I. Roma.
Nell'anno del consolato di Quinto Fufio Caleno e Publio Vatinio, il 707, il liberto greco Hicesius e io fummo al servizio degli ufficiali di Cesare. In precedenza avevamo già fatto per loro qualche indagine particolare, e una di queste aveva anche avuto una certa risonanza: in Attica infatti il nostro rischioso lavoro era stato fondamentale per svelare una ramificata congiura ai danni della repubblica. Il mio lavoro vero sarebbe stato quello di agrimensore, ero solo un civile aggregato a un reparto del Genio. Quell'attività mi piaceva: quando ero impegnato a centuriare l'agro pensavo a quei coloni e veterani che avrebbero goduto di una serena vecchiaia con appezzamenti di terreno donati loro dallo stato dopo che noi li avevamo valorizzati partendo da plaghe incolte. Era il giusto compenso per una vita trascorsa al servizio della legione. Tutti sapevano che molti legionari, se non morivano durante il servizio, rimanevano infermi o mutilati per ferite ricevute in combattimento. E come se non bastasse, che vita avevano goduto nel frattempo? Non si erano potuti formare una famiglia perché questo era loro proibito, e lo stipendium se l'erano speso nei lupanari e in sordide baldorie di taberna. Donando le terre ai veterani Cesare premiava la loro vecchiaia. E invece gli ottimati, i conservatori oppositori di Cesare, cosa davano alla repubblica? A loro interessava soltanto il mantenimento dei propri privilegi. Forse questa era cosa che andava anche a favore dello stato, e non solo di loro stessi? Però io ero solo un agrimensore del Genio, non ero in grado di capire fino in fondo come funzionassero le cose e la mia fedeltà andava a chi mi comandava e pagava, e nella Cisalpina chi comandava era Cesare. Alla fine non mi interessava più di tanto quello che combinavano le fazioni, per quanto in passato fossero state le fazioni a interessarsi a me. Era questo l'incerto clima che imperava quando finii in carcere. Ripresi conoscenza che ero ancora febbricitante e non capii subito dove mi trovavo. Sentii un odore nauseante che mi avvolgeva. Era buio. La testa mi doleva, e così anche tutto il corpo. Cercai di alzarmi per vedere dove fossi, ma un forte capogiro mi fece capire che era ancora troppo presto. Così rimasi lì quieto, ad ascoltare il brusìo attorno a me. Sentivo le voci di persone che parlavano, ma non capivo bene le parole. Passai quietamente qualche ora, forse sonnecchiai. Al risveglio un debole chiarore mi permise di capire che mi trovavo insieme ad altri in un luogo stretto e buio. Il puzzo era nauseante. Odore di latrina, di stalla e di escrementi. Ero steso sulla paglia ed ero coperto con un grezzo mantello. Tentai debolmente di muovermi. Udii una voce esclamare: «Guarda, si è mosso, sta rinvenendo!» Nella semioscurità vidi un volto barbuto che mi osservava da vicino: «È vero, si è svegliato!» disse, e osservandomi continuò: «Puoi pure prendertela comoda, tanto qui non abbiamo fretta, Non dobbiamo andare da nessuna parte!» Stavo cercando di radunare i pochi pensieri e le poche cose che mi sembrava di ricordare. Dovevo essere in una caserma o in un carcere. E il terribile odore di escrementi veniva da me.
II.
