I. Giugno, anno 822.
«Allunga le braccia! Mi senti? Prendi le mani che ti tiriamo fuori!» La voce di Lucio mi giungeva ovattata. Ero rimasto sotto le macerie del tetto, se non fossi stato stordito per la febbre lo sarei stato per il fumigare delle canne date alle fiamme dagli insorti. «Marco! Svelto!» insistette la voce di Lucio. «Aggrappati alle nostre mani!» Tossendo gesticolai con le braccia finché sentii che qualcuno iniziava a tirare per cavarmi fuori dalle macerie fumanti. «Tira piano, Olger» disse Lucio, «ma vediamo di sbrigarci, dobbiamo toglierci da qui alla svelta! Tiriamo insieme. Deve essere bloccato con le gambe.» Loro due tiravano e le braccia mi dolevano, ma qualcosa mi tratteneva in mezzo alle fascine di canne, forse un palo che premeva sulle gambe. «Marco, vedi di muoverti! Fai forza con le gambe e spingi. Prova a piegare le ginocchia!» Mentre provavo a tirare e spingere venni investito da una nube di fumo e polvere con l'odore del sangue e il puzzo dolciastro di carne finita nel fuoco. Quel fumo mi tolse il fiato e mi costrinse a raccogliere tutte le mie forze: spinsi i detriti con entrambe le gambe e riuscii a muovermi. Lucio e Olger, il contadino che due giorni prima ci aveva ospitati nella sua casupola, mi sfilarono dalle fascine che avevano fatto parte del tetto. La canna era umida per la pioggia della notte e l'incendio non si era propagato, altrimenti mi avrebbe incenerito. Braci fumigavano ovunque, ma erano stati svelti e ne venni fuori senza un graffio. Appena il vento disperse il fumo vidi che eravamo nel bel mezzo dell'attacco: le fiamme divampavano tra le baracche e udii, insieme a grida e gemiti, il sibilo minaccioso di una freccia. Tossii e respirai a pieni polmoni, stordito, in quello stato simile all'ebbrezza procurato dalle febbri. Il fumo degli incendi era ovunque, i civili che con le loro famiglie vivevano nell'agglomerato di tuguri appena fuori dalla palizzata del forte stavano fuggendo. Centinaia, forse migliaia di attaccanti si stavano accanendo a svellere la palizzata con arieti improvvisati. Portavano la divisa dell'esercito romano e ad essi si erano uniti barbari della zona. Udii ordini secchi di ufficiali mescolati a grida scomposte nella lingua dei barbari che vedevano imminente il saccheggio del forte. «Stai basso, Marco! E vedi di muoverti! Sono ausiliari batavi e caninèfati» disse Lucio notando il mio stupore. «È una rivolta!» Le divise infatti erano quelle dei nostri ausiliari della Germania Inferior, in gran parte uomini delle terre basse che si trovano tra i rami in cui si divide il Reno prima di gettarsi nell'oceano. Si diceva da tempo che dovesse succedere. La boria di certi comandanti aveva superato la misura, e quegli ausiliari batavi che si erano ribellati non avevano fatto nessuna fatica a trovare molta altra gente del posto, tra cui i barbari caninèfati, disposti a seguirli con la promessa del saccheggio del forte di Traiectum. Molti di loro, parenti di donne o di giovani stuprati da legionari violenti e prepotenti, erano animati dall'ardente desiderio di pareggiare col gladio quei conti che erano ormai in sospeso da troppi anni e che non avrebbero mai potuto essere accomodati in altra maniera. Gli attaccanti non ci degnarono di nessuna attenzione: per loro eravamo innocui civili disarmati, e soprattutto non sembravamo nemmeno romani. Lucio cacciò le mani tra le macerie da cui mi aveva appena tirato fuori e afferrò le prime cose che gli vennero in mano: la mia sacca di cuoio con i calami e i papiri, e la vecchia groma tarlata, smontata e legata con uno spago; era quanto rimaneva del mio armamentario da architetto. «Ce la fai a camminare?» «Ce la faccio, ce la faccio» gli risposi, anche se non ne ero del tutto sicuro e mi sembrava che quanto vedevo oscillasse in maniera preoccupante. Le febbri mi avevano preso dopo aver percorso a piedi, tra frequenti piovaschi, le quasi cento miglia della Via militare da Castra Vetera fino a Traiectum. «Il lasciapassare! É nella tua sacca?» «Credo di sì.» «Speriamo. Dobbiamo fuggire.» Il lasciapassare era indispensabile per spostarsi nelle Germanie e su di esso Lucio, il tribuno Balbo, era