Un legionario segaligno e alto di statura ci fece segno con l'indice di entrare nel bugigattolo che fungeva da ufficio del centurione. Qualcuno doveva anche dormirci là dentro, a giudicare dal penetrante odore animale che vi ristagnava, insieme a quello di vino scadente. Il centurione Caio Osterio, un omaccione con la barba ispida e le spalle enormi che mi sovrastava di tutta la testa, ci squadrò in malo modo come se fossimo animali con la rogna. «A voi due dovrei badare? Che non combiniate dei guai?» grugnì. Il tono derisorio mi riempì di stupore. Non avevo nessuna idea di quali fossero i guai cui accennava. Non lo conoscevo nemmeno questo centurione, era la prima volta che lo vedevo. Il liberto greco Hicesius, il mio aiutante, un magro sessantenne dalla carnagione scura, si fece piccolo dietro di me. «Ti chiedo scusa, centurione» risposi con il rispetto dovuto al grado. «Noi non siamo al corrente di alcun guaio. Io sono l'agrimensore Fausto Quintilio. Sei sicuro che devi parlare a me?» «Tu devi essere proprio un merdoso lavativo! Sei bravo con le chiacchiere a sgusciare come un'anguilla, me lo avevano ben detto!» ritmò il discorso battendo minacciosamente il bastone di vite per terra. «Per questa volta voglio prendere per buono che tu non sappia nulla. Solo per stavolta, sono stato chiaro? E d'altra parte voi due siete solamente degli stupidi civili e non c'è ragione che dobbiate essere avvisati in anticipo per ogni lavoro che c'è da fare. In realtà non riesco nemmeno ad immaginare cosa si siano inventati di darvi da fare. Forse imbrattare qualche papiro?» Scostandomi rudemente con la mano guardò fisso in volto Hicesius, lanciando poi un'occhiata di intesa allo spilungone, quello che avevo scambiato per attendente e invece, osservando meglio la consunta e sporca divisa, vidi che doveva essere un optio: «Cosa ne dici, Bàrico?» L'interpellato fece una smorfia come chi, per disattenzione, abbia pestato degli escrementi: «Scarti, Osterio! Noi non contiamo più nulla per il Comando, non c'è più nessun riguardo per noi vecchi! Mai avrei pensato di ridurmi così dopo vent'anni di servizio! I rifiuti li mandano tutti qui da noi!» Mi guardai bene dal fare commenti: avevo servito parecchi anni come agrimensore civile aggregato al Genio e sapevo che con gli ufficiali bisogna stare attenti a ogni parola che si dice, e che a tacere si può passare per tardi di mente, ma alla fine è meglio. Il liberto Hicesius, fattosi piccolo, si guardò bene pure lui dal ribattere. «Tacete, eh? Bene, bene! Almeno sapete riconoscere chi comanda! Vedrete che in qualche settimana sotto di me imparerete qualcosa, anche se siete solo dei civili. E adesso filate, ho già visto che siete degli scansafatiche! Gli ufficiali vi chiameranno loro, quando sarà ora.» L'optio Bàrico ci indicò la porta con un cenno del capo. Il sorriso di derisione mise in mostra una fila di denti marci. Era chiaro che non avremmo saputo altro dai due e non era il momento di fare domande. Appena fummo sul piazzale chiesi ad Hicesius, perplesso almeno quanto me: «Secondo te cercava proprio noi due il centurione?» Al greco le ambigue parole appena udite avevano approfondito certe rughe che già gli solcavano il volto: «Sarei tentato di credere che volesse parlare proprio con noi, ma non siamo al corrente di nessun altro lavoro che ci sia da fare, oltre a quello sul quale ci hanno messo per punizione. Né c'è avvisaglia di guai in arrivo. Nessuno ci ha detto nulla.» «Noi comunque non siamo dei lavativi!» precisai. «Siamo a posto col nostro lavoro. Non abbiamo niente in sospeso al cantiere della strada, che io sappia.» «Io non credo che c'entri nulla il rifacimento della strada. Quei due ufficiali non sanno nulla della strada per Giaffa, deve trattarsi di qualche altra cosa. Immagino che al Comando abbiano parlato di farci fare qualche altro lavoro senza dirci nulla e il centurione volesse solo vederci in faccia.» «Questo Caio Osterio sembra uno che si infiamma con niente.» «Sì, Quintilio, ho avuto l'impressione che non ami i civili, e il suo attendente, o optio che sia, quell'uomo alto coi denti marci, mi sembra della stessa pasta.» Uscendo