Pian piano mi resi conto di dove mi trovavo: era la lurida cella di un carcere e io ero steso su uno spesso strato di paglia. Udivo persone che parlavano tra di loro vicino a me. Ogni tanto giungevano voci lontane e qualche urlo smorzato, come di persone pazze. Il barbuto che mi stava vicino cercò di farmi bere da una ciotola un po' d'acqua fetida. Sonnecchiai a lungo, ma mi scossi quando udii delle voci avvicinarsi. Dopo poco la porta venne aperta e la luce traballante di una torcia invase la cella: erano le guardie che ci portavano da mangiare. La luce se ne andò dopo pochi istanti, ebbi appena il tempo di dare uno sguardo alle altre persone che si trovavano rinchiuse insieme con me in questa angusta cella. Per quel poco che avevo potuto vedere avevano l'aspetto da briganti. Il barbuto che mi aveva fatto bere disse agli altri: «Lasciate qualcosa da mangiare per questo qui, prima che ci lasci la pelle e ci troviamo con un ospite morto!» Ci furono delle risate sommesse, mentre il barbuto mi aiutava a sedermi e ad appoggiarmi contro il muro: «Per la Dea Fortuna! Puzzi come una latrina!» Mi allungò una ciotola con un po' di brodaglia e una scheggia di pane raffermo. Tentai di inghiottire qualcosa, ma era brodaglia maleodorante. Il rancio dei legionari del mio accampamento, quel rancio al quale non avevo mai saputo abituarmi, al confronto era una vera squisitezza! Il barbuto continuò: «Vedi di mangiare qualcosa e di metterti in piedi. Troveremo il sistema perché tu possa lavarti, puzzi come una fogna e non possiamo andarcene noi da questa cella, ti pare?» «Dove siamo?» gli chiesi. «Non lo sai? Eri privo di conoscenza quando ti hanno portato qui, forse per te è stata una fortuna. Siamo nel Carcere Mamertino. Siamo sottoterra!» «E voi chi siete?» «Eh, chi siamo? Ognuno di noi ha una sua storia. Siamo tutti qui in attesa che il magistrato ci interroghi. Ma non devi preoccuparti! Siamo brave persone, qui siamo tutti innocenti! Questo è il carcere degli innocenti!» rispose ridendo. Nella penombra gli fecero eco un paio di risatine prive di convinzione. Rimasi seduto per un bel pezzo con le spalle contro il muro e cominciai a studiare la situazione: la cella era veramente angusta. Eravamo in sei. Forse se ci fossimo distesi a dormire sulla paglia tutti e sei contemporaneamente avremmo avuto qualche difficoltà a starci. Eravamo praticamente al buio. Solo un debolissimo chiarore, forse proveniente dal sole diurno, permetteva di distinguere la sagoma delle persone, senza mostrarne i tratti. Né era possibile vedere chiaramente cosa ci fosse nella cella. La fugace apparizione dei guardiani per il rancio mi aveva permesso di notare chiazze di umidità sui muri costruiti con grossi blocchi di tufo, e tastando notai come questi muri, nel tratto più prossimo al pavimento, fossero stati resi lucidi dal continuo strofinio delle schiene dei detenuti che vi si appoggiavano. Il pavimento era coperto da uno spesso strato di paglia tritata che in origine doveva essere simile al fieno ma ora, dopo l'incessante calpestio dovuto alla presenza dei prigionieri, era diventata simile alla pula del grano quando viene battuto per liberare il seme. Dalla paglia usciva un discreto odore di urina. Durante il sonno qualche pulce mi tormentò e mi fece svegliare. Ma la cosa peggiore era il puzzo, che era tremendo; nella semioscurità vidi che per latrina si usava un secchio di legno di cui tutti si servivano e il cui odore appestava la cella. E anch'io dovetti servirmene, come un animale tra gli animali. Gli altri detenuti se ne stavano seduti quietamente contro il muro, qui non c'era nient'altro da fare. «Che giorno è oggi?» chiesi al mio vicino. «E chi lo sa?» rispose una voce. «Dovremmo essere già in novembre» replicò il barbuto. Cercai di rimanere disteso per riposare e nel frattempo riflettere. Ero stato arrestato a Eporedia il sesto giorno prima delle idi di ottobre e condotto all'Urbe per l'interrogatorio. Quindi erano passate più di tre settimane. Avevo fatto una buona parte del cammino, forse più di metà, a piedi con un altro paio di prigionieri sotto scorta dei legionari, lungo le vie consolari. Sull'Appennino mi ero ammalato, probabilmente erano state le fatiche della marcia, o forse il freddo, e a quel punto i legionari mi avevano caricato sul carro che seguiva il piccolo reparto con i consueti materiali da accampamento. Dovevo essere rimasto