Le note della Sarabande di Händel inondavano il corpo e l'anima. Come sempre, davano la stura ai ricordi. Amava la musica per questo. Certa musica. Quella che gli suscitava un'estasi di piacere misto a sofferenza. Nostalgia, appunto. Dolore nel ricordo, come dice la parola. Si trovava in una stanza inondata di luce; sua madre lo sollevava tenendolo per la vita e lo faceva girare come una trottola. Lui rideva e si sentiva felice. Anche lei rideva. Il sole entrava dalla finestra e illuminava i loro corpi danzanti. La madre era giovane e bella. “Mamma, dov'è papà?” Lei si bloccava, come congelata, interrompendo la giravolta. Lo fissava negli occhi e il suo sguardo esprimeva un tormento interiore. “È morto, Emil; te l'ho detto tante volte.” “Sì, lo so, ma perché non mi ricordo niente di lui? Proprio niente! Non stava mai con me?” “Non è così, Emil. È morto prima che tu nascessi. Non l'hai mai visto; per questo non puoi rammentarlo.” Quante volte aveva rivissuto quel dialogo tra lui e la madre! Era così vivido e reale che sentiva ancora il suo tono di voce, impastato di imbarazzo e malumore, e perfino l'odore particolare di lei, che emanava quando era tesa. Quella domanda, che il figlio le poneva spesso, la metteva in crisi. Emil non lo faceva di proposito, ma la realtà gli pesava. Gli amichetti della scuola materna e i compagni di gioco avevano un papà. Anche quelli che lo incontravano solo ogni tanto, perché i genitori erano separati. Ma lui non lo vedeva mai. Non sapeva neanche come fosse fatto, che faccia avesse. Gli mancava. Evitava di dirlo apertamente alla mamma per non darle un dispiacere, ma era un fardello che si portava appresso. Come se avesse un buco dentro. Quando aveva visto Stig spuntare dalla camera di sua madre, quella lontana mattina di tanti anni prima, a Oslo, per un attimo si era convinto e illuso che fosse lui il suo papà. Spuntato improvvisamente da chissà dove. Un papà che gli piaceva molto, tra l'altro. Che lui rammentasse, non aveva mai visto nessuno dormire con sua madre e sapeva che i papà passavano la notte con le mamme. Così accadeva di solito a casa dei suoi amici. Gli venne da sorridere. Un sorriso amaro. Quella mattina, Stig era arrossito come un peperone e sua madre era andata nel panico. La sua uscita aveva destato un imbarazzo generale. Nulla di nuovo. Era molto sveglio per la sua età, così dicevano gli adulti, ma era sempre un bambino di quattro anni e capitava che facesse delle battute fuori luogo. Chissà se la mamma gli avrebbe mai rivelato la verità sul padre. Stig e Mina, i suoi futuri adottanti, gli avevano assicurato che lo avrebbe fatto; lo considerava ancora troppo piccolo per comprendere una verità non certo semplice da spiegare a un bambino. Ma Nora non aveva fatto in tempo. Una macchina l'aveva travolta mentre rincasava dal lavoro uccidendola sul colpo. A quattro anni, Emil era rimasto solo al mondo. Era ancora palpabile in lui il ricordo dell'angoscia di quella sera. Come fosse ora. La mamma non arrivava e il suo cellulare era irraggiungibile. Rivedeva se stesso accovacciato in un angolo, a casa della signora Sand, che si fingeva tranquilla. Ma con chi? Con lui non attaccava. Si vedeva benissimo che era preoccupata almeno quanto lui. La signora Sand! Stava volentieri con lei quando non era all'asilo. Un'anziana signora sempre gentile e affettuosa, che faceva degli ottimi biscotti. Non si erano persi di vista. Ogni tanto si sentivano ancora. In quel momento si accorse che il telefono fisso lampeggiava, anche se non ne udiva il suono a causa delle cuffie. Se le strappò via in gran fretta. Gli avevano insegnato che bisognava sempre rispondere al telefono. Stig e Mina erano due poliziotti; benché avessero i cellulari sempre con sé, quella era una regola fissa di casa Olsen - Halvorsen. Se i suoi compagni di scuola, affascinati dai cantanti moderni, avessero saputo che genere di musica ascoltava, lo avrebbero