I. La nave Occhione.
Era destino che quella bufera invernale dovesse rimanere impressa per sempre nella memoria di tutti coloro che in quell'anno ebbero la sfortuna di farne la conoscenza. Di coloro che, naturalmente, il caso lasciò sopravvivere. La nave Occhione vi finì dentro dopo la partenza dalla cala di Phaestos, usata dalle navi civili e militari come porto della città di Gortyna, a Creta. L'incontro con la bufera avvenne all'alba, dopo nemmeno un giorno di navigazione, quando un vento incostante, frequente agli inizi dell'inverno, non dava nessuna avvisaglia di quello che sarebbe successo. Quando il vento di tempesta precipitò all'improvviso sibilando sulla nave, era già troppo tardi: l'albero si spaccò come un fuscello, venne spazzato via insieme alla vela e ai cordami di manovra e, con l'arrivo di un cavallone che sovrastava la nave di decine di piedi, scomparve in mare. Alle prime grida di avvertimento dei marinai la nave era già irreparabilmente in balia del mare e del vento. «Mollate l'ancora grande!» Il grido di Demetrous, il magister navis della nave Occhione, per un istante superò il sibilo dei venti prima di perdersi nel rombo sordo della tempesta. Gli uomini, pur in mezzo all'altalena delle onde che percuotevano lo scafo, riuscirono a calare l'ancora frenandola con l'argano. Spesero tutta la fune, ma le acque erano troppo profonde: «Non prende fondo!» gridarono. «Mollate anche l'ancora piccola!» gridò di rimando il magister. Anche se l'ancora grande non si incagliava sul fondale avrebbe comunque ridotto lo scarroccio allineando la nave al vento in modo da permetterle di fronteggiare, con minor pericolo, le onde di prua. «Non prende neanche l'ancora piccola!» venne da lì a poco il grido dei marinai. In quell'istante un'onda enorme che sovrastava tutte le altre sollevò la nave di trenta o quaranta piedi: lo schiocco secco della fune che si spezzava diede l'addio all'ancora maggiore e la nave, liberata da quell'impedimento, sobbalzò in avanti prima di precipitare nel vuoto tra un'onda e l'altra. L'Occhione era una comune nave oneraria adibita a fare la spola tra le coste della Siria, Creta e il delta del Nilo; aveva a bordo un gregge di pecore da scaricare a Pelusium insieme a un modesto carico di altre merci dirette ad Alexandria: pesce sotto sale e anfore di vino. Il vero nome dell'oneraria era “Ermes messaggero degli dèi”, ma qualche sprovveduto aveva disegnato sulla prua due occhi di dimensioni smisurate, e la nave, che grazie a quella caratteristica poteva essere riconosciuta già da una discreta distanza, era stata ribattezzata “Occhione”. Qualche volta svolgeva servizi di poca importanza per l'esercito, trasporti di cavalli o di materiali che non richiedevano una nave militare. Accettava anche qualche passeggero disposto a pagare pochi denari e ad adattarsi a viaggiare senza nessun lusso. Approfittare delle navi onerarie che facevano la spola sulle coste orientali del Mediterraneo presentava parecchi vantaggi: nel porto di Joppe, in Giudea, ne capitava almeno una al giorno, ed era sufficiente recarsi alla banchina a chiedere informazioni ai facchini per avere la quasi certezza di ottenere un passaggio senza dover attendere troppo a lungo. Sulla nave erano imbarcati quattro civili che dopo la breve sosta a Creta proseguivano per Alexandria. Tra di essi spiccava un giovane di bell'aspetto che doveva avere poco più di vent'anni; dalla qualità della veste lo si sarebbe detto di buona famiglia. Con lui viaggiava un liberto, un quarantenne alto e ben piantato che forse fungeva un po' anche da guardia del corpo. I due dovevano essere originari di Joppe. Erano ben conosciuti alla banchina a cui attraccavano le navi: gli addetti ai controlli delle merci, i facchini e persino i funzionari del Dazio avevano dato loro