ammalato per circa una settimana. Continuai a sonnecchiare sulla paglia che copriva il pavimento della cella, e solo il giorno dopo riuscii a ragionare con chiarezza. Il mio barbuto compagno, ma mi avvidi che eravamo tutti barbuti, chiese alle guardie che mi permettessero di lavarmi. Sapendo che ero in attesa di essere interrogato dal magistrato le guardie mi fecero uscire dalla cella e mi condussero in uno spoglio bugigattolo dove in un abbeveratoio potei lavare me stesso e le vesti. Mi permisero di restare davanti a un focolare ad attendere che i panni si asciugassero. Durante questi spostamenti rimasi sempre in ambienti sotterranei, alla luce delle torce o di un lume a olio, o di qualche minuscolo lucernario che faceva filtrare poca luce dall'esterno. Quando mi rinchiusero di nuovo nella cella mi decisi a fare le presentazioni. «Io mi chiamo Quintilio» dissi al barbuto. «Sono in attesa di essere ascoltato dal magistrato.» «Tutti noi siamo in attesa di essere interrogati. Io mi chiamo Arrio. Quei due ladri lì» disse indicando con la mano un paio di ombre sedute sulla paglia, «sono Pio e Quinto, quello là nell'angolo è Attilio, un buon padre di famiglia che ha strozzato un vicino cui doveva dei denari. È qui con noi da circa un mese. Quell'altro non lo conosco, è appena arrivato.» L'ultimo arrivato non ebbe nessuna reazione, non desiderava parlare. «Io non so di preciso perché sono stato convocato dal magistrato» spiegai ad Arrio, «anche se nella mia vita ci sono state alcune cose che immagino potrebbero sollevare la curiosità di un uomo di legge.» «Si capisce che tu sei un uomo istruito, di sicuro qualcosa saprai rispondere» si intromise Pio. «Purtroppo noi due invece siamo stati sorpresi di notte dai vigili a rubare del formaggio in un magazzino e il nostro interrogatorio sarà molto breve. Abbiamo a nostra sola discolpa l'essere poveri.» «Io ho anche moglie e due figli» aggiunse Quinto, il secondo ladro. «E qui non so nemmeno come andrà a finire. La mia famiglia è distrutta. Ora nessuno si prenderà cura di loro. Ma tu, Quintilio, devi ringraziare Arrio, si è preso cura di te come se fossi un fratello. Non avevi per niente una bella cera quando ti hanno portato qui dentro.» «È vero, Arrio? Allora ti devo ringraziare?» «Mah, mi sembrava di conoscerti, per quello ti ho aiutato volentieri. Anzi, ora che ti sento parlare sono sicuro che ci conosciamo. Io sono del Genio, credo che ci siamo visti in un accampamento.» «Effettivamente anch'io lavoro per il Genio» risposi, «ma non riesco a ricordarmi di averti già visto.» Questa occasionale conoscenza mi mise un po' in allarme perché mi era stato detto che in carcere, per estorcere informazioni, di solito le guardie mettono nelle celle delle spie ben pagate che riescono a farsi dire cose che nessuno confesserebbe mai al magistrato. Così rimasi zitto e lo lasciai parlare. «Credo che tu ed io siamo stati insieme nell'accampamento del Genio presso Mantua, tu facevi l'agrimensore, mi sembra» continuò Arrio. «Sì, è vero, ma io non mi ricordo di te.» «È possibile» annuì, «io ero con la truppa, con quelli che venivano dalla Decima Legione, al comando del centurione Mamezio, lui te lo ricordi?» «Sì, mi ricordo del centurione.» Come avrei potuto dimenticare quelli della Decima? Erano degli scarti che Cesare aveva voluto eliminare dalla sua legione. Individui poco combattivi o per nulla sanguinari, se non addirittura dei pavidi. A causa dell'alto costo dei legionari non aveva voluto decimarli ma li aveva tolti di mezzo mettendoli tutti in una centuria di punizione e mandandoli poi a fare un lavoro da schiavi per il Genio: scavar fossi o tagliare foreste. Allontanati perché non corrompessero lo spirito combattivo della Decima Legione, questi erano gli uomini del centurione Mamezio. «Io rimasi poco in quel campo che allora era al comando del prefetto Festio» continuò. «Durante l'inverno del 704 fui trasferito a Placentia.» «Ah, ecco! Io ero appena arrivato all'accampamento di Vadus. E cos'hai mai combinato per finire qui?» «Sono stato arrestato per una vicenda singolare, una cosa avvenuta tre mesi fa. Ero stato aggregato alla guarnigione del ponte di Placentia. Sono un abile falegname e sono in special modo bravo a costruire gli incastri per fare le barche, sai, le mortase e i tenoni.» «Non sono tanto esperto di lavoro da falegnami» gli confessai. «Ma tanto qui il tempo non ci manca, me