dal Barìs, la fortezza che confinava col grande tempio dei giudei, feci un cenno agli uomini di guardia che stazionavano in armi presso il portone. «Deve essere così» conclusi incamminandomi verso la città vecchia. «Potrebbero forse interessare a un centurione le buche di una strada che in vent'anni nessuno si è mai preoccupato di riparare?» «Quintilio, quell'uomo ha spalle robuste e grandi mani, penso che i suoi argomenti siano assai diversi da quelli dei quali siamo soliti trattare noi. Ma tu sai che per via di quel nostro problema...» «Certo, non preoccuparti, vedrai che presto torneremo a Roma. Non voglio restare impegolato in lavori complicati qui in Giudea!» «Il centurione ha accennato a qualche settimana di lavoro sotto di lui.» «Non mi spaventa certo qualche giorno in più di lavoro! L'incarico per cui ci hanno mandati qui in Giudea l'abbiamo già portato a termine. Il foglio che mi avevano fatto siglare, quello sul quale c'era scritto che mi raffermavo, era solo una formalità per l'economo, perché potesse pagarci lo stipendium.» «Ho avuto l'impressione che il centurione Osterio non sia per nulla addentro ai problemi dell'economo e tratti tutti come indolenti ausiliari.» Ormai eravamo alle mura e per uscire dalla porta della città dovetti alzare la tavoletta di legno del lasciapassare al disopra della decina di teste di popolani che attendevano un cenno delle guardie. Un legionario vide che non eravamo giudei e mi fece segno col capo di passare. La mia posizione a Jerusalem, e quella del greco Hicesius, iscritto come mio aiutante, non era del tutto priva di rischi. Pochi giorni prima ero stato interrogato a proposito di un attentato. Ero stato considerato reticente dagli ufficiali e la mia posizione era spiacevolmente traballante. Per quello mi avevano comandato, per punizione, a dirigere dei lavori di manutenzione sulla dissestata strada che poco fuori le mura conduceva a Giaffa Dovevo controllare che le riparazioni eseguite da un furfante di impresario del posto, un certo Yael, fossero completate a regola d'arte. Questo impresario aveva fornito una dozzina di operai e faceva portare i materiali necessari, ghiaia, sabbia e roccia adatta a tagliare dei basoli, con un paio di carrette e con dei ronzini, ma solo quando faceva comodo a lui. Il greco Hicesius ed io sospettavamo che quello che forniva a noi lo prelevasse da un altro cantiere dell'esercito, facendo pagare gli stessi materiali non meno di due volte. «Che Yael ci derubi su tutto è sicuro! Sul numero dei viaggi, sulla quantità della sabbia, sugli operai. Su tutto!» Il greco annuì perché questo risultava dai suoi conteggi: «Ogni singola carretta di sabbia e ogni giornata di lavoro dei suoi indolenti schiavi è oggetto di accese discussioni e infiniti mercanteggiamenti. Questo è un lavoro miserabile di cui nessuno finora si era voluto occupare.» «Non appena si calmeranno le acque ci toglieranno da questa strada, poi ce ne andremo!» «Non so se potrò venire a Roma, Quintilio. Sai che ho in sospeso la solita vecchia questione con l'Erario di Stato, come liberto corro più rischi di un altro cittadino.» Era una vecchia pendenza che non era stata sistemata a tempo debito: un tribuno di quell'ufficio si aspettava dei denari sottobanco che Hicesius non gli aveva corrisposto. Una situazione che poteva generare pericolose rivalse. «Questa storia dell'Erario è sempre di mezzo, ogni tanto torna fuori! Potresti fermarti a Roma solo qualche mese, usare un nome di comodo e acconciarti in maniera diversa per essere meno riconoscibile. Con un po' di prudenza potresti riprendere le tue frequentazioni delle case patrizie e dei tuoi amici.» «Ci sto pensando, Quintilio. Verrei volentieri perché ho numerosi amici tra quei patrizi. Ho trovato delle brave persone tra di loro, sai che pagano bene i miei consigli e i servizi da argentario. Ma sono i cenacoli letterari che mi mancano più d'ogni altra cosa. A Thessalonica, non abbiamo dei gruppi di letterati ed eruditi di così alto livello come a Roma, per quello mi sono sempre trovato così bene nell'urbe.» «Senti, Hicesius,» mi guardai attorno che nessuno stesse ad origliare e abbassai la