Quando mi arrivò la missiva, confesso, la rigirai tra le mani turbato da un'ansia viscerale. Poi, mosso da un briciolo di incoscienza, la aprii sperando di trovare qualcosa che potesse aiutare il mio umore impoverito dalle ultime vicende personali. Lessi le prime righe e andai subito a vedere in basso la firma del mittente, poi continuai a leggere da dove avevo interrotto. Era un invito. Mentre piegavo la carta in lunghi rettangoli, mi lasciai sorprendere da una vivacità acida, dovuta alle quattro lettere che componevano il nome in fondo al foglio. Engi. Il testo era composto da un condensato di elogi alla mia persona, da un invito a tornare per pochi giorni al mio paese di origine e da un velato messaggio che non riuscii a decifrare: era una specie di turbamento che era scivolato dall'animo di Engi fino alla punta della penna, passando per le dita incerte. La lettera terminava con un delicato accenno di un evento, non ben specificato, a cui avrei dovuto partecipare. Inoltre doveva esserci una parola in più che sentivo mancare. Qualcosa di sott'inteso che avrei dovuto afferrare. Engi. Avevo dei bei ricordi di lui. Brillante, acuto, a volte paradossalmente estraneo al contesto dove aveva scelto di vivere; gli avrei imputato grossomodo, solo la colpa di non aver sfruttato a fondo la sua intelligenza. Ci differenziava sostanzialmente il desiderio di cambiare, che io alimentavo e lui evitava. Mi ero sentito sempre oppresso in un paese che giudicavo a volte invadente e soffocante. Poi però, appena conclusa la tarda adolescenza, la fortuna mi aveva allontanato da casa, schiavo della potenza fisica e mentale che vedeva nella troppa intimità una rete oppressiva. Spostatomi in una grande città avevo realizzato il mio sogno di intraprendere, da buon inconsapevole superficiale, le frivole abitudini dei grandi centri urbani; così il destino mi aveva accontentato e l'universo rurale era scomparso per qualche anno. Engi non prese mai questo rischio. Quindi? Eccola, la sua lettera; arrivata tra le maglie di questa solitudine, abituata alla calda e incolore atmosfera metropolitana, figlia di un malessere a cui non sapevo dare una spiegazione; solitudine che mi ha fatto spesso pensare alla magica prigionia di una volta, alle sue sicurezze e alla sua capacità di attutire ogni tipo di colpo e di distribuire il suo impatto sulla superficie più ampia del mio animo per disperdere la sua efficacia. Fui così sopraffatto dalla curiosità che nemmeno pensai alle cose che avrei dovuto lasciare in sospeso, se fossi partito. Mi sedetti con la lettera chiusa in un unico segmento che penzolava tra due dita. Alla fine mi lasciai convincere. Sentivo, nonostante l'enfasi, uno strato di vapore avvolgermi e disturbarmi. Non puoi aver dimenticato l'unità della nostra gente; ne godrai, se accetterai di abbracciarci in questo momento. Come una volta; ne avremmo bisogno. Questa innocente espressione, nascosta tra le righe, aveva un significato ben più profondo, che non tradussi subito. Così tirai giù la prima valigia che vidi aprendo l'armadio. La riempii con le solite cose. Ero moderatamente eccitato e incuriosito; ma la curiosità ha l'inquietudine tra le sue tante figlie. Per cui sentivo di non riuscire a godere appieno della mia improvvisa partenza. Quella sera mi coricai, con gli occhi fissi sul soffitto, a pensare. Trascorsero le ore in cui mi sfiancai a rigirarmi nel letto, finché il sonno profondo stese i suoi tentacoli soffocando la mia lucidità. Sognai; in una grigia mattina, ero sul ponte che introduce al paese, sopra un fosso gonfio di vegetazione. Impossibilitato a muovermi, ero incastonato lì da qualcosa di invisibile. Ne sentivo il peso: un mantello opaco, plumbeo, traduzione fisica di una parte di ciò che avevo letto nella lettera. Un rassicurante oblio, un compatto rifugio. Poi l'attenzione mi era caduta sulla frenetica corsa di un uomo senza volto. Ascoltai il suo respiro fatto di parole e imprecazioni, diffuso come un alito di vento invernale. Mi svegliai annaspando, col cervello imbevuto di stanchezza e desideroso di spegnersi. Poi la notte profonda mi calmò.