lo potrai spiegare per bene!» «Ben detto, Quintilio, questo è lo spirito che ci vuole! Dunque, avrai già visto che nelle imbarcazioni, e anche nei mobili, o perfino in quelle scatolette di legno che tutti usiamo per conservare le monete, in tutti questi oggetti di legno fra i vari pezzi sono stati ricavati degli incastri per fare in modo che le singole parti non vadano ognuna per conto suo. Negli oggetti piccoli o nei mobili si fanno dei piccoli incastri e di solito è sufficiente un po' di colla per tenere fermo tutto. Negli oggetti più grandi, come le imbarcazioni che mantengono a galla il ponte di Placentia, o nelle travi del ponte, si intagliano dei pezzi che si incastrano insieme, e poi sono tenuti fermi o da chiodi o da spine in legno. Quegli incastri sono fatti con una parte scavata, che noi chiamiamo la femmina, ed è la mortasa, e il pezzo che gli va dentro, che è il maschio, o il tenone.» «Sì, ho capito, li ho visti mille volte quegli incastri, solo che non ne sapevo il nome» risposi. «Le mortase e i tenoni sono necessari nelle imbarcazioni perché lo scheletro deve stare insieme con incastri, per evitare che alla prima ondata si disfi tutto! Una volta che gli incastri sono stati stretti bene insieme di solito si mettono dei chiodi, o meglio ancora delle belle spine di legno. Una volta che hai bloccato così tutti i pezzi, puoi andare anche per mare!» «Ed è perché facevi troppo bene gli incastri che ti hanno portato qui?» «Certo che no! Ti stavo dicendo che quasi tre anni fa sono stato trasferito alla manutenzione delle barche e del ponte. In tre anni non ho fatto altro che centinaia e centinaia di incastri per fissare pezzi di barche che si rompevano, o travi del ponte. E quando non c'erano quelli, ero a riparare qualche centina delle imbarcazioni, a rifare del fasciame, o a turare le fessure delle tavole con la stoppa e la pece bollente. Se devo essere sincero nel mio lavoro godevo anche di una certa libertà. Al Comando del ponte interessava solo che il passaggio del Po fosse sempre efficiente e che le riparazioni venissero fatte senza perdere tempo. Io lavoravo bene e loro mi lasciavano fare un po' quello che volevo.» «Insomma, stavi meglio lì che a Vadus?» «Stavo parecchio meglio, puoi ben dirlo! Siccome a Placentia ero più in giro per gli affari miei che in cantiere, avevo trovato lì in zona una donna che mi piaceva. Stavamo pensando di combinare qualcosa insieme anche se a noi legionari è proibito sposare finché siamo in servizio.» Mentre Arrio raccontava la sua storia anche gli altri si erano stretti intorno per godere di un po' di racconto. «Questa donna, che si chiama Domitilla, è una serva, non è una donna libera. Io mi stavo arrabattando per raccogliere il denaro per riscattarla, ma purtroppo fintanto che lei rimaneva a servizio dal suo padrone io potevo vederla solo durante il giorno, e la sera non sapevo cosa fare, per cui ero diventato cliente fisso di una bettola che sta vicino a una testata del ponte.» «E lì ti sei mangiato tutti i denari per riscattare Domitilla!» concluse Quinto. «Niente affatto! Qualche volta giocavo a dadi o a latrunculi, ma non ci giocavamo denari, sai bene che è proibito, al massimo ci giocavamo un bicchiere di vino. Tre mesi fa stavo facendo una partita accanita con un contadino della zona con cui ogni tanto ci sfidavamo. Quella volta lì abbiamo ecceduto tutti e due col vino, ci siamo veramente ubriacati, ed è andata a finire che abbiamo fatto a botte. È venuta fuori proprio una bella zuffa, anche con gli altri avventori, fatta bene anche se loro erano solo dei civili, voglio dire, non dei professionisti come noi legionari. E hanno cominciato a tirare sberle anche quelli che cercavano di dividerci, e alla fine, non si sa come, questo agricolo si è preso una coltellata!» «Adesso è chiara la storia» risposi. «No, non è chiara per niente! Nonostante la coltellata, che comunque non sembrava una cosa grave, e te lo dico io che sono stato qualche anno con la Decima Legione, quel contadino se ne è andato tranquillamente a casa. Poi si è curato, così mi hanno detto, ma una quindicina di giorni dopo, una mattina, l'hanno trovato morto nel letto.» «Mah, e in quei quindici giorni lì come stava?» chiese il ladro Quinto. «Da quello che mi è stato riferito gli faceva un po' male, ma sembrava che non fosse niente di grave. Così almeno hanno detto quelli che lo videro. Comunque nessuno