Zona industriale – Trezzo sull'Adda (Milano).
Una fitta nebbia, giunta dal fiume, velava la luna rendendo la notte più buia del solito. Sandro detestava quel tipo di notti. Le riteneva inquietanti. A volte, aveva la sensazione che l'uomo nero, presenza costante nei suoi incubi da bambino, sarebbe spuntato all'improvviso dall'oscurità, afferrandolo brutalmente. Rabbrividì a quel pensiero. Tirò su la zip della sua giacca logora, prese dalla tasca una sciarpa floreale, sporca e consunta, e l'avvolse intorno al collo e fin sopra la bocca. Non aiutava granché contro il gelo, ma era meglio di niente. Aprì il portafoglio, scartò alcuni documenti e un vecchio preservativo, poi tirò fuori i contanti e li contò rapidamente. Ventisei euro. Tutto qui?, borbottò tra sé. Infilò i soldi in tasca, consapevole che gli avrebbero garantito almeno un paio di pasti e qualche altra necessità. Avrebbe evitato di cercare avanzi di cibo nei bidoni dell'immondizia per un paio di giorni. Odiava ravanare nella spazzatura. Solo l'odore bastava a nausearlo. Ma era abbastanza pragmatico da sapere che, quando vivi per strada, non hai molte opzioni. Quindi, tra l'alternativa di mangiare quello che trovava nel bidone o morire di fame, sceglieva di raschiare via i pezzi ammuffiti e sporchi e fingeva di mangiare un pasto da ristorante a cinque stelle. Un'illusione, lo sapeva bene, ma era meglio che subire i crampi allo stomaco conseguenti al digiuno. Seduto sulla soglia di un edificio ormai da tempo abbandonato, Sandro frugò il resto del portafoglio ed estrasse la patente di guida infilata in una delle tasche laterali. La foto ritraeva un giovane venticinquenne dai capelli biondi e profondi occhi azzurri. Guardò le sue fattezze con invidia. Di sicuro avrà vita facile con le ragazze, pensò. «Scusami per averti rubato il portafoglio, Fabio Leone. Ma sai... si fa quel che si deve fare per sopravvivere, e in questo momento ne ho più bisogno io di te. Non credo che ti troverai mai nella mia stessa situazione, visto che te la passi bene, ma imparerai questa preziosa lezione a causa della tua superficialità», disse ad alta voce fissando l'immagine dell'individuo a cui l'aveva sottratto. Sandro pensava che Fabio Leone avesse l'aria di un uomo viziato e pretenzioso. La BMW, a cui aveva forzato la portiera e dove aveva trovato il portafoglio, contribuiva certamente a rafforzare la sua convinzione. «Ma che idiota! Lasciare il portafoglio in macchina, e in bella vista!», brontolò. «Un ragazzino con più soldi che buonsenso, ecco chi sei, Fabio». Sandro dubitava che quell'uomo avesse mai vissuto privazioni nella sua vita agiata e, presumibilmente, viziata. Di sicuro non sembrava un giovane che avesse mai sofferto o desiderato maledettamente qualcosa. Come lui. «Questo ragazzo non conosce tempi difficili o cosa significhi davvero una vita dura», borbottò alla sua stessa ombra. Prese le carte di credito ma lasciò il bancomat. Senza il PIN, sarebbe stato inutile. Valutò di usarle per comprare qualche scorta alimentare il mattino seguente, all'apertura dei negozi. Meglio provarci prima che Fabio Leone se ne accorga e le annulli, pensò. Una giacca. Sicuramente mi prenderò una nuova giacca. E un paio di calzini caldi, accidenti. Sì, decisamente calzini caldi. Non trovando altro di interessante, o di valore, lanciò il portafoglio in un mucchio di immondizia accanto a lui, e iniziò a compilare mentalmente una lista di cose che avrebbe voluto comprare. Pensò di cercare un posto dove dormire vicino a un ipermercato locale, così sarebbe stato nelle vicinanze all'apertura e avrebbe potuto prendere subito ciò di cui aveva bisogno. Aveva notato che i cassieri erano meno propensi a dargli fastidio di primo mattino, prima di prendere il loro caffè, rispetto a quando entrava durante le ore di punta. Notò un ragazzo alto e snello lungo la strada, dirigersi verso di lui. Che fa qui a quest'ora? Il buio gli impediva di vedere nitido il suo viso, ma non sembrava minaccioso. Valutò il cappotto e le scarpe eleganti che indossava piuttosto costosi, e intravide qualcosa che assomigliava a un