voce, «spesso mi nomini che abbiamo un mucchio di denaro da parte di cui non sappiamo nemmeno cosa fare. Bisogna che la chiudiamo con questo tuo annoso problema: possibile che tu che riesci a risolvere i problemi degli altri non riesca ad avere la buona idea per risolvere i tuoi? Nemmeno col denaro?» «Effettivamente sul banco che abbiamo insieme c'è parecchio denaro, è cresciuto grazie alla mia naturale predisposizione per queste cose. Ma tu, Quintilio, stai riducendo questa faccenda a una cosa troppo semplice, come se si trattasse di una scrofa che puoi andare a comprare al mercato, ma non è così purtroppo. Qui c'è di mezzo l'Erario di Stato. Oltre ai denari ci vogliono delle relazioni in alto, molto in alto.» Spendemmo in chiacchiere il miglio che ci separava dal cantiere e, quasi sul posto, vedemmo gli indolenti servi seduti all'ombra dei cespugli sul bordo della strada: lavori avviati non ce n'era nemmeno uno, né si vedevano in giro carrette di sabbia o di ghiaia. «Se oggi mi capita fra le mani quel furfante di Yael ti giuro che gli torco il collo!» mi sfuggì. Il greco scosse la testa: «È una vera punizione, non c'è dubbio!» I servi mi avevano visto alterato e si precipitarono a far finta di combinare qualcosa.
II. Eravamo alloggiati al Barìs, il presidio delle truppe romane a Jerusalem, una vecchia caserma che l'esercito aveva preso dai giudei; confinava col muro perimetrale del loro grande Tempio. Era stata adattata a ospitare sei centurie di legionari alloggiati in strette e scomode camerate. Era ormai buio quando, terminata la giornata al cantiere, Hicesius ed io rientrammo nel tiepido afrore di sudore, urina, legno antico e polvere del vecchio edificio. Al pianterreno si trovavano gli sgabuzzini dei centurioni oltre a una minuscola scuderia per i cavalli del comandante e di un paio di alti ufficiali. Il piazzale per le adunate occupava la parte centrale del fabbricato. Hicesius ed io avevamo ottenuto un minuscolo stanzino al primo piano, in fondo a un corridoio nel quale si trovavano gli alloggi degli ufficiali. Era diventato il nostro ufficio da agrimensori: il furiere ci aveva procurato un ripiano formato da alcune tavole di legno ben piallate e l'avevamo incernierato contro il muro con chiodi e brandelli di cuoio. Quando non ci serviva per lavorare lo sospendevamo verticale per avere più spazio. Il centurione Terenzio, l'aiutante del tribuno Condiano, il comandante del forte, ci venne a cercare in quella stanzetta all'ora d'andare alla mensa: «Il tribuno vi vuole vedere tutti e due. Portatevi le vostre tavolette cerate, di sicuro dovrete scrivervi qualcosa.» Lo strano dialogo della mattina col centurione ci aveva anticipato che si stava preparando qualcosa e non ci stupimmo della chiamata. Il tribuno Condiano aveva l'ufficio al primo piano, nell'altra ala della caserma; a dispetto dell'alto incarico che ricopriva era d'aspetto anonimo e basso di statura, lo si sarebbe detto un funzionario di poca importanza e tutti sapevano che per parlare con gli interlocutori restando allo stesso livello aveva fatto accorciare le gambe allo sgabello davanti alla scrivania. «Vanno avanti i lavori su quella strada?» chiese brusco senza nemmeno alzare gli occhi dal foglio di papiro sul quale stava apportando delle correzioni con calamo e inchiostro. «Certamente tribuno. Purtroppo la strada è in condizioni che peggio non si può: non è stata costruita come si deve, né riparata quand'era necessario, senza fare guai maggiori! Non c'è nemmeno il sottofondo, basta che i carri producano qualche buca e si creano delle cunette che...» «Spero che tu non ti voglia lamentare con me del tuo lavoro, agrimensore!» mi fulminò alzando gli occhi dal foglio e facendo cenno all'attendente che ci lasciasse soli. «No, tribuno. È che ci sono dei lavori che a prima vista...» «Noi romani non saremmo qui in Giudea se ci lasciassimo ostacolare da qualche buca lungo la strada!» Annuii senza osare ribattere e l'ufficiale mi fece segno con l'indice di sedermi sullo sgabello dinanzi al tavolo; il liberto Hicesius rimase prudentemente in piedi dietro di me. «Il nostro dittatore Cesare non ha guardato le buche quando