La barca aveva retto. L'avevamo rattoppata non si sa quante volte con mezzi di fortuna. Arrio aveva fatto riparazioni impossibili sostituendo alcune tavole del fasciame con assicelle ricavate da tronchi trovati sulla spiaggia, usando cavicchi di legno al posto dei chiodi. Quasi ogni giorno era stato necessario prendere terra per calafatare qualche fessura piantandovi dentro delle funicelle intrecciate di un'erba simile al carice. Le tavole di legno erano praticamente marce, e noi eravamo costretti a muoverci con circospezione quasi che si trattasse di un orcio crepato pronto a rompersi alla prima scossa. La giornata era abbastanza limpida e anche restando al largo avevo ormai riconosciuto l'insenatura di Tomis e il biancheggiare delle case in fondo al minuscolo golfo. Il cuore mi batteva forte e, per scaramanzia, strinsi nel pugno il fodero di pelle con il minuscolo rasoio che mi aveva regalato Arethi; lo portavo ancora al collo, miracolosamente ero riuscito a non perderlo durante tutte le nostre peregrinazioni. Ci tenevo molto a quel rasoio: negli ultimi mesi era stato per me l'unico ricordo tangibile della bella vita che avevo fatto a Thessalonica prima di partire per la missione. Arrio e Domizio calarono la vela e affondammo l'ancora, un grosso sasso informe di un'ottantina di libbre, ingabbiato da rustiche funi ottenute intrecciando striscioline di corteccia di salice selvatico. Il sasso non toccò nemmeno il fondo. Eravamo ancora troppo al largo nel mare Eusino, ma fu sufficiente a rallentare lo scarroccio e a evitare che il vento, spingendo la barca, ci portasse più a meridione, risparmiandoci manovre in cui non eravamo troppo esperti. Il momento era arrivato. Avevamo bisogno di prendere terra a Tomis e di muoverci senza dare nell'occhio. Quel rasoio ce lo passammo tra di noi e affilandolo di tanto in tanto sulla pelle del braccio ci tagliammo la barba scorticandoci qua e là, nell'intento di apparire simili a poveri pescatori e non essere scambiati per pirati. Ci sistemammo in qualche modo anche i capelli, rimanendo sempre a due o tre miglia dalla costa con la barca che dondolava leggermente per via delle piccole onde che increspavano il mare. Una volta ripuliti ci guardammo increduli l'un l'altro, deridendoci a vicenda e stentando a riconoscerci da quanto eravamo divenuti magri durante i lunghi mesi che era durata la nostra fuga. Ora i nostri visi scarni ben si accompagnavano alle ginocchia ossute e alle vesti lacere. A sera entrammo nel porticciolo approfittando dell'ultima luce del crepuscolo che avrebbe reso difficile a chiunque osservarci con attenzione. Era l'ora in cui le persone oneste si ritirano nelle loro case per la cena con la famiglia e il riposo della notte, e non c'era più nessuno in giro quando spiaggiammo la barca nell'unico posto in cui essa non avrebbe sollevato sospetti, almeno per un po' di tempo: la allineammo ordinatamente sulla rena insieme con le altre barche da pescatori. Eravamo affamati. Quando eravamo fuggiti dalla Cimmeria, dal luogo in cui la nostra guarnigione era stata massacrata, avevamo raccolto un paio di sarcine a caso e ora avevamo qualche moneta di rame che vi avevamo trovato dentro, appena sufficienti forse per una zuppa. Attorno al porticciolo c'erano tre taberne. Le osservammo una alla volta facendo finta di passarvi davanti per caso; quella più distante dagli approdi era veramente male in arnese: sporca e fumosa, con il tetto di canniccio in disordine. Tre cani dormivano sul pavimento di terra battuta e, in un angolo, alcune galline stavano cercando la posizione adatta per sistemarsi a passare la notte su un trespolo vagamente simile a una scala. Una topaia. Era il posto che faceva per noi. Entrando feci vedere