un cenno di saluto quando si erano imbarcati. Completavano il gruppetto due civili in vesti dimesse, forse due di quei buoni a nulla che affollano le città di mare e che nessuno saprebbe dire da dove vengano o dove potrebbero essere impiegati. Quello più giovane, un trentenne dagli occhi inquieti con barba e capelli in disordine, non parlava molto; il suo servo, o liberto che fosse, un uomo più avanti con gli anni, canuto e magro come un pesce secco, fin dalla partenza non era stato zitto un istante per ciarlare delle meraviglie della città di Alexandria cui erano diretti, come fanno a volte i ragazzetti di dieci anni al loro primo viaggio. La stagione non aveva promesso a nessuno di loro un viaggio facile: si era già troppo avanti per navigare, per quello il magister si era tenuto fin che aveva potuto a poche miglia dalla costa, pronto a cercare riparo alla prima avvisaglia di bufera. Demetrous era un uomo esperto e dotato di una non comune abilità nel manovrare la nave Occhione, che per molti anni infatti aveva condotto nei porti del Mediterraneo. Da Joppe a Creta il sole era sempre rimasto nascosto: nuvole basse e grigie avevano accompagnato la nave, insieme a un vento secco che di tanto in tanto la scuoteva con cambi d'umore repentini. Da Creta il magister era ripartito per Alexandria non appena imbarcato il gregge di pecore e un carico di pesce sotto sale, mentre il cielo già si faceva inclemente. «Un inverno come questo non s'è mai visto!» aveva pontificato Ottavio Massimo, il timoniere, appena al largo di Phaestos. «Siamo a novembre e questo mare grigio sembra quello di febbraio!» E infatti dopo appena un giorno e una notte erano incappati nella bufera. L'Occhione alla deriva beccheggiava paurosamente: i sinistri fragori delle onde che ne percuotevano le fiancate sconquassavano la nave fino a quando, ingovernabile, si metteva parallela alle onde sobbalzando come un pezzo di sughero. Non era più possibile rimanere sul ponte, e nulla si poteva fare per favorire la navigazione; tutti gli uomini si ritrovarono nel sottoponte, separati dalle pecore, impazzite dalla paura, solamente da una griglia di legno. «Gli dèi stavolta ci faranno pagar cara la nostra imprudenza, Alceo!» disse il giovane di Joppe. «Se questo è il volere degli dèi noi non possiamo farci nulla» rispose il liberto, Alceo, colui che l'accompagnava. «Ma non siamo ancora andati a fondo. Se i venti ci portano verso il delta del Nilo la costa è tutta sabbiosa e abbiamo buone possibilità di arrivare a terra.» «Questa nave è solida, e il magister Demetrous è un uomo abile» ribatté il giovane. Ma che le cose non andassero per niente bene era testimoniato dagli assordanti belati del gregge di pecore nel ventre della nave, e dallo scalpitare delle centinaia di zoccoli degli animali spaventati, sballottati ora da una parte ora dall'altra. Demetrous, bagnato come un pulcino, scese dalla botola proprio in quell'istante e con lui entrò uno scroscio d'acqua. «Voi due!» alzò la voce rivolto a una coppia di impauriti marinai. «Mettetevi alla pompa! Spingete con maniera, non è il momento di rompere qualche pezzo! Andate avanti per un'ora poi vi faccio dare il cambio.» I due, troppo spaventati per rispondere, si infilarono nel pertugio da cui si accedeva alla pompa di bronzo usata per svuotare le acque che si infiltravano all'interno dello scafo. Infilarono i manici di legno negli appositi supporti dell'apparecchio e cominciarono a pompar via l'acqua di sentina. La tempesta non diede tregua all'Occhione e ai suoi sfortunati passeggeri. Per due giorni e due notti si alternarono scrosci furiosi e raffiche di vento che sconquassarono la nave spingendola sempre più lontano da Creta. Gli uomini ebbero solo qualche ora di falsa quiete e altrettante illusorie speranze, quanto