La mattina balzai in macchina svegliandomi due ore prima del trillo della sveglia. Durante il viaggio mi sforzai di non rilassarmi nel culto evocativo della giovinezza, ma fui disturbato lo stesso dal dolce resuscitare di folate sbiadite dei tempi passati. Cominciai a ricordare cose che credevo ormai dissolte e provai la strana commistione di felicità e paura. La statale era stata fino a quel momento un trionfo di luce e sole molesto. Ma a pochi chilometri dalla meta banchi di nebbia spugnosa erano saliti dai fossi circostanti, costringendomi a diminuire la velocità e a prestare più attenzione alla guida. Passata la minuscola lingua di pietra del ponte, lo stesso ponte appena apparso nella notte, guidai per una morbida salita. Lasciai l'auto in un nuovo parcheggio, appena fuori il centro abitato; il paese si stava svegliando, stancamente, come se avesse riposato male. E io ero in uno stato d'animo complesso, danneggiato dal fantasma galleggiante della nebbia pesante e dall'acidità che dall'ultimo sogno non si era ancora sciolta. Circondato da quella bruma bianca, camminai con attenzione perché non riuscivo a vedere che a pochi metri. L'aria che si respirava era greve e tremai per il fastidioso freddo umido che mi avviluppava. Quale razza di improvviso inverno era calato? La visuale migliorò quando la nebbia sembrò asciugarsi per un mio desiderio: ero nella piazza principale, dove anime solitarie e soprattutto scure, con la testa bassa incastonata nelle spalle, sembravano dormire nei propri pensieri. Ne scelsi una da avvicinare. -Ma guarda chi è tornato!- mi rispose amichevolmente. Prima di rispondere mi soffermai sulla stanchezza che aveva negli occhi. Mi disturbò il fatto che la sua voce fosse dolciastra, commossa. Fu come se avesse voluto alleggerire una tensione comune che però io non sentivo; al mio sguardo interrogativo chinò la testa, come per leggere le parole giuste sul selciato. -Se ne è andato Iocce. Un male- mi informò, con parte del labbro inferiore chiuso nella bocca e gli occhi lucidi. Trasalii. Il povero Iocce. -Il funerale è domani pomeriggio. Io ci sarò- concluse, poi fu inghiottito dalla nebbia. Io rimasi lì, incupito dalla tremenda notizia. Iocce era stato un personaggio particolare, poiché la sua vita non era stata preparata alla santità. Aveva spesso galleggiato tra i giudizi più contrastanti, a seconda dei vicissitudini di cui si era o macchiato o fregiato. Era capitato, in alcuni frangenti, di aiutarci a vicenda, in nome di una stima solida più che da una vera amicizia. Per quel motivo ero stato invitato? Eppure sulla lettera non era stato menzionato! Oppure sì? Ripetei mentalmente lo scritto, quando alcuni passaggi presero ad illuminarsi; Engi forse era consapevole che io sapessi di Iocce. Sentii l'esigenza di trovare qualcuno che potesse dirmi di più e che soprattutto non mi lasciasse solo. Mi precipitai in un locale, che avevo frequentato ai tempi della scuola e per fortuna lo trovai aperto nonostante fosse molto presto. Sulla soglia mi fermai, freddato dal grigio e dal nero che erano posati su qualsiasi cosa io vedessi, lì dentro proprio come fuori. Punte solitarie di un bianco nostalgico si intravedevano di rado. Grigio e nero su tutto! Tranne su di me, che mi evidenziavo in quel mare anonimo come un ammasso insensato di colori, col mio maglione giallo splendente. Entrai, difendendomi dai pensieri che da una parte continuavano a mettermi in guardia. Necessitavo di una bevanda calda e di un sacco di altre cose. Appoggiai un gomito al banco e finsi disinvoltura. Mi arrivò sotto il naso una tazza bollente di the alla menta. Col rischio di bruciarmi la lingua, cosa che avvenne, mi riempii la bocca e senza assaporare mandai giù, piegando la testa all'indietro. Sembrava stessi prendendo una medicina. Ma non fece effetto, visto che notai una persona venirmi incontro, vestita di bianco splendente e con un mezzo sorriso stampato in faccia. Una donna. Era impossibile non vederla. Candida come la nebbia che galleggiava all'esterno, sventolava la mano e si atteggiava, pretendendo così di essere osservata. Passandomi vicino, mi chiamò per nome e disse: -Sei tornato per rendergli omaggio? Rimasi di ghiaccio e risposi a monosillabi, avendola riconosciuta. Il tempo aveva dipinto sui suoi occhi un taglio irritante; ciondolando le mani e roteando gli occhi in segno di noia, continuò -Scansati da questa gente! Parlò ad alta voce, per farsi sentire. Una selva di denti digrignanti circondò la sua figura, pronta apparentemente a farla a pezzi. Io trattenni un grido. Ma lei, incurante, si aggiustò la giacca sulla spalla con un colpo del braccio e lentamente uscì. La cattiveria che aveva fomentato mi spaventò a tal punto da credere di aver sbagliato destinazione e di essere finito ai bordi dell'inferno. Nemmeno il tempo di ragionare e fui stretto energicamente da una mano fredda. Il prospetto di quella forza inusuale mi diede l'impulso per lasciar sciogliere la confusione che avevo appena provato. Engi! Credo di non aver mai sorriso così falsamente; lui non colse questo segno dipinto di affetto e non cambiò espressione, imperturbabile, provata, scioccata, con quel peso di tristezza che io stavo iniziando a patire.
Ero una barchetta nel mare agitato, alla deriva. Così rinunciai a sbrigliare la matassa di pensieri e mi lasciai trascinare. Spinto fuori dal locale, mi prese dolcemente il collo con un braccio e vagammo tranquilli lungo il marciapiede.
Cristian Antolini
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