all'oste le due monete di rame e quello ci fece cenno col mento di andarci a sedere a un tavolaccio. Eravamo gli ultimi avventori, ci avrebbe servito con abbondanza quanto era rimasto dalla giornata. Sentivamo molto la mancanza del pane. Da un paio di mesi parlavamo tra di noi di questo momento, di quando ci saremmo seduti a un tavolo e avremmo cominciato a sgranocchiare qualche crosta di pane. Quel momento era arrivato e in silenzio ci guardammo negli occhi. L'oste mise in tavola delle ciotole di zuppa, acqua calda con qualche resto di pesce lesso che galleggiava, e noi vi macerammo il durissimo pane nero che si usava in questi luoghi. Mangiammo con ingordigia e Arrio e Domizio, che erano affamati non meno di me, fecero a gara a chi finiva prima per chiederne ancora all'oste. Riuscimmo a ottenere anche dei rimasugli di pesce abbrustolito. L'oste ci vide talmente affamati che non ebbe il coraggio di negarci nulla. Alla fine mangiammo noi gli avanzi di cucina che forse spettavano ai cani della taberna. Ci parve di rivivere. Poco dopo ci ritirammo a dormire sulla spiaggia; ci allontanammo di qualche centinaio di passi dall'abitato prestando attenzione che nessuno osservasse ove andavamo. Trovammo un comodo riparo tra le dune di sabbia, a poche decine di passi dal mare, e naturalmente organizzammo turni di guardia come si usa nell'esercito. Potei finalmente distendermi e rilassarmi sul telo cerato che era ormai divenuto morbido e frusto: la rena era ancora leggermente tiepida dalla giornata estiva, e avevo la pancia piena per la prima volta dopo molto tempo. Il più era fatto! Eravamo in Tracia e dovevamo solo raggiungere i confini della Macedonia. Eravamo riusciti a sfuggire ai cavalieri cimmeri che avevano cercato le tracce del nostro passaggio in terraferma; in mare nessuno ci aveva notati. Forse i nostri inseguitori avevano pensato che fossimo morti, o che ci fossimo persi nella sterile prateria della Cimmeria, il che, considerando che secondo loro non avevamo nulla da mangiare e da bere e forse nessun equipaggiamento, equivaleva comunque a morte certa. Quaranta giorni era durata la navigazione sul Mare Eusino, con soste lungo spiagge deserte dove non si vedeva traccia di esseri viventi, e ora potevamo considerarci ragionevolmente al sicuro. Nella quiete sotto il cielo stellato, mentre Arrio già russava, tornai con la mente ai soliti pensieri che mi avevano riempito le giornate. C'erano ancora parecchi ostacoli contro cui avremmo dovuto lottare. I monarchi del Bosforo Cimmerio mai avrebbero corso il rischio che qualcuno di noi sopravvivesse. Si erano lasciati sfuggire dei testimoni dell'eccidio, e tra di essi l'agrimensore che aveva trascritto dettagliatamente su una pergamena tutto il percorso fatto per giungere fino lì, con l'ubicazione delle città, la distanza tra di esse, e la posizione degli attraversamenti dei fiumi; in una parola la futura strada per far giungere le legioni di Roma in Cimmeria per via di terra. Quell'agrimensore ero io: avevo a tracolla sotto le vesti, perché non l'avevo mai abbandonato per un istante negli ultimi due mesi, il sacchetto impermeabile di cuoio grasso chiuso ermeticamente da un laccio che ne strangolava la bocca. In esso stava riposto un rotolo di leggerissima pergamena ricavata unendo tra di loro sottili pelli di coniglio. Era un piccolo capolavoro quel rotolo: me l'aveva donato l'agrimensore capo Destro Emilio Scauro quando eravamo partiti dal Comando del Genio della città di Bononia. Vi avevo trascritto in caratteri piccolissimi tutto quello che era successo, giorno per giorno, fin dalla partenza da Thessalonica: nomi dei legionari e ruoli, percorsi giornalieri, miglia, tappe, città, nomi dei luoghi, ubicazioni di pozzi