Rolex al suo polso. Una cosa che il vivere per strada gli aveva insegnato era di calcolare il valore dei vestiti e accessori di qualcuno in un attimo. Si vantava di chiamare questa sua capacità di valutazione istantanea il suo istinto del predatore. Lo faceva sentire come un leone nella savana, in agguato dietro a una gazzella. E mentre osservava il ragazzo procedere sul marciapiede, pensò che il destino gli stesse sorridendo. Considerando l'abbigliamento, immaginò che il ragazzo avesse un bel gruzzoletto nel suo portafoglio. Che faccio? Lo derubo?, si chiese d'istinto. Ma sapeva già che lo avrebbe fatto. Forse avrebbe potuto permettersi una stanza in una pensioncina senza grandi pretese, per una o due notti. Col pensiero di una doccia calda e di un comodo letto, si alzò e scese i gradini. Il bersaglio avanzava verso di lui, le mani infilate nelle tasche, la testa bassa. Non sembrava neanche accorgersi che Sandro si stava avvicinando. Semplice come bere un bicchiere d'acqua, mormorò il senzatetto tra sé. Si stirò le mani, chiudendo e aprendo i pugni un paio di volte, e si scrollò le spalle, pronto per l'attacco. «Ehi, amico», disse al giovane. «Puoi dare un po' di soldi a un uomo sfortunato?» Quell'approccio parve spaventarlo, perché il ragazzo si fermò di colpo e alzò gli occhi. Uno sguardo sinistro apparve sul suo volto. Fu sufficiente a fermare Sandro e a incutergli un senso d'incertezza. «Tu sei Sandro Gervasi, vero?», domandò il ragazzo. Non fu il suo istinto del predatore, ma il suono di una scarpa che raschiava il marciapiede dietro di lui, a mettere Sandro sull'avviso della presenza di qualcuno alle sue spalle. Rapida, una mano lo afferrò da dietro per i capelli, tirando la testa da un lato. Il senzatetto sentì il pizzico di un ago che si insinuava nel suo collo e si contorse. La vista vacillò e iniziò a sentirsi leggero. Sentì il corpo intorpidirsi ed ebbe la sensazione che il suolo gli si avvicinasse velocemente. Colpì il pavimento con un tonfo sordo e un gemito, mentre la testa rimbalzava sul cemento. Sandro poteva sentirli parlare e udì il suono di un'auto che si fermava accanto a loro sul marciapiede. Poi il suo mondo diventò nero.
Sandro ansimava e sputacchiava. L'acqua era così gelida che gli tolse quasi il respiro mentre gli cadeva addosso. Scosse la testa, sforzandosi di focalizzare ciò che aveva intorno, mentre il panno bagnato del cappuccio si attaccava scomodamente alla sua pelle. Non riusciva a sollevare le braccia o a muovere le gambe. Fu allora che si rese conto di essere nudo e seduto su una sedia di metallo freddo. Le sue mani erano legate dietro la schiena e le caviglie assicurate alle gambe della sedia da due manette metalliche. Erano così strette che sentiva i bordi tagliargli la pelle e bloccargli la circolazione. Lottò per slegarsi, ma non fece altro che graffiarsi ulteriormente. «Ehi, ma che diavolo!?», urlò. Il suo grido echeggiò nell'ampio spazio vuoto. Rabbrividì mentre il freddo dell'acqua gli penetrava nelle ossa. Il suono di passi, che schizzavano nell'acqua accumulatasi intorno a lui, annunciò la presenza di qualcuno, un istante prima che il cappuccio gli venisse strappato dalla testa. Sandro ansimò. Affiancate a semicerchio, c'erano sette figure con lunghe vesti viola che sembravano di velluto. Tutti avevano cappucci tirati sulla testa, e sui volti indossavano maschere. Una sembrava la maschera di un cerusico durante la peste medievale. Un'altra la maschera di un Arlecchino da teatro. Ogni maschera che copriva i volti di quelle persone era diversa, provocandogli brividi di terrore lungo tutto il corpo. Dietro le sette figure, ne vide altre, anche se non poteva definire quante. Girando la testa da un lato all'altro, notò che lo avevano circondato del tutto. Alcune di loro stringevano delle torce, proiettando un cerchio di luce arancione tremolante intorno a lui. «Che diavolo è tutto questo?», urlò con la forza della disperazione. Le figure incappucciate rimasero in silenzio. L'unico suono era il suo stesso respiro che echeggiava nell'ampio spazio semibuio. Era una sensazione