
L'astronave solcava indisturbata le profondità del cosmo, diretta verso la nostra destinazione: un piccolo pianeta situato nella fascia abitabile della stella Mintaka, parte della costellazione di Orione, noto come Mintaka-A. Alcuni anni prima, sonde esplorative erano state inviate a studiare quel sistema solare, alla ricerca di giacimenti minerari o possibili forme di vita. Dopo aver sorvolato i pochi pianeti intrappolati nel campo gravitazionale della stella, che li teneva in orbita, le sonde rilevarono diverse anomalie sulla superficie di uno di essi, quello con condizioni più simili alla Terra. Le informazioni inviate al controllo missione fecero immediatamente scattare gli allarmi: gli scienziati compresero subito l'importanza di quei dati. Gli scienziati si misero a studiare a fondo quelle anomalie, scoprendo che si trattava di strutture di natura apparentemente artificiale. Questa rivelazione li portò a ipotizzare che, in un passato remoto, una civiltà avesse abitato quel pianeta lontano. La compagnia per cui avevo iniziato a lavorare, dopo aver lasciato l'aviazione militare, colse al volo l'opportunità e decise di organizzare una spedizione scientifica per studiare da vicino quelle anomalie. Sebbene fosse principalmente dedicata alla ricerca mineraria, il Consiglio di amministrazione intuì il potenziale economico della scoperta: il ritrovamento di una civiltà aliena avrebbe potuto fruttare miliardi di crediti. Inoltre, la scoperta avrebbe accresciuto enormemente la notorietà della compagnia, attirando più fondi e nuovi contratti esplorativi, senza contare la fama che una rivelazione di tale portata avrebbe garantito. Senza perdere tempo, la compagnia iniziò a selezionare un comandante in grado di guidare la spedizione verso quel luogo inesplorato, insieme al personale che lo avrebbe affiancato. Tra i numerosi candidati convocati c'ero anch'io e, secondo il selezionatore, risultai il più idoneo a guidare la missione, grazie soprattutto alla mia esperienza militare. Dopo un lungo confronto con i responsabili, accettai l'incarico, ma non prima di averne discusso con mia moglie Sonya, che, oltre a essere il mio secondo pilota, condivideva con me ogni scelta importante. Stranamente, lei non accolse con entusiasmo la notizia, nonostante la missione fosse stata stimata durare poco meno di dieci mesi, almeno secondo i calcoli della compagnia. Alla fine, la convinsi: il compenso era straordinario, e le promisi che, una volta tornati sulla Terra, avremmo lasciato il lavoro e ci saremmo goduti quei soldi, abbandonando per sempre i viaggi interplanetari. Dopo una lunga discussione, e averle esposto le ragioni per cui unirci a quella spedizione era la scelta giusta, mia moglie accettò il nuovo incarico, a patto che le promettessi di ritirarci per sempre dai viaggi spaziali una volta tornati. Naturalmente, avevo tutta l'intenzione di mantenere quella promessa, a qualunque costo. Dopotutto, con il milione di crediti che avremmo guadagnato grazie alla missione, avremmo potuto andare in pensione a quarant'anni. Chi non avrebbe rispettato una promessa simile? Tornati sulla Terra, avrei comprato una casa in riva al mare, su una di quelle isole tropicali che avevo sempre sognato, e avrei trascorso il resto della mia vita lì, insieme a lei, mia moglie. Sarebbe stato tutto perfetto, e non avrei rinunciato a quel sogno per niente al mondo! Ci trovavamo in viaggio da quattro settimane e, secondo i calcoli, avremmo raggiunto la nostra destinazione entro altre quattro. Una volta atterrati sulla superficie del pianeta, avremmo guidato una squadra di scienziati ingaggiati dalla compagnia, tra cui archeologi e geologi, fino al sito in cui sorgevano le anomalie che avrebbero dovuto studiare. Mentre gli scienziati si sarebbero dedicati all'analisi delle scoperte, il mio compito e quello del mio equipaggio sarebbe stato garantire la loro sicurezza. Fortunatamente, le sonde non avevano rilevato tracce di forme di vita animale, a eccezion fatta per una rigogliosa vegetazione, responsabile di un'atmosfera sorprendentemente simile a quella terrestre. Non prevedendo intoppi una volta scesi sulla superficie, anzi, consideravo quella missione una sorta di vacanza per il mio equipaggio, seppur decisamente ben pagata. Oltre a mia moglie, viaggiavano con noi altre sei persone, da me personalmente selezionate per formare il resto dell'equipaggio. Li