ha dato un governo alla Siria e ha rimesso in riga quel furfante di Cecilio Basso. Saprai che non abbiamo ancora finito con quel maledetto!» «No, tribuno, mi sono sempre occupato di agrimensura.» L'ufficiale scosse il capo: «Voi del Genio vi interessate solo di quello che fa comodo a voi! Cecilio Basso è un pompeiano bastardo che oltre a fomentare una vera e propria rivolta in Siria ha fatto accordi persino con quei furfanti dei parti! Dopo la morte del dittatore Cesare il nostro governatore Gaio Cassio Longino ha ripreso il controllo della regione e gli ha concesso il perdono. Ora nessuno sa dove sia andato a nascondersi, si sospetta che possa essere in quelle regioni che non abbiamo ancora occupato a levante di Damasco. Luoghi che sono solo tane di predoni che assaltano carovane e uccidono mercanti. E ora oltre ai predoni abbiamo anche questi disertori!» Si arrestò un istante per cercare qualcosa in un pacco di fogli che stavano sulla scrivania. «Ti ho fatto chiamare, agrimensore, perché abbiamo un lavoro che deve partire a breve. Finisci alla svelta quello che stai facendo, nei prossimi giorni passerai a un nuovo incarico.» «Posso sapere di cosa si tratta, tribuno?» «Non so con precisione cosa ci sia da fare, delle misure di strade mi sembra d'aver capito. Andrete come civili e non deve sfuggirvi nemmeno una parola con nessuno, neanche qui dentro: l'esercito non deve mai comparire.» «Si sa in quale luogo dovremo recarci?» «Ve lo spiegherà il legato Corvo. Avete ordine di mantenere il totale segreto su questa operazione! Sono stato chiaro?» Annuii: «Dovremo metterci agli ordini di qualche ufficiale del Barìs per questa l'operazione?» «Passerete agli ordini del centurione Caio Osterio e dopodomani discuterete i dettagli col legato Corvo che è al comando di questa missione. Ora potete andare!» Stavo mettendo mano alla maniglia della porta quando udii il battere ritmico del calamo del tribuno sul tavolo e mi voltai. «Non una parola! Sono stato chiaro?» Abbassammo il capo facendo segno d'aver inteso. Conoscevo il generale Corvo, era stato lui che mi aveva comandato in Giudea l'anno prima. Aspettammo d'aver raggiunto il piazzale prima di fare qualunque commento: «Ecco perché il centurione Osterio ci aveva chiamati! Se ci sono di mezzo insieme il tribuno Condiano e il generale Corvo deve trattarsi di una cosa importante.» «Speriamo che si tratti di un'operazione breve» balbettò il greco. «La presenza del tribuno Condiano potrebbe stare a significare che si tratta di cosa che ha interesse per la Giudea, visto che in definitiva lui comanda questo presidio. Ma se c'è di mezzo il generale Corvo potrebbe essere cosa che interessa anche Roma.» Se in questa nuova missione erano previsti accampamenti legionari e pernottamenti in tende da contubernium mi sarei dato da fare per evitare al greco fatiche eccessive. Si stava avviando alla sessantina, non era più un ragazzo, ed era importante che fosse in forma per aiutarmi. Eccelleva nella matematica e nella geometria, scienze necessarie per assistermi nei rilievi e nei disegni. A volte purtroppo, come spesso avviene per le menti che si muovono al di sopra del gregge, si dimostrava poco pratico in banali questioni che un ragazzo di strada avrebbe risolto in un istante. Io ero abile nella mia arte di agrimensore e con la mia concretezza supplivo alle sue carenze. «Ho avuto l'impressione» mi riscosse il greco, «che il tribuno Condiano non conosca di cosa ci dovremmo occupare.» «Sì, è evidente che non sa nulla della nuova missione. L'ha anche detto, è una missione comandata dal generale Corvo. Ma se è comandata da un ufficiale che non è di stanza qui difficilmente riguarderà Jerusalem.» «In sostanza, comunque, ci ha già tolto dal lavoro alla strada per Giaffa.» «Sì, ci ha ordinato di chiudere le ultime cose, però prima vorrei parlare con il centurione Osterio. Non voglio passare a un altro lavoro ed essere tacciato di aver rubato una manciata di sesterzi!» «Temi forse che addebitino a noi i denari che l'impresario sta rubando al Comando?» «Non voglio passare per ladro e non voglio che nessuno possa permettersi di mormorare alle mie spalle!»