bastava per ravvivare la chimera che il fortunale fosse finito. Ma ogni volta, dopo una breve tregua, una nuova bufera di vento riprendeva vigore, alternata a violenti piovaschi che formavano una specie di nebbia sul mare. In quelle condizioni era impossibile tentare le riparazioni necessarie a riprendere il governo della nave, e l'Occhione, frustata dal vento che sollevava ampi spruzzi dalla cresta dei cavalloni, continuò la sua corsa secondo i capricci di Eolo. Non c'era modo di controllare la rotta della nave: nemmeno i due timoni, ormai portati via dalle onde, sarebbero serviti a nulla, né un marinaio sarebbe riuscito a reggersi sul ponte dei timonieri spazzato dal vento e dalle micidiali sferzate di brandelli di funi. Gli uomini non potevano fare altro che tenersi ben nascosti nel ventre della nave, dandosi il cambio a osservare dalla botola che dava accesso al ponte, se mai si vedesse qualche terra sulla quale sarebbero andati a schiantarsi. Ogni parvenza di disciplina a bordo se n'era andata: un paio di marinai avevano apertamente incolpato il magister d'aver sbagliato rotta e di averli portati nel bel mezzo del fortunale; altri tre, terrorizzati dalla tempesta si erano rannicchiati in un angolo del carico, tra le anfore di vino, quasi sopra le pecore ormai impazzite di paura, fame e sete; stavano rivolgendo tardive preghiere agli dèi per avere salva la vita. Il terzo giorno sembrò che i venti scemassero, per quanto il cielo, nero e solcato di tanto in tanto da nubi biancastre che fuggivano velocissime, continuasse a non promettere nulla di buono. Nonostante la nave fosse ingovernabile il magister navis cercò di riportare una parvenza d'ordine a bordo: istituì turni di guardia per osservare se si vedesse una terra, si curò di far riaccendere i fuochi e finalmente tutti ebbero un pasto caldo. I turni alla pompa di svuotamento dell'acqua che aveva invaso lo scafo non furono interrotti se non per il paio d'ore necessarie a sostituire una spina di bronzo che si era consumata. Ognuno si scelse un posto sottocoperta per consumare in pace una ciotola di rancio e sonnecchiare, ma i due ospiti di Joppe preferirono trovar posto sulle balle di mercanzia, piuttosto distanti dagli altri. «Stiamo perdendo tempo in mezzo a questo mare in burrasca.» Alceo diede uno sguardo alla stiva buia: le pecore si erano finalmente quietate e gli uomini stavano sonnecchiando; arrestò lo sguardo su quei due viaggiatori coi quali si trovava a dividere lo sfortunato viaggio. «Li vedi quelli? Io dico che se ci salveremo da questo fortunale ci conviene fare amicizia con quei due imbecilli: sono civili ma stanno facendo qualcosa per l'esercito. Ho udito il più giovane che raccontava qualcosa al magister navis: si devono presentare al Comando di Alexandria. Cerca di allungare anche tu le orecchie, forse ne sapremo di più.» «Quello più anziano sembra uno speziale. Che lavoro potrebbe fare? L'istitutore? Vuoi che siano medici al servizio delle legioni?» ribatté il giovane, che rispondeva al nome di Costante. «Non lo so. Ma il vecchio non penso sia un medico, è pieno di chiacchiera, non fa altro che continuare a parlare, sembra una ruota di carretto che cigola! Che io sappia i medici curano malattie e ferite, parlano poco e sempre con molto distacco visto che il male non è il loro. Mentre il marinaio gli versava il rancio nella ciotola gli ho osservato le mani senza che se ne accorgesse: è uno che non ha mai fatto nessun lavoro. Anche il giovane sembra un buono a nulla, non riesco proprio a immaginare cosa potrebbero fare. Forse sono funzionari dell'Erario. Ma se per caso lavorassero davvero per l'esercito potrebbero fare al caso nostro. Dobbiamo farceli amici e stare insieme a loro, di sicuro verremo a sapere parecchie cose che non sono alla nostra portata.»