avevo scelti con cura: alcuni avevano un addestramento militare, come il sottoscritto, un elemento che ritenevo utile nel caso qualcosa fosse andato storto. Gli altri erano esperti di viaggi spaziali e sapevano come prendersi cura della nostra astronave, la Cristoforo. Tra loro c'erano due ex militari: Jackson Moore, a cui assegnai la gestione delle armi, e Frank Prosinski, esperto nell'affrontare ambienti ostili come boscaglie o terreni difficili. Sul ponte di comando, insieme a me e a Sonya, c'era Claire Brown, una testa calda con cui avevo volato durante il mio periodo trascorso nell'aeronautica militare. Nonostante il suo carattere impetuoso, possedeva una conoscenza impeccabile della strumentazione di bordo della Cristoforo. In sala macchine, invece, lavoravano Sarah Spencer e Jonathan Stewart, due meccanici di prim'ordine. Li avevo scelti non solo per l'eccellente posizione nella graduatoria stilata dalla compagnia, ma anche perché erano letteralmente nati e cresciuti su astronavi simili a quella che pilotavo. La Cristoforo era il fiore all'occhiello della compagnia, un'astronave che qualsiasi capitano avrebbe considerato un onore comandare. Progettata con le tecnologie più avanzate, era in grado di affrontare le immense distanze cosmiche viaggiando a velocità superiori a quella della luce, mentre il suo scafo, straordinariamente resistente, era costruito per sopportare l'impatto di qualsiasi detrito spaziale. Inoltre, a prua era stato montato uno schermo laser di ultima generazione, progettato per proteggere il resto dello scafo da eventuali detriti che avremmo potuto incontrare durante il viaggio. Qualsiasi comandante avrebbe desiderato comandare una nave simile, e io mi sentivo onorato di ricoprire quel ruolo. A completare l'equipaggio, avevamo con noi Fred O'Brien, un botanico incaricato della gestione dei sistemi di sopravvivenza della nave. Lavorava nella serra, situata al livello superiore della nave, dove venivano coltivate le piante destinate a rifornire di ossigeno l'intera astronave. Con il passare degli anni, le principali compagnie aerospaziali avevano scelto di eliminare i grandi serbatoi di ossigeno, sostituendoli con vegetazione in grado di garantire scorte illimitate in modo da affrontare viaggi sempre più lunghi. Infine, c'erano gli scienziati che trascorrevano il tempo nella stiva, allestita in modo da consentire loro di condurre i propri studi, con al comando un'archeologa, Laura Parker. Avevo parlato più volte con quella donna, e sembrava una persona che sapeva esattamente ciò che stava facendo. In ognuna di quelle occasioni, non aveva mai nascosto il suo entusiasmo di fronte a quella scoperta che, a quanto diceva, avrebbe fornito una risposta definitiva alla domanda che aveva assillato l'umanità per secoli: siamo soli nell'universo? Da parte mia, nutrivo la speranza che avesse effettivamente trovato qualcosa su quel pianeta, soprattutto per premiare l'entusiasmo che mostrava continuamente. Anche se non le dissi mai che, durante le numerose spedizioni minerarie svolte attraverso la galassia, non avevo mai incontrato alcuna forma di vita intelligente, né tantomeno trovato resti che potessero suggerire il suo passaggio. Certo, mi ero imbattuto in animali dalle forme più strane, alcuni anche micidiali, o in vegetazione dai colori incredibili. Ma civiltà intelligenti, o tracce del loro passaggio, non ne avevo mai viste. Comunque, quella donna, insieme agli altri scienziati ingaggiati dalla compagnia, rimase tutto il tempo nella stiva ad analizzare le informazioni inviate dalle sonde. La potevamo incontrare solo durante i pasti, ma raramente conversava con noi, membri dell'equipaggio, poiché preferiva sistemarsi in disparte con il resto della sua squadra per discutere di ciò che stavano studiando. Avevo da poco finito di cenare e mi trovavo sul ponte di comando, pronto a iniziare il mio turno alla guida della nave. Mi sistemai sulla mia poltrona e mi godetti il silenzio che regnava intorno a me, mentre le luci della plancia, che avevo davanti, segnalavano lo stato positivo della nave. Naturalmente, essendo nello spazio aperto, la navigazione era sotto il controllo del computer di bordo, che avrebbe seguito la rotta fino a raggiungere una stella distante circa una settimana di viaggio, dove avrei preso i comandi.
Michele Scalini
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