dell'acqua, inframmezzando minuscoli disegni del territorio e piccole mappe. Negli ultimi giorni avevo aggiornato il diario con il resoconto dettagliato dell'eccidio in cui era stato massacrato l'intero reparto, riportandovi ciò che i miei compagni ed io avevamo visto da lontano, e fissando con l'inchiostro sulla pergamena la decisiva testimonianza di un legionario che avevamo trovato morente. Aveva fatto in tempo a descriverci come si era svolto l'attacco, e ci aveva denunciato l'inequivocabile tradimento perpetrato dal legato Licinio Nigro e dalla guida trace Servilio. Nell'eccidio era stato ucciso il tribuno Valerio Agrippa, il plenipotenziario di Cesare, uno dei suoi fedelissimi. Il Regno del Bosforo Cimmerio era stato asservito a Roma da Pompeo, e non c'era nessun dubbio che la ribellione dei suoi regnanti sarebbe stata affogata nel sangue non appena Cesare ne fosse venuto a conoscenza. Questa era la ragione per cui quegli oscuri monarchi non avrebbero trascurato nessun mezzo per completare il lavoro dei sicari e impedire che le notizie di cui eravamo portatori fossero consegnate al comando di Thessalonica. I sicari che avevano sguinzagliato sulle nostre tracce, forse numerosi, sapevano che noi avremmo dovuto rendere il nostro rapporto a Thessalonica. Il reparto era partito da quella città, e i traditori sapevano che là dovevamo ritornare. Forse i sicari ci avevano perso di vista nel tratto tra la Cimmeria e Tomis, una regione priva di strade. Forse avevano immaginato che potessimo essere fuggiti per mare, e certo sperato che scomparissimo tra i flutti per sempre. Ma non c'era dubbio che se avessero voluto intercettarci, la strada che da Tomis conduceva a Thessalonica sarebbe stata il percorso più logico per ritrovarci. E ora questo era il nostro problema: quella strada noi in un modo o nell'altro avremmo ben dovuto percorrerla, e la Via Egnatia che conduceva a Thessalonica sarebbe stata per noi sempre più pericolosa a mano a mano che ci fossimo avvicinati alla città. I sicari non avrebbero pattugliato inutilmente tutta la Tracia e la Macedonia: ci avrebbero aspettato alle porte di Thessalonica. Quello era il luogo più logico, chiunque avrebbe fatto così. Quindi i pericoli da correre erano tutt'altro che finiti. Certo, eravamo vivi, ma ci restavano ancora da percorrere seicento miglia prima di essere al sicuro in una caserma. Seicento miglia in cui avremmo potuto imbatterci in sorprese a ogni passo. «È tutto a posto Quintilio?» mi chiese sottovoce Domizio che era di guardia e aveva notato che continuavo a rivoltarmi sullo sdrucito telo cerato. Una domanda cui era difficile rispondere, ma gli bisbigliai: «Speriamo di sì. In fondo dobbiamo solo trovare il modo di rivedere la nostra terra natia.» «La rivedremo quando gli dèi lo vorranno» ribatté il legionario con insospettata filosofia. Molte volte mi ero chiesto perché noi tre fossimo scampati a tutte quelle prove, e non potevo certo dimenticare che alla nostra partenza non era nemmeno stato offerto agli dèi un sacrificio come si deve. Ormai il sonno mi era passato, e mi spostai con Domizio su un lieve sopralzo del terreno dal quale nonostante l'oscurità della notte si vedevano bene, alla luce delle stelle e di un po' di luna, le strie bianche delle onde che si frangevano sulla spiaggia. «Domizio, ti ricordi di quella nefasta cerimonia che fu fatta in caserma a Thessalonica quando siamo partiti?» «Chi potrebbe dimenticarsene, Quintilio? Gli dèi erano contrari a questa spedizione. E forse qualcosa dovremo pagare.» Domizio era un legionario ignorante e pieno di vizi ma c'era arrivato anche lui. E quella era stata la mia stessa conclusione.
Claudio Rossi
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