deriso. Tutti, tranne Line. Ma Emil non se ne preoccupava; era sempre stato diverso dagli altri. Fece un balzo e corse a rispondere. Udì la voce un po' rauca della signora Sand. Telepatia, pensò. La sentiva sempre volentieri. Era stata una figura pseudo materna per lui o, meglio, un surrogato di nonna che non aveva mai avuto, perché quella vera era morta alcolizzata prima che lui nascesse e dell'altra non sapeva nulla. Qualche convenevole di rito, infine la donna disse: “Ho qualcosa che potrebbe interessarti. Puoi passare da me?” “Che genere di roba è?” Si accese la curiosità. Cosa poteva mai avere che a lui interessasse? “Tu vieni e vedrai.” Forse era solo un pretesto perché desiderava compagnia. Glielo concedeva. “Va bene, faccio un salto subito.” Era in vacanza dalla scuola e non aveva impegni. Infilò il giubbotto imbottito, un berretto di lana e le scarpe pesanti. Uscì nella strada coperta di neve semi sciolta, ridotta a una poltiglia scivolosa. Il cielo era greve e prometteva altre precipitazioni, ma l'idea che finisse tutto in palta non lo allettava affatto. I cambiamenti climatici: ne parlavano ovunque. Si andava verso il caldo, la desertificazione, la siccità. Che ansia. I vecchi raccontavano che una volta Oslo era coperta di neve compatta per tutto l'inverno e si poteva andare con lo slittino lungo le strade. Ma erano altri tempi. Ora si trattava di pioggia gelida o al massimo di neve bagnata che si scioglieva subito. Percorse la via in cui abitava, nel quartiere di Aker Brygge. Gli alberi spogli, fradici e gocciolanti, mettevano tristezza. Le illuminazioni natalizie che adornavano porte e finestre creavano una nota allegra, ma in quel contesto erano solo un misero palliativo e non producevano l'effetto desiderato. Se il contorno fosse bianco, tutto sarebbe incantevole. Si avviò verso la fermata del tram. Stig cambiò posizione nella poltrona in similpelle di cui godeva nel suo ufficio di commissario. Da un po' di tempo soffriva di dolori lombari e non riusciva a stare seduto nella stessa posizione per più di dieci minuti di seguito. Spesso era costretto ad alzarsi e a fare due passi nella stanza, oppure a uscire in corridoio per una breve camminata, col pretesto di parlare con qualcuno o di prendere un caffè alla macchinetta. Detestava l'idea di avere degli acciacchi e faceva stoicamente finta di nulla. Non avrebbe rivelato la verità neanche sotto tortura. Mina gli ripeteva ogni giorno di andare dal medico per capire quale fosse la causa del dolore, ma non ne aveva nessuna voglia, anche se era conscio che prima o poi avrebbe dovuto cedere. Si limitava a prendere degli analgesici quando proprio non resisteva più e andava avanti. Odiava i medici, gli ospedali e le medicine, benché dovesse ammettere che in certi casi erano indispensabili. Non poteva certo dimenticare il tragico episodio di quasi tredici anni prima. Trovato lungo una strada in stato comatoso, con una steatosi epatica dovuta all' abuso di alcol, era stato in serio pericolo di vita. Con le cure ospedaliere si era salvato, pur subendo dei danni neurologici poi risolti e una fastidiosa amnesia durata parecchio. Doveva ringraziare i medici che l'avevano curato e non certo per ultima Nora, la mamma di Emil, che lo aveva assistito con affetto non puramente infermieristico e seguito anche dopo la dimissione. Grazie a lei e a certi suoi riferimenti all'ultimo suo caso poliziesco, riguardante la duplice scomparsa di due bambini ad anni di distanza, che parevano collegati tra loro, aveva recuperato i suoi ricordi e trovato la forza di andare a cercare Mina, scomparsa in seguito a una rottura del loro rapporto. Una lunga e terribile storia, che si era conclusa alla fine per il meglio, coronata con l'adozione del piccolo Emil, rimasto improvvisamente orfano e solo al mondo. Stig fissò l'albero spoglio e gocciolante di fronte alla finestra del suo ufficio. Dopo l'entusiasmo iniziale, lui