inquietante e surreale. Sandro si accorse con orrore di trovarsi in una sorta di impianto abbandonato. Il soffitto era alto e avvolto nell'ombra, e intorno a lui scorse grandi condotti, le strutture di vecchie macchine e alte pile di casse di legno. «Cosa sta succedendo qui?», gridò alle figure silenziose. «Chi diavolo siete? Cosa diavolo volete?» Fu in quel momento che l'uomo al centro del semicerchio, proprio di fronte a lui, fece un passo avanti. Indossava una maschera divisa a metà: nera da un lato e bianca dall'altro, dalle fattezze distorte, quasi animalesche. Era terrificante. Il senzatetto si ritrasse e gemette, il volto arrossato dalla vergogna mentre si pisciava addosso. «Sandro Gervasi», tuonò la figura. «Sei accusato di una serie di gravi crimini, per i quali non sei mai stato punito. Siamo qui stasera per fare giustizia». «Vi sbagliate. Io non ho fatto niente!» Il prigioniero lottò nel vano tentativo di slegarsi, ma le manette di metallo lo tenevano saldo alla sedia. Un ringhio di rabbia impotente squarciò il silenzio. «Lasciatemi andare. Ho detto che non ho fatto niente!» «Ti giudichiamo colpevole di tre capi d'imputazione: stupro; molteplici furti e violazione di domicilio; aggressione...» «Non ho fatto niente di tutto quello di cui mi accusate!» «Noi abbiamo valutato le prove e ti abbiamo giudicato colpevole», dichiarò l'uomo con la maschera diabolica, la sua voce calma e ferma. «Al diavolo! Siete tutti paz...» L'uomo con la maschera animalesca gli si avvicinò in un batter d'occhio e gli sferrò uno schiaffo che gli fece girare la testa di lato, interrompendo le sue parole. Il sapore ferroso del sangue gli riempì la bocca mentre la sua guancia pulsava di calore e dolore. Sandro sputò un grumo di catarro e sangue sul pavimento di cemento. Si guardò intorno, sfinito dal freddo e dalla paura, fissando le inquietanti figure che lo circondavano. Le ombre traballanti proiettate dalle torce danzavano minacciose intorno a lui. Inghiottì a fatica mentre la gravità della sua situazione cominciava a fargli capire che non ne sarebbe uscito vivo. «Chi siete?», ansimò, la voce tremante. L'uomo rivolse gli occhi vuoti della sua maschera inespressiva su di lui, provocandogli l'ennesimo brivido lungo la schiena. «Siamo la Manus Dei. La Mano di Dio», disse. «Per favore. Lasciatemi andare. Avete preso la persona sbagliata. Lo giuro. Per favore!», li supplicò. «Sei colpevole agli occhi di Dio, e noi, agendo in Sua vece, eseguiremo la condanna», dichiarò l'uomo. «E per i tuoi crimini, la punizione sarà la morte. È decretato come vuole nostro Signore». «Come vuole nostro Signore», ripeté il resto del gruppo all'unisono. Sandro fu pervaso da un tremore incontrollato. Lo sguardo di tutti quegli occhi puntati su di lui era opprimente. «Per favore...», la sua voce appena un sussurro. «Non fatemi questo. Cambierò. Lo giuro. Non farò più cose cattive». Una figura più minuta, che Sandro valutò essere di una donna, emerse dalla folla e si fermò accanto all'uomo che l'aveva schiaffeggiato. Stringeva tra le mani una lunga scatola di legno laccato. L'aprì delicatamente. La luce delle torce brillava sulla lunga e curva daga che giaceva dentro la scatola, sistemata su un letto di velluto cremisi. La sua lama sembrava così affilata da tagliare la carne umana come burro. Lacrime copiose sgorgarono dagli occhi di Sandro che scosse la testa incredulo di fronte a ciò che stava accadendo. «Per favore, no!», singhiozzò. L'uomo infilò la mano nella scatola e sollevò la daga con venerazione. Cullandola tra le mani, la alzò sopra la testa, e tutti i volti nascosti dietro quelle orrende maschere si sollevarono a contemplarla. Le fiamme delle torce scintillavano sul freddo acciaio che reggeva in mano. «Nostro Signore esige che si faccia giustizia», tuonò l'uomo, la sua voce imperiosa echeggiava nello spazio aperto. Si avvicinò alla sua vittima, il cui viso deformato dal panico scintillava sulla fredda e crudele lama. Sandro aprì la bocca ed emise un urlo straziante che risuonò nel buio.
Marcella Nardi
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