stato iscritto con un falso nome. Riuscimmo ad allontanarci camminando bassi in mezzo alla polvere; grida provenivano dall'una e dall'altra parte mentre fascine venivano trascinate dai cavalli per alimentare le fiamme che ardevano intorno ai portoni e alle torrette di guardia del forte. Mi sembrò di sentir fischiare vicino un giavellotto. «Sbrigati, Marco, dobbiamo sparire. Non ci devono trovare quando il forte cadrà. Si ubriacheranno, sarà un massacro!» Eravamo romani, dovevamo andarcene perché qualunque rivoltoso ci avrebbe tagliato volentieri la gola. In quell'istante passammo attraverso una nube di fumo denso e inciampai nei corpi di alcuni uomini morti. Forse uno di essi non era ancora morto, mi sembrò di udire dei gemiti quando finii a terra in una pozza di sangue. La confusione era totale, fummo urtati da uomini e cavalli e perdemmo di vista Olger. Finii per terra altre volte, ma per nostra fortuna i ribelli batavi miravano al forte e non erano interessati a depredare i civili e i morti di fame che vivevano intorno a esso. Riuscimmo ad arrivare a un sentiero che costeggiava il fiume; non avevamo fatto nemmeno duecento passi quando udimmo alte grida provenire dal forte. «Hanno sfondato la palizzata. Ormai sarà questione di poco. Ce la fai...?» sussurrò Lucio. «Ce la faccio, certo.» Mi voltai indietro per un istante: un'alta colonna di fumo nero si alzava dalla guarnigione per allungarsi sulla pianura, sospinta da una leggera brezza. «Non se ne salverà nemmeno uno» mormorò Lucio scuotendo la testa. «Il forte di Traiectum è finito e la II Coorte Hispaniorum verrà sterminata! Dobbiamo andare più veloci.» Da lì a poco ci trovammo tra i grossi cespi d'erba di palude alti tre piedi che costellavano la sponda del fiume. Altra gente stava cercando come noi di allontanarsi in fretta; fummo superati da una famigliola con due ragazzini che mi guardarono spaventati e da un contadino con un asino carico di masserizie. Camminavano veloci, in silenzio. Quando fummo a mezzo miglio dalle ultime casupole dell'abitato fui costretto a fermarmi, e cominciai a vedere le cose intorno a me evanescenti come in un dormiveglia. Lucio capì che non ce la facevo più e mi trascinò tra le canne della sponda del fiume, l'unico posto ove ci si poteva nascondere. Allargando la cortina verde del fogliame entrammo nell'acqua fino al ginocchio e fummo fuori di vista. Lucio mi osservò in viso per un istante, non dovevo avere un bell'aspetto. «Qui siamo coperti alla vista, puoi prendere fiato» commentò, incerto sul da farsi. Pur restando invisibili tra le canne vedemmo allargarsi nel cielo una pigra colonna di fumo nero, ma eravamo ormai troppo distanti per udire i rumori dell'attacco. «La battaglia è stata fin troppo breve!» continuò il tribuno scuotendo la testa. «Forse insieme alle nostre truppe c'erano degli ausiliari. Si saranno rivoltati contro le truppe regolari, devono aver aperto loro le porte agli insorti! Una guarnigione come questa avrebbe dovuto far resistenza per giorni, forse avrebbero potuto salvarsi.» «Tu dici che li ammazzeranno tutti?» «L'esercito ha superato ogni limite coi batavi. Fammi controllare nella sacca.» Lucio ne esaminò il contenuto, attento che nulla cadesse in acqua. «È questo?» Mi mostrò un papiro piegato in quattro. «Sì, è quello.» Il lasciapassare non era andato perso. Lucio, il tribuno Lucio Balbo, proscritto dopo esser caduto in disgrazia, vi era iscritto con il falso nome del liberto Quinto Marino. Fingeva di essere il mio aiutante e lo chiamavo Quinto, trattandolo come un servo, se avevo sentore che fossimo osservati. Solo quando eravamo soli lo chiamavo col suo vero nome. «Il permesso lo terrai tu. Stai attento a non farlo cadere in acqua, ne avremo bisogno. Ora mettiti a tracolla la sacca e reggi la tua groma, sennò mollala nell'acqua, se anche si bagna non se ne avrà a male. Resta fermo in mezzo a queste canne. Io guardo se riesco a ritrovare Olger. Dobbiamo trovare un modo per andarcene.» Era il giugno dell'822. Per quanto fossimo stati prudenti durante la fuga, l'imprevisto poteva sempre capitare, e l'attacco al forte di Traiectum era cosa che non poteva essere prevista.
II.