è stato in grado di stabilire per certo che sia morto per colpa di quella coltellata. Né lui venne mai a lamentarsi da me. Comunque in conclusione l'agricolo morì, e il padrone della terra per cui lui lavorava venne a lamentarsi dal centurione mio superiore, perché nessuno gli avrebbe lavorato la terra e lui avrebbe perso il raccolto. Questo possidente era ricco e conosciuto e smosse le acque per richiedere l'intervento di un giudice. Forse sperava che mi condannassero ad andare a lavorargli io la sua terra, chissà.» «E ora tu sei in attesa della sentenza del giudice?» domandai. «Sì, tentarono di processarmi a Placentia, ma il caso non era per niente chiaro. Tra l'altro non si sa nemmeno chi sia stato ad accoltellarlo. Forse sono stato io, non lo posso sapere con certezza da quant'ero ubriaco. Tutti e due eravamo completamente ubriachi. Ma forse potrebbe essere stato un altro. Però l'agricolo avrebbe anche potuto morire per conto suo. Che ne so, magari sua moglie era stufa di lui e ha approfittato dell'incidente per avvelenarlo. Sapete che queste cose succedono! La vedova e i figli dicono che è morto per la ferita, tanto per stare sul sicuro.» «Caspita, sei accusato di un omicidio e non sei nemmeno sicuro se sei stato tu? Io almeno sono stato sorpreso a rubare, non posso dare la colpa ad altri!» esclamò con un certo sollievo Quinto. «Ti giuro» continuò Arrio, «che la mattina dopo non mi ricordavo più niente di ciò che era successo. Io non nego che potrei averlo accoltellato! Solo che non me lo ricordo!» «Ti è ancora andata bene che era solo un civile» aggiunsi. «Se fosse stato un legionario sarebbe stato molto peggio!» «Comunque il magistrato di Placentia non se l'è sentita di condannarmi ed essendo il caso troppo confuso per via di quel proprietario terriero che continuava a lamentarsi, mi ha mandato a Roma. Ormai è un po' che sono dentro, probabilmente fra qualche giorno mi chiameranno e mi diranno qual è la mia condanna.» «Io credo che se tu avessi dei denari da parte» gli dissi, «potresti tentare una conciliazione pagando i danni al padrone della terra, alla moglie e ai figli. Considerando che quello è comunque morto e che non potresti farlo tornare in vita, chi avrebbe il coraggio di rifiutare una somma di denaro?» «La fai facile, Quintilio, purtroppo i miei risparmi non sono tali da fare gola a un proprietario di terra che ha perduto il raccolto. Però è vero che la moglie e i figli li prenderebbero. Hai idea di cosa potrebbe essere un giusto risarcimento per un agricolo di mezza età?» «Mah, non lo so. Fai conto che uno schiavo che possa fare il lavoro di un agricolo costa più o meno duemila sesterzi. Sarebbe a dire circa due anni di paga di un legionario.» «Messa in questi termini non sarebbe neanche un cattivo affare. Nel nostro cantiere di Placentia mi avevano rimesso a stipendium, potrei impegnarmi a dargli i denari che ho da parte e pagare il resto con il mio servizio. Cosa ne dici?» «Quello che posso dire io non conta nulla. Dovresti provare a mostrarti pentito al magistrato e a far presente che farai tutto quello che potrai per risarcire il danno.»
Nonostante fossimo ai primi di novembre nella nostra cella non c'era freddo; probabilmente essendo sottoterra un po' del residuo calore dell'estate si conservava più a lungo e, riparato dalla paglia e dal mantello, mi stavo rimettendo in salute. Purtroppo il mio fisico reclamava con urgenza qualcosa di sostanzioso da mangiare e qui c'era solo la brodaglia che ci passavano quotidianamente, fatta quasi di sicuro con gli avanzi di qualche caserma, e un durissimo pane legionario i cui pezzi dovevano essere macerati nella brodaglia. Tra compagni di cella ci aiutammo a mantenere alto il morale, e tra ladri e assassini ritrovai un po' di umanità. Il sesto detenuto, quello che ostentava un rigoroso mutismo, dava a intendere con il suo comportamento di avere gravi problemi e grandi preoccupazioni. Noi non lo disturbammo, ciascuno di noi aveva già i suoi di guai. Un paio di volte lo udii piangere. Parlare tra di noi oltre che a fare passare il tempo era anche cosa utile per prepararci alla chiamata del giudice. E cominciai a concentrarmi su quella chiamata che presto sarebbe arrivata anche per me. Non mi era chiaro cosa potesse volere il magistrato. Ero accusato di essere stato reticente, questo solo sapevo. Forse presto avrei conosciuto il mio destino.
Claudio Rossi
|