fasce: oltre alla divisa di panno grezzo, che pizzica al collo, sopra agli scarponi di improbabile cuoio con le suole ferrate per farle durare di più, c'erano le fasce attorno ai polpacci da fare ogni mattina e disfare ogni sera, con cura. Un esercito di straccioni. Ma dentro le divise corpi, cuori, figli di mamma.
Un'intera generazione, i figli dell'Italia, andava a farsi macellare. Venivano dalle città, ma soprattutto dalle campagne di un Paese rurale, ancora nell'ottocento contadino. Non sapevano nulla di che ci fosse oltre il perimetro del paesello o del quartiere, avevano vissuto una vita tutto sommato protetta, anche se dura, e ora avrebbero dovuto confrontarsi con un nemico che nemmeno sapevano chi fosse, con la disciplina assoluta, con le regole e le armi che nemmeno sapevano usare. E si moriva, davvero.
Si moriva malamente, ammazzati. Ragazzi di vent'anni impreparati non solo a morire, ma nemmeno ancora a vivere.

Raffaele Boccia

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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Lisa Ginzburg Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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