Come il liberto Alceo aveva temuto, le burrasche non erano finite e durante la notte onde vigorose ripresero a schiaffeggiare violentemente i fianchi dell'Occhione, con gli schizzi d'acqua che trovavano fessure sconosciute per lavare pecore ed occupanti della stiva. La mattina il timoniere Ottavio Massimo portò due lumi di bronzo nel cubicolo in cui si trovava la pompa, e fece segno al magister Demetrous di andare a vedere: «La pompa regge, di tanto in tanto diamo una ditata di sego ai perni delle leve, che si scaldano a forza di pompare. Ma non è quello il problema: da un paio d'ore controllo il livello dell'acqua. Anche continuando a pompare non si abbassa, secondo me entra acqua da qualche fessura.» Il magister esaminò attentamente il segno che Massimo aveva fatto su una centina: «Quando hai fatto il segno?» «Poco fa, all'alba. Per quello sono andato a prendere le lucerne.» «Due ore fa, quindi. Non c'è da meravigliarsi se a forza di scosse le connessioni del fasciame lasciano trafilare più acqua. Stoppa e catrame ne abbiamo a bordo, ma non arriveremo mai a quelle fessure che stanno sotto la zavorra.» Demetrous scosse il capo, riflettendo: «Questo carico non riusciremo a consegnarlo. È ora che tentiamo di alleggerire la nave.» Chiamò a raccolta i marinai: «Formeremo una catena e cominceremo a buttare il carico a mare. In questo momento c'è ancora vento forte, due uomini andranno sul ponte legati con una fune, per non finire in acqua!» Venne fatta una catena con una dozzina di uomini, e si cominciò con le pecore. Quasi che gli animali avessero capito cosa li attendeva, si pressarono tutti insieme a poppa e scalpitando spezzarono perfino qualche anfora di vino, il cui aroma invase la stiva. Ma il loro destino era segnato: furono abbrancate per il vello, una per una, e passate lungo la catena umana fino ai due uomini che stavano sul ponte che, senza cerimonie, le gettarono in mare. L'operazione andò avanti per buona parte della mattina, senza interruzione, e quando non si udì più nessun belato gli uomini cominciarono a passarsi le pesanti anfore di vino. Una alla volta furono anch'esse affidate a Nettuno. Verso l'ora settima il vento rinforzò di nuovo e l'operazione dovette essere fermata quando ne mancavano solo poche decine. La stiva era completamente sgombra e fu così possibile togliere alcune tavole del compartimento di carico e accedere alla zavorra. «È tutto allagato!» disse Ottavio Massimo, immerso nell'acqua fetida. «È impossibile segnare il livello, l'acqua va e viene, non sta ferma un istante.» Il magister Demetrous osservava da sopra l'apertura: «L'Occhione non ha mai navigato con tutta quest'acqua nella pancia. Proviamo a pompare e vediamo se riusciamo ad abbassare il livello!» La nave liberata dal peso del carico rollava tremendamente, ma verso sera, dopo lunghe discussioni e misure, i marinai conclusero che l'infiltrazione d'acqua nello scafo sembrava sotto controllo. Tutti diedero una mano con la pompa, anche i passeggeri; solo l'anziano fu esentato per impedire che si ferisse o facesse qualche danno. Il giorno seguente la pompa si ruppe di nuovo. L'apparecchiatura, per quanto robusta, non era stata costruita per rimanere in funzione senza interruzione, e l'usura di qualche perno costringeva a fermarsi di tanto in tanto per effettuare una riparazione. «Il problema vero è il vento» sentenziò Ottavio Massimo mentre sostituiva le spine che tenevano insieme le parti mobili. «Se questa bufera di vento non si ferma non riusciremo mai a riprendere il governo dell'Occhione!» Il magister Demetrous aveva udito ma non rispose nulla. Il suo silenzio fece capire a tutti che gli spazi di manovra si andavano riducendo.
Claudio Rossi
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