Rimasi a lungo tra le canne, febbricitante, con le gambe a mollo nell'acqua del Reno. Dall'improvvisato nascondiglio udivo i mormorii della gente in fuga che passava lungo il sentiero, e pianti di bimbi. All'avvicinarsi dello zoccolare di un cavallo mi abbassai nel timore di essere visto. Non so per quanto rimasi lì, il tempo non passava mai. Ero scomodo, avevo i piedi a mollo e non mi potevo nemmeno sedere. Ma non mi fidai ad abbandonare il nascondiglio perché sapevo che Lucio oltre ad essere prudente era di parola. Se aveva promesso di tornare a prendermi, ebbene, sarebbe tornato. Avevo bisogno di bere, ma dopo aver visto i cadaveri che se ne andavano via trascinati dalla corrente preferii tenermi la sete. Venne il pomeriggio. Finalmente, quando non riuscivo più a reggermi, udii chiamare a bassa voce e Lucio ricomparve. «Non ce la faccio più a stare in mezzo a questo castigo di canne!» «Tieni duro ancora per un po'. Non sono riuscito a ritrovare Olger, ma so come fare per andarcene! Manca ancora qualche ora al buio. Approfitteremo delle ultime luci del giorno e con un pescatore di qui andremo a rubare una barca. Poi passeremo a recuperarti. Verremo dalla parte del fiume, entreremo con la barca tra le canne e da là ce ne andremo! Ce la fai a resistere fino a notte?» Scossi la testa e Lucio capì che ero in difficoltà. Trovò un palo, forse era stato parte di un'imbarcazione, e un groppo di radici portate dalle acque. Mi fece spostare nell'acqua bassa e mi preparò un rustico sgabello su cui potessi rimanere seduto e nascosto alla vista se qualcuno fosse passato dal sentiero. «Non devi farti vedere! E tieni all'asciutto il lasciapassare, ci servirà ancora. Tornerò al primo buio»
Verso il tramonto il vento cambiò e un po' del fumo del forte passò sopra i canneti. Aveva un odore strano, dolciastro; qualche cadavere, o un cavallo morto, doveva essere finito tra le fiamme. Non c'era nessun altro segno dell'attacco; i rumori del saccheggio e dei bagordi che erano in corso non giungevano fino a me. Quando calò il buio uscii dalle canne per stare un po' sulla terra asciutta e vidi in lontananza chiarori di braci; una vampa di scintille si levò alta quando un fabbricato minato dal fuoco rovinò a terra. Traiectum non esisteva più. A notte fonda udii chiamare. Mi inoltrai di nuovo tra le canne e ci chiamammo per un bel pezzo prima di riuscire a trovarci. Lucio aveva rimediato una barca da pesca ed era insieme ad altre due persone. Nel buio vidi ben poco, dovevano essere pescatori del posto, uno di loro mi sembrò un ragazzo di corporatura esile. Armeggiai non poco per riuscire a salire senza far affondare la barca e, nonostante udissi parole pronunciate nell'ostica lingua di questi luoghi, compresi che i due stavano discutendo dell'imbarcazione: era troppo piccola. «Non ce n'era una più grande?» domandai a Lucio. «Le avevano già rubate tutte! La gente del posto è fuggita con qualunque mezzo. Vedi di fartela andar bene questa barca, perché quando l'abbiamo rubata stavano uccidendo i legionari romani che si erano arresi. L'acqua intorno al pontile era rossa di sangue!» Non vidi l'espressione del viso di Lucio, ma percepii un'inflessione roca nella sua voce: quegli uomini erano legionari come quelli che lui stesso aveva comandato fino a pochi mesi prima. Uno dei pescatori parlava la nostra lingua. Mi fece stendere sul fondo dell'imbarcazione affinché non imprimessi scosse che avrebbero fatto entrare acqua dai bordi. Navigavamo assai bassi, qualche dito appena sopra il livello dell'acqua. Lucio immaginò ciò che stavo pensando e mi prevenne: «Scenderemo verso l'oceano per qualche miglio, giusto per allontanarci dai rivoltosi. All'alba dovremo fermarci per trovare dell'acqua da bere, e magari qualcosa da mangiare. Tu come stai?» «Sto bene... Sto bene!» mi affrettai a rispondergli. L'ondeggiare dell'imbarcazione si sommava a tutto quello che non voleva star fermo nella mia mente; da lì a poco per lo sfinimento mi assopii.