Il mattino seguente Hicesius ed io ci presentammo al centurione Osterio e cominciammo a spiegargli, con la dovuta prudenza visto il carattere sanguigno dell'uomo, tutte le nostre perplessità sui conteggi per la riparazione della strada. Il centurione era preso da altre cose e si infastidì alle nostre richieste: «Sentite, voi due! Ora non ho tempo di ascoltare le vostre storie di carrette di terra. Presentatevi stasera all'ora duodecima e spiegatevi con l'optio Bàrico. Oggi gli accenno qualcosa, ve la sbrigherete con lui.» «Questa storia con l'impresario Yael sta diventando una vera seccatura» concluse Hicesius mentre ci recavamo al cantiere. «Certo, è una rogna. D'altra parte cosa potremmo fare? Ti rendi conto che rischiamo di fare la figura dei ladri?» «Purtroppo sì, Quintilio. Tutto questo lavoro che ci è stato assegnato per punizione è una completa sciagura. Stasera dovremo farci valere perché anch'io non desidero farmi fama di disonesto contabile che deruba l'esercito.» La giornata in cantiere fu lunga e costellata di imprecazioni, ma a sera, all'ora duodecima eravamo davanti alla porta del bugigattolo del centurione. L'attendente ci fece entrare subito, e con stupore vedemmo che l'impresario Yael, un irritante piccoletto attaccabrighe, era già stato convocato e se ne stava seduto dinanzi alla scrivania con gli occhi che sprizzavano veleno. Immaginai che l'optio Bàrico avesse avuto istruzioni di chiudere alla svelta la sciocca questione. Presi un respiro profondo e avviai le spiegazioni: «Optio, a breve dovremo passare ad altro incarico e vorrei chiudere i conti in sospeso al cantiere per non essere incolpato di ammanchi. Di questo si tratta, abbiamo ammanchi sul numero di giorni di lavoro dei servi e sulle carrette di sabbia e ghiaia. Si tratta proprio dei servi e dei materiali forniti dal qui presente Yael!» L'impresario, astioso e pieno di veleno come un serpe, di certo abituato ad essere incolpato di furti, si scosse e sgranò gli occhi fingendo sorpresa, quasi non fosse nemmeno al corrente del perché era stato chiamato. Ma la sua reazione fu istantanea, ci maledisse senza nessun riguardo: «Che il vostro Mercurio vi faccia crepare all'istante! Avevate bisogno di venire fin qui da Roma, voi due inutili civili, per togliere il pane di bocca alla mia famiglia inventandovi degli ammanchi?» «Yael guarda che ti sbagli» gli fece eco Hicesius sfoderando il sorriso più conciliante del mondo. «I nostri conti sono esatti, guarda, stanno qui su questa tavoletta cerata, abbiamo scritto tutto. Per esempio le undici carrette di sabbia che tu hai segnato nella giornata di ieri, non le hai mai consegnate al nostro cantiere. Forse le avrai portate da qualche altra parte.» «Credo che tu sappia benissimo dove le hai portate», rincarai la dose, «anche se le hai addebitate a noi!» «Voi siete due maledetti ladri!» inveì l'impresario. «E spergiuri romani, idolatri per di più!» Infine, per completare l'opera, si rivolse direttamente all'optio: «Questi tuoi scribacchini sono dei veri furfanti, Bàrico!» Fu così che scoprii con immensa sorpresa che l'impresario chiamava per nome l'optio come se fossero vecchi amici. «Si inventano delle storie per cavarmi una decima sul poco denaro che mi paga il tuo Comando!» concluse. Allibii all'accusa spregevole e l'optio ci fissò con disprezzo mostrando di dar credito all'accusa. Fece un segno malevolo con la mano a me e al greco: «Non avevo dubbio che voi due avreste creato dei problemi, ma questa non me l'aspettavo proprio!» E mentre io dalla vergogna e dall'imbarazzo ero diventato paonazzo senza riuscire a mettere insieme una buona risposta, tagliò corto: «Andatevene! Siete una manica di cialtroni!»
Claudio Rossi
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