e Mina si erano resi conto che allevare un bambino non era cosa da poco, anche se Emil sembrava un tipo speciale, un ometto in miniatura. Si erano arrovellati a lungo su un argomento scottante: quando rivelargli la verità sul padre? Erano convinti che dovesse conoscerla, anche se non era edificante. Crescendo, avrebbe scoperto che non era morto, come gli aveva detto Nora, e sarebbe stato ancora peggio. Avevano atteso i suoi otto anni, chiedendosi se fosse troppo presto o troppo tardi per farlo. Pur non essendo del tutto sicuri che fosse il momento giusto, non volevano aspettare oltre, temendo di suscitare delle reazioni negative da parte sua. Emil sembrava averla presa bene, ma Stig era convinto che non fosse realmente così. I lunghi silenzi e gli sguardi persi nel vuoto raccontavano una realtà diversa. Ciò che gli rincresceva di più era l'atteggiamento di Emil verso di lui, che appariva cambiato dopo quella rivelazione. Dopo un grande attaccamento verso il facente funzione di padre, era subentrato un rapporto tiepido, in certi casi anche freddo. Educato e rispettoso, ma privo del calore che Stig auspicava e che nei primi anni aveva sperimentato. Eppure, Emil sapeva dall'inizio che Stig non era suo padre, ma qualcosa doveva essere mutato in lui nel sapere che il suo genitore biologico non era affatto morto prima che lui nascesse, come gli aveva detto sua madre, ma poteva essere vivo e trovarsi da qualche parte. Non era più un'anima nel mondo di là, ma un essere vivente. Per quel che si sapeva, poteva comunque essere defunto, ma esisteva anche un'elevata possibilità che non lo fosse. Era il ventinove dicembre: Emil compiva quel giorno sedici anni. Una tappa importante per la legge norvegese. Poteva decidere cosa fare di sé stesso e come e con chi fare sesso. Stig lanciò un'occhiata al pacchetto posato in un angolo della scrivania; si augurava che il telefono cellulare di ultima generazione da lui acquistato fosse di suo gradimento. Sapeva che lo desiderava, ma con i ragazzi non si poteva mai andare sul sicuro. Magari gli era venuto in mente qualcos'altro all'ultimo minuto. No, non era da Emil, si rassicurò. Si strinse nelle spalle. Era un tipo strano, quel ragazzo. Alla sua età, gli altri andavano a festeggiare con gli amici in qualche locale, ma Emil era alieno da tutto ciò. Le feste non gli piacevano, amava stare da solo e legava poco con i compagni. Forse perché non ha nulla in comune con loro. Gli piace studiare; divora libri e ascolta musica classica nel tempo libero. Sospettava che si fosse messo anche a scrivere, ma non osava chiedere niente e aspettava che fosse lui a dirglielo. Emil era uno dei migliori alunni della scuola. Questo rende poco popolari. Ne sapeva qualcosa anche lui. Era ormai buio. La fine di una giornata uggiosa, trascorsa tra occupazioni banali e noiose. Inoltre, quel tempo metteva sonnolenza e cattivo umore. Non devo lamentarmi delle giornate monotone, si disse; è molto peggio trovarsi coinvolti in certi casi complicati di cui non si viene a capo. Ne ricordava parecchi nella sua carriera. Chissà se Mina sarà tornata o farà tardi stasera? Anche lei in polizia, lavorava come ispettrice in un'altra sezione della polizia di Oslo. Benché non glielo dicesse mai, gli mancavano le discussioni accese e le litigate furiose di un tempo, dovute soprattutto al fatto che Mina voleva fare sempre di testa sua, contravvenendo alle regole. Molte volte si era trovato costretto a coprirla per evitarle dei grossi guai. Eppure, tutto ciò gli mancava. Ora, se si fosse messa nei pasticci, avrebbe dovuto cavarsela da sola. Sentiva che in un certo senso il loro rapporto era cambiato e quel cambiamento non gli piaceva. La vita di un tempo era forse stressante, ma aveva più sapore. Si odiavano e si amavano con pari intensità. Da quanto tempo non succedeva più? Erano invecchiati.
Marialuisa Moro
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