Mi scossero per svegliarmi e farmi scendere. Non era ancora sorto il sole, ma qualcosa si vedeva già. Avevamo accostato alla riva; nei pressi notai la sagoma scura di un paio di casupole di pescatori. Il giovane che era fuggito con noi, un biondino minuto di corporatura e di bassa statura, mi porse un orcio d'acqua da bere. «Si chiama Oot» disse Lucio. «L'altro è Almaar, un pescatore. Non credo che siano parenti. Almaar conosceva questo giovane di vista e ha voluto portarlo via dai rivoltosi. Il giovane ci ha dato una mano a far uscire la barca dal porticciolo.» «Ci fermeremo qui, oggi?» «Non lo so, non credo. Dobbiamo riflettere su cosa ci convenga fare. Almaar è un uomo esperto, sentiremo cosa consiglia di fare.» Lucio non doveva essere tranquillo, appena fummo soli mi disse all'orecchio: «Hai ancora il tuo coltello? Questi due non li conosco, faremo meglio a star attenti perché non so ancora se possiamo fidarci del tutto.» I due pescatori tornarono da lì a poco reggendo un lungo palo con arrotolato un telo: un albero e una vela per la barca e in breve riuscirono ad adattarli al piccolo scafo. Almaar fece segno che voleva parlarci. Per la prima volta potei osservarlo bene: doveva avere una cinquantina d'anni, la veste era sporca e piena di rattoppi, di sicuro se l'era cucita da sé con del grosso filo da reti. Il viso era bruciato dal sole e dal vento, e un paio di croste gli segnavano la fronte; le mani sembravano nodosi groppi di legno, per via dei calli del continuo maneggio di funi e attrezzi da pesca. «Vedo che il giovane sta bene. Non è fortuna da poco aver portato fuori la pelle da quell'inferno di Traiectum. I pescatori di qui dicono che le tribù della regione, insieme a batavi e caninèfati, si sono ribellate a Roma e stanno bruciando i forti uno dopo l'altro.» «Non sapevamo nulla di questa rivolta, altrimenti non saremmo mai venuti a Traiectum» rispose Lucio. «Traiectum non esiste più e ora gli insorti stanno risalendo il corso del Reno. Bruceranno ogni forte che troveranno sulla loro strada. La popolazione è con loro.» «Capisco, Almaar. Queste terre per noi sono troppo pericolose. Dove vorreste andare voi due?» «Noi non abbiamo famiglia. Viviamo sul fiume. Io non voglio essere arruolato a forza dagli insorti, e nemmeno Oot. Per quello è venuto via subito con noi. Forse potremmo trovarci qualche posto tranquillo lontano dai romani e dalle città dei batavi e dei caninèfati.» «Anche a noi conviene star lontani dai luoghi abitati. Ma io non conosco il Reno, né ho idea di dove vada.» «Il Reno percorre molte miglia tra terre piatte prima di gettarsi nell'oceano. In questa regione si divide in numerosi rami ciascuno dei quali sarebbe già un grande fiume. Le terre racchiuse dai fiumi sono le Isole dei Batavi. Ma non diresti mai che siano isole, ci puoi viaggiare per giorni senza imbatterti in qualche ramo del Reno. Sono terre fertili e i batavi vivono bene lì. Vicino all'oceano ci sono altre terre piatte abitate dai caninèfati, ma sono tutti luoghi che non vanno bene né per voi, né per noi. Ci sono delle terre poco abitate a occidente, al di là degli ultimi rami del Reno. Credo che laggiù la rivolta non sia ancora arrivata.» Il tribuno annuì. C'era poco da scegliere. Chiese ad Almaar: «Gliel'hai pagata la vela?» «No, non ho nemmeno una moneta, sul fiume ne usiamo di rado.» «Potrebbero andar bene quattro sesterzi?» «Sì, certo. Basteranno. Io non so se tornerò mai più in questi luoghi e se potrò mai renderla questa vela.» Il sole stava sorgendo e avevo visto alzarsi del fumo dai camini delle casupole. Era già ora di andare, meno persone ci avessero notato e meglio sarebbe stato per noi. Andò Oot a consegnare le monete, caricammo un orcio d'acqua e dopo pochi istanti fummo sul fiume. Fu stesa parte della vela e iniziammo a navigare spinti dal vento. La direzione era controllata da Almaar che stando a poppa correggeva la rotta di tanto in tanto con un remo immerso di taglio nell'acqua. «Vi servono proprio quei legni legati insieme?» chiese Almaar indicando la mia groma. Era l'ultimo strumento che rimaneva del mio passato da architetto, ma anche quelle poche libbre in più disturbavano il pescatore perché la barca era sempre bassissima; Oot con le mani a coppa gettava fuori di tanto in tanto un po' dell'acqua che penetrava dal fasciame. I due parlarono a lungo nella loro lingua, e dai segni che facevano capii che discutevano del carico eccessivo per colpa del quale il bordo dell'imbarcazione era troppo vicino al livello dell'acqua. Almaar ci spiegò: «Voi due cercate di stare immobili, se potete assecondate le manovre che faccio io con la vela: dovremo navigare ‘piatti', senza mai abbassare il bordo, altrimenti imbarcheremo acqua e andremo a fondo all'istante.» Ci guardò in viso per essere certo che avessimo capito, e diede ordine a Oot di srotolare un altro pezzo di vela. I due continuarono a discutere tra di loro per un bel pezzo. L'argomento era sempre il medesimo: il livello troppo basso